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sabato 15 novembre 2025

Recensione Cinema: THE RUNNING MAN (2025) di Edgar Wright.

Produzione: Edgar Wright, Nira Park, e Simon Kinberg.
Soggetto: Stephen King, tratto dall'omonimo romanzo del 1982.
Sceneggiatura: Michael Bacall ed Edgar Wright.
Regia: Edgar Wright  
Montaggio: Paul Machliss. 
Fotografia: Chung Chung-Hoon. 
Colonna Sonora:
Interpreti Principali: Glen Powell, Josh Brolin, Colman Domingo, Lee Pace, Emilia Jones, William H. Macy, Michael Cera...
Durata: 135 min.


Commento Matteo Mancini.

Nel 1982 Stephen King, sotto lo pseudonimo Richard Bachman, dava alle stampe il secondo dei suoi due romanzi distopici (l'altro è The Long Walk, 1979), immaginando un'America del futuro totalmente in balia di un sistema televisivo distorsivo e di giochi crudeli che ingannano i disperati con la promessa di soldi facili e, al tempo stesso, distraggono e intrattengono un pubblico di frustrati che godono nel vedere morire chi tenta di passare dal ceto meno abbiente a quello più facoltoso. Del resto, il successo del prossimo provoca sovente fastidio a chi sguazza nella melma e nella mediocrità, dunque perché non sfruttare questo vizio capitale in una follia colletiva. King ambienta la storia proprio nel 2025, anno in cui il talentuoso regista inglese Edgar Wright decide, in simbiosi con lo stesso King (in veste di produttore esecutivo), di trasporre su pellicola il romanzo a suo tempo dato alle stampe dal Re, sotto pseudonimo. Edgar Wright è un nome di culto, salito alla ribalta sul finire degli anni novanta col western dal titolo “leonianoA Fistful of Finger (1994) e soprattutto con la cosiddetta “Trilogia del Cornetto” lanciata dal citazionista romeriano Shaun of the Dead (“L'Alba dei Morti Dementi”, 2004) divenuto fin dall'uscita un cult sponsorizzato nientemeno che da Quentin Tarantino. Un regista dunque promettente, interessato alle contaminazioni tra generi e connaturato da un'ironia sconfinante nel comico/grottesco, in un mix tra comicità, satira, azione e horror grandguignolesco che ha raggiunto il suo apice in Hot Fuzz (2007). Qua appare un Wright più maturo, meno giocoso e al tempo stesso più cattivo. Il citazionismo è evoluto in una progressione intellettuale che porta Wright a seguire le orme non più meramente visive ma anche filosofiche dei vari John Carpenter e David Cronenberg. Il suo The Running Man, a differenza del “carnevalesco” L'Implacabile diretto nel 1987 da Paul Michael Glaser e fortemente derivativo, più che dell'opera di Stephen King (che non lo riconobbe mai), di I Guerrieri dell'Anno 2072 (1984) di Lucio Fulci e, in parte, di Endgame – Bronx Lotta Finale (1983) di Aristide Massaccesi, si allinea al testo di King, introducendo il protagonista Ben Richards (una sorta di Jena Plissken) nella città di New York e non più in un'arena artificiale ricostruita nel perimetro dell'area televisiva. Si torna dunque sulle coordinate di King e si carica la visione di un sottotesto anarchico/rivoluzionario (si vedano i teli di sfondo che vengono proposti a Richards per registrare i suoi messaggi) che conduce il film nel solco di prodotti quali Escape from New York (“1997 Fuga da New York”, 1981) e Videodrome (1983) in un clima, sia per il montaggio che per il testo, che rimanda ai perduti anni '80, con i suoi antieroi destinati a fallire (qua, purtroppo, si rabbercia il finale) eppure a lasciare un segno più mercato dei vincenti. Un'impostazione sognante che è andata a perdersi e che molto di rado capita di vedere nei prodotti cinematografici del nuovo secolo. Il The Running Man di Wright, che pure omaggia a più riprese l'omonimo film interpretato da Arnold Schwarzenegger (vediamo la sua faccia sui nuovi dollari), è un film cupo dove l'ironia, sebbene presente (si veda la sequenza nell'abitazione del nerd che ha trasformato in un Vietnam la sua casa), viene surclassata da una tragicità grottesca in cui tutto è modificato e tutto è sacrificabile in virtù delle esigenze televisive, tra sponsor, proclami esasperati e luci colorate. Il testo di King, del resto, è fortemente debitore di opere letterarie filo-anarchiche e complottiste quali il romanzo 1984 (1949) di George Orwell e soprattutto la narrativa dello scrittore Robert Sheckley, in particolare il racconto Seventh Victim (“La Settima Vittima”, 19530), poi trasposto nei cinema e girato a Tirrenia (Italia) dal vincitore del Premio Oscar Elio Petri col titolo La Decima Vittima (1965), fino al successivo romanzo Victim Prime (“Vittime a Premio”, 1987). Uno zoccolo duro di opere che ha poi generato un vero e proprio sottogenere, quello dei cosiddetti Hunger Games. Solo in Civil War (2024) di Alex Garland, tra le recenti produzioni hollywoodiane, ho visto lavorare su coordinate di questo tipo, per confezionare un film che abbia davvero recepito la lezione dei grandi maestri degli anni '80, penso anche a The Crazies (“La Città Verrà Distrutta all'Alba”, 1973) di George A. Romero. Un film quindi che sa unire la spettacolarità ai contenuti di critica sociale, riproponendo (c'era anche nel film di Glaser) l'idea di un sistema massmediatico che trucca tutto, effettua montaggi ad arte e manda in onda immagini ed esternazioni modificate dall'intelligenza artificiale. La morte diviene spettacolo, filtrato da una lente manipolatoria e ipocrita in cui si cerca a ribaltare gli stessi contenuti proposti. La preda è il buono, mentre i predatori sono cattivi, per non parlare di chi tiene in mano le regole del gioco. È tutto falso. Il gioco è un anestetico per coprire politiche che sacrificano la vita dei cittadini per il bene del sistema economico. In città ci si ammala, ma questo viene accettato. I sindacati vengono sciolti, chi lotta per fare valere i diritti diviene un insubordinato bannato dal sistema. Ecco che un reietto come Ben Richards diviene il detonatore di un sistema destinato a esplodere.

 

PROSSIMAMENTE

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