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venerdì 25 giugno 2010

Recensione narrativa: PISTOLERO FUORI TEMPO (AA.VV.)


Autore AA.VV.


Anno di uscita: 1975


Casa editrice: Collana Urania


Pagine: 155


Commento:

Antologia estremamente eterogenea uscita per la collana Urania (n.676), nel lontano 03.08.1975, che prende il titolo dal racconto di apertura.Non mi è dato sapere chi sia il curatore, la sensazione è che si tratti di un lotto di racconti (sette più uno) raccolti in un volumetto senza alcun progetto che fungi da collante. I racconti sono assai diversi tra loro, persino come generi. Abbiamo dei testi fantastici, altri sci-fi e una specie di saggio breve sul rapporto tra le pirami-Stonhenge e l’uomo. A livello di autori coinvolti, a parte Fritz Leiber (nell’occasione piuttosto opaco) non si registrano nomi di grande richiamo commerciale.
Procediamo tuttavia con ordine, iniziando l’analisi da “Pistolero Fuori Tempo” (Thataway) che è, come già ricordato, il racconto da cui prende le mosse l’antologia. Scritto da Edward Wellen (“antologista” con all’attivo una decina di pubblicazioni in Italia) è un racconto simpatico, ma niente più. Protagonista è un cowboy in attesa di esser giustiziato che, poco prima dell’esecuzione, sparisce per ricomparire in un set dove sfila una Colt e uccide un uomo intento a sfidarlo in duello. L’episodio si ripete per innumerevoli volte e in tutte le circostanze il detenuto sparisce prima dell’esecuzione e, dopo aver sparato, ricompare in cella. Di volta in volta, però, il cowboy diviene più vecchio e lento, finché il duellante non riesce a sconfiggerlo…
L’antologia prosegue con il racconto, ad avviso di chi scrive, più banale e noioso della raccolta, cioè “La Macchia rossa di Giove” (The Rescuers) per la firma di Theodor L. Thomas (varie apparizioni sulla collana Urania anche nelle vesti di romanziere). Ho espresso questo giudizio negativo sul lavoro di Thomas in quanto il soggetto ruota su un’idea interessante ma sviluppata in una maniera dozzinale e inverosimile. Assistiamo allo sbarco su Giove di un mezzo aerospaziale condotto da astronauti terrestri. La spedizione ha il compito di studiare e recuperare reperti dall’enorme macchia rossa che solca il più grande pianeta della nostra galassia. Giunti in loco, però, un grave problema rischia di impedire all’astronave di vincere l’enorme pressione e di resistere alla bassa temperatura di Giove. Solo grazie all’intervento di una razza aliena - con cui gli umani imparano a comunicare nel giro di venti minuti (!?) e che dimostrano di conoscere i metodi di misurazione terrestri come km, gradi e anni solari (!?) - emigrata su Giove settecento anni prima, gli umani riescono a salvarsi, scoprendo altresì che la macchia rossa altro non è che la superficie superiore di una mega nave spaziale aliena.
Dopo due racconti non trascendentali, si passa a un testo che, seppur non dotato di un’idea geniale, riesce a catturare l’attenzione del lettore dal primo all’ultimo rigo. Concepito dal giovane (all’epoca) Gordon Eklund, “Caccia al grande Serpente” (Sandsnake Hunter) è un racconto di herberteriana memoria (il riferimento è a Frank Herbert). La location della storia, infatti, è un pianeta alieno ridotto in un’infinita distesa desertica, dove dei grandi serpenti corrono sotto la sabbia a circa 150 km/h. Un gruppo di cacciatori umani caccia questi enormi animali, per estirpare le preziose zanne che fuoriescono dalle fauci. Eklund è assai bravo a caratterizzare i vari personaggi (bello il rapporto di amicizia che si instaura tra un indigeno, ripudiato dai suoi simili e dagli umani, e un ragazzo assai insicuro) e a scandire un ritmo che esorcizza il demone della noia.
Si passa poi a Fritz Leiber, scrittore che non necessita di presentazioni. Leiber con il suo “L’Ingegner Dolf(Catch that zeppelin!) delude le attese del lettore anche perché propone una storia, assai confusa, fatta di visioni e dejà vù (si tira in ballo persino Hitler). Alla fine si avverte un fastidioso senso di disorientamento che non viene scalzato da un epilogo che vorrebbe essere a sorpresa, ma che si rivela telefonato.
Dopo questi quattro racconti, viene proposta una gustosa parentesi con un saggio di John Sladek (autore di tutto rispetto anche se non conosciutissimo dal grande pubblico) intitolato “Dai vasti spazi dello spazio”. Sladek snocciola la sua teoria sulla relazione tra gli antichi popoli e le piramidi di Giza, i monoliti di Stonhenge e le teste dell’Isola di Pasqua. Dietro a tutto questo ci sarebbero dei “turisti” provenienti dallo spazio poi fuggiti a seguito della civilizzazione dell’uomo.
Si torna agli elaborati di fantasia con un racconto del pluripremiato e folle (nel senso positivo del termine) R.A.Lafferty, che la collana Urania ha omaggiato con ben tre antologie personali. Nella circostanza, il buon Lafferty offre un testo a metà strada tra l’horror e il thriller che non si segnala per quei colpi di genio che caratterizzano le opere dell’autore, ma che comunque si rivela un eccellente racconto di intrattenimento. In “Le tre ombre del lupo” (Three shadows of the wolf) assistiamo all’indagine di uno sceriffo impensierito da una serie di rapimenti e di uccisioni di pecore. Responsabile dei fatti sembrerebbe un grosso lupo mannaro. Ha così inizio una caccia che sfocia nella morte dell’animale anche se non viene rinvenuta la carcassa. Contemporaneamente, però, viene trovato morto un vecchio francese trafitto da un proiettile identico a quelli esplosi dallo sceriffo e penetrato nel punto esatto in cui quest'ultimo aveva colpito il lupo. Il poliziotto, però, non è uno scemo: scopre che dietro alla storia del licantropo c’è il tentativo di utilizzare le superstizioni contadine per coprire un omicidio bello e buono. Il lupo era stato addomesticato dall’aiutante dello sceriffo, i rapimenti erano stati eseguiti dall’uomo, mentre a commettere l’assassinio era stata l’amante del poliziotto stanca di sopportare il marito, appunto il vecchio francese. Il caso sembra risolto, e invece non è così, perché i licantropi, in questa storia, c’entrano davvero.
Si resta nel genere fantastico/orrorifico con un altro interessante elaborato intitolato “L’assassinio della madre del grano” (The killing of the mother corn), peraltro unica opera pubblicata in Italia dello sconosciuto Dennis O’Neill. Devo dire che in questo testo si respira un'intensa aria kinghiana, forse per l’ambientazione campagnola oppure per i ricordi di infanzia che vengono evocati dal protagonista. La storia risale al 1929, anno in cui il padre del protagonista decise di acquistare una radio. Il fatto potrebbe sembrare di risibile importanza e, invece, in paese fu un evento eccezionale in quanto nessuno, fino a quel momento, aveva mai avuto una radio. Non tutti si dimostrarono felici, anzi un vecchio indiano cercò di boicottare in qualunque modo l’accensione dello strumento. Il pellerossa affermava che le onde elettromagnetiche avrebbero ucciso la Madre del grano e avrebbero reso i terreni aridi. Le lamentele però non riuscirono a soffocare l’ostinazione del padre del protagonista il quale, però, una volta accesa la radio dovette fare i conti con un qualcosa che non avrebbe mai preventivato: un intenso grido di donna…
L’antologia si chiude con un graffiante e ironico racconto firmato da un mestierante come Robert F. Young. “Fattore X” (Hex factor) è un’intelligente parabola che, in chiave fantascientifica, rispecchia la situazione delle attuali economie. Assistiamo alla spedizione di un gruppo di commercianti terrestri che raggiungono un pianeta alieno con il fine di imparare la tecnica grazie allla quale gli indigeni riescano a costruire delle pile per auto elettriche e a venderle sulla terra a costi improponibili per i concorrenti terrestri. I terrestri scopriranno che il segreto non sta in una tecnica di produzione, ma in qualcosa di diverso…
Nel complesso, quindi, “Pistolero fuori tempo” è un’opera priva di un’identità propria che raccoglie racconti assai diversi e con risultati non sempre all’altezza. Buoni alcuni testi, noiosi altri. Voto: 6

2 commenti:

  1. Certo che agli inizi Urania amalgamava insieme di tutto e di più. Per certi versi è un bene per altri, invece, i racconti parlano da sé.

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  2. Si, è vero. Tuttavia, spesso sono presenti dei racconti che sono dei gioiellini e dimostrano una fantasia degli autori, a volte, sconfinata (penso ad alcuni racconti di Bob Shaw, Howard Fast e altri...).

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