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mercoledì 14 novembre 2018

Recensione Narrativa SFIDA AL CANYON INFERNALE di Robert E. Howard.



Autore: Robert Ervin Howard.
Titolo Originale: Showdown at Hell's Canyon.
Anno: 1928-36.
Genere: Western.
Editore: Fratini Editore, 2014.
Collana: Mellonta Tauta.
Pagine: 380.
Prezzo: 20 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Troviamo per la prima volta su queste pagine un volume di Robert Ervin Howard. Ovviamo a questa grave pecca, curiosamente, con quello che è il testo più atipico nel panorama editoriale italiano legato alla produzione di questo scrittore texano del primo novecento.
Identificato da tutti quale padre del sottogenere fantasy sword and sorcery (spada e magia) e dell'Heroic Fantasy per aver segnato lo sviluppo della cultura fantastica ideando, tra tutti, il personaggio di Conan il Barbaro, Robert Ervin Howard è forse l'autore più completo che si è distinto sulle pagine pulp e weird. Apprezzato e lodato in ambito fantastico e persino poliziesco (con le storie del detective Harrison), Howard era praticamente sconosciuto sotto il versante western, prima della lodevole pubblicazione a cura dei volponi Walter Catalano, Roberto Chiavini, Gian Filippo Pizzo e Luca Ortino per la fiorentina Fratini Editore, Sfida al Canyon Infernale è un'antologia composta da otto racconti che colmano un'insipegabile lacuna del mondo editoriale italiano. Non a caso Howard scrisse qualcosa come circa cinquanta racconti puramente western, oltre una manciata caratterizzati da commistioni tali da esser reputati weird western. Non solo, lo scrittore texano scrisse, poco prima di suicidarsi (giovanissimo), di valutare l'idea di concentrare ogni suo sforzo sulla narrativa western, abbandonando ogni altro genere. Appare pertanto evidente quanto Howard apprezzasse il genere e quanto lo sentisse proprio. Non a caso sono molti gli studiosi che sostengono che abbia sempre scritto un western mascherato, anche quando scriveva i racconti che lo hanno reso maggiormente più famoso ovvero gli horror e i fantasy.
Dunque il volume è una tappa fondamentale per gli amanti della narrativa western (credo pochi) e soprattutto per gli studiosi (credo tanti) della narrativa di colui che fu definito, per la qualità e la quantità dei racconti pubblicati, uno dei tre moschettieri (gli altri due erano H.P. Lovecraft e C.A. Smith) della celebre rivista americana weird tales
Eppure leggendo gli otto racconti scelti dai curatori dell'antologia, presentati in ordine cronologico di uscita sulle riviste americane (quattro su otto usciti postumi) emerge un manipolo di testi, senz'altro buoni e ben scritti, ma non all'altezza con l'estro visionario e onirico dell'autore. Howard abbandona lo spiccato sense of wonder tipico dei suoi testi, cade vittima delle ripetizioni nelle costruzioni degli schemi comportamentali dei vari personaggi, dimentica la componente magica e le sinistre atmosfere tipiche della serie Solomon Kane, per stendere testi puramente western, dei veri e propri antesignani del western all'italiana (piuttosto che di quello cinematografico americano dei vari Ford, Sturges e Hawks). Particolare anche l'ambientazione delle storie che è sempre contraddistinta da città di frontiera, assolate e polverose da cui, spesso e volentieri, i pistoleri si lanciano nel cuore del deserto per sfidare ripide pareti rocciose di canyon da scalare per combattere nelle varie insenature o realizzare segreti luoghi di ritrovo.
Il western howardiano è un genere ricco di azione, di duelli e di sparatorie dallo spiccatissimo impatto pulp, dove violenza, eroismo e sangue sono i protagonisti indiscussi. Ma è anche un western in cui ricorrono alcuni minimi comun denominatori, a partire da un'etica cavalleresca che segna i limiti della violenza. Ecco allora l'elevazione della donna su una sorta di piedistallo intoccabile, ma anche il rispetto per l'avversario da affrontare solo se in condizione di difendersi. Non c'è una netta divisione tra buoni e cattivi. I "buoni" di Howard sono i meno cattivi, trattandosi, un po' come avverrà nello spaghetti western, di personaggi che sono più ascrivibili al rango dell'antieroe piuttosto che dell'eroe che segue i crismi della legge e i valori del cittadino modello. A differenza dei pistoleri "italiani" quelli di Howard sono dei romanticoni, che si innamorano facilmente e che perdono letteralmente la testa per un donna, al punto da dimenticarsi dei tesori nascosti, di mutare completamente i propri progetti e persino di non accorgersi del nemico che sta per incombere minaccioso.
Niente sceriffi, contadini o giudici a farla da padroni, ma banditi in cerca di riscatto, mandriani che ricorrono all'uso delle armi per difendersi, giocatori d'azzardo, persino falsi sceriffi che sfruttano l'incarico in vista di un colpo da mettere a segno. In una parola sono i reietti i veri eroi. Ne deriva quella che potremmo definire una vera e propria apologia dell'uomo macho. Non a caso, un po' come nella saga di Conan, anche qua è, il più delle volte, l'uomo muscolare o comunque saettante con la pistola a incarnare il profilo del dominatore del west, un mondo in cui l'unica cosa veramente democratica resta la Colt, uno strumento che abbatte ogni differenza e rende tutti uguali, a condizione di saperne fare buon uso.

Quanto sopra per i contenuti, quanto allo stile, invece, si tratta di racconti molto scorrevoli, scritti con un taglio e un linguaggio moderno che non risente affatto dei quasi cento anni di età. Efficacia anteposta ai lirismi. Howard scrive senza fronzoli pur adottando un lessico che rimanda al mondo del fumetto, molto colorito e squisitamente pulp. Ritmi serrati, costruzioni delle storie tali da mantenere costante la tensione evitando quello che diverrà il marchio di fabbrica del western cinematografico americano ovvero lo sviluppo crescente del soggetto, così da dar vita a un ritmo regolare in vista dell'apice finale. Qua, come direbbe Sergio Leone, c'è invece un finale ogni tre pagine, con un ritmo che sembra più il riscontro offerto da un sismografo poco dopo una scossa tellurica.
Occorre pertanto ribadire i complimenti alla Fratini Editore, per la collana Mellonta Tauta (l'abbiamo già incontrata in occasione della recensione di Terrore Nero di Whitehead), che ha realizzato un testo ben curato nelle traduzioni e nell'impatto visivo, ma ha soprattutto sgombrato un intenso strato di nebbia su una produzione, fino al 2014, completamente sconosciuta in Italia e che necessitava un approfondimento. Certo, il prezzo di 20 euro non è proprio poco, ma la cosa può comunque non spaventare l'acquirente anche perché sembra che la reperibilità non sia poi così agevole, tanto da far del volume un testo quasi da collezionista.
Chiudo questo esame generale invitando la Fratini Editore a insistere su queste pubblicazioni, da cui tuttavia sembra essersi allontanata da alcuni anni, preferendo altri soggetti e tematiche. Pubblicare volumi come questo significa entrare nel ristretto cerchio degli editori che finiscono per essere ricordati nei testi e nei saggi di studio di personaggi monumentali quali Howard o Whitehead. Pertanto, anche se non troppo supportati dai riscontri delle vendite, pubblicare autori di questo crisma non può che essere un ottimo investimento anche sotto il profilo del ritorno pubblicitario che ne deriva. Incrociamo le dita e attendiamo un nuovo numero per la collana Mellonta Tauta.

Copertina di un volume western
americano di R.E. Howard.

ANALISI PARTICOLARE DEL TESTO CON SPOILER
Il primo racconto che apre l'antologia è Drums of the Sunset (Tamburi al Tramonto) pubblicato a puntate su Cross Plain Review dal novembre del 1928 al gennaio del 1929.
Racconto piuttosto classico, scritto con verve pulp e con qualche venatura stereotipata ai danni degli indiani, caratterizzati con cenno un po' razzista (qualcuno potrebbe definire da scrittore di destra, ma a noi queste cose non interessano) in linea con quanto si vedrà poi di seguito al cinema, prima del successo di Soldato Blu che porterà al c.d. revisionismo. Incuriosisce il lato romantico di Howard e il suo pompare le doti temerarie e di coraggio dei Texani, peraltro suoi corregionali.
La storia vede tre falsari rintanati in cima a un monte, intenti a fare quattrini ai danni degli indiani a cui cedono whisky e rifilano dollari falsi. Accortesi dei raggiri e inebriati dal liquore, gli indiani iniziano a suonare i loro canti di morte, di sera in sera, sempre più forte. Nessuno però sembra dare peso alle stranezze musicali che echeggiano nella notte, neppure il protagonista. Quest'ultimo è un viandante di passaggio che viene informato da colui che gli concede ospitalità che su quei monti c'è una ricchezza inestimabile d'oro e quarzo, ma non ricorda più dove l'abbia vista, perché una frana è scesa a celare quanto scoperto in passato. Incuriosito dalla rivelazione, il giovane si inerpica sulle ripide pareti rocciose e scorge una bellissima ragazza di cui si innamora per effetto del classico colpo di fulmine. L'amore è più importante del tesoro, forse è il vero tesoro, sembra suggerire un Howard mai così romantico. Ecco che il ragazzo, infatti, si disinteressa della miniera e, quando il vecchio gli chiede notizie, fa il vago non ricordandosi neppure di quanto gli era stato detto. Lo si sa, l'amore ottenebra le menti, specie se corrisposto. Tutto facile, allora? Manco per sogno, perché la giovane è tenuta semi-prigioniera dallo zio e da altri due uomini che non le concedono la giusta libertà, perché temono che abbia visto qualcosa di compromettente da non rivelare a terzi. La stessa infatti ha visto i macchinari con cui i tre producono i soldi falsi. A risolvere tutto ci pensano gli indiani. Mentre i giovani programmano di fuggire, i pellerossa scagliano il loro attacco alla baracca in cima alla montagna e compiono un massacro degno della penna di Howard. Il protagonista finisce preda della disperazione e della follia, perché le tre vittime sono i falsari, mentre la ragazza che gli ha rapito il cuore è scomparsa nel nulla. Sarà stata rapita o bruciata nel rogo? Parte la spedizione di recupero, piuttosto rambesca, alla caccia degli indiani, col protagonista e il suo ospite che libereranno la ragazza e si salveranno per effetto della divina provvidenza e dello scarso studio del territorio da parte degli indiani. Questi ultimi, all'inseguimento, scateneranno una tremenda frana, scendendo da un ripido crinale, con la conseguenza di liberare dei massoni talmente grandi che distruggeranno un vero e proprio plotone di pellerossa, vittime di loro stessi, con i “nostri“ ormai rassegnati con un cavallo azzoppato e uno datosi alla fuga.
Il buon esito finale porta i due giovani a baciarsi, promettendosi amore eterno e parlando già di matrimonio. Il vecchio che ha dato ospitalità al protagonista, pur avendo subito uno scalpo da giovane, onorerà a suo modo i rivali di sempre, dicendosi dispiaciuto di veder morire così tanti uomini in un colpo solo. Ma c'è di più... qualcosa che allontana subito la nobiltà d'animo... la frana ha denudato la parete di quarzo e di oro che era finita nascosta anni prima... i tre possono così considerarsi ricchi.
Testo semplice, scritto in modo moderno e accattivante. Howard è convenzionale nel soggetto, ma giostra bene gli elementi della storia e alla fine piazza un testo di tutto rispetto pur nella sua semplicità. 

La lettura prosegue con Boothill's Payoff ovvero La Collina degli Stivali. Testo del 1935 pubblicato su Western Aces, curiosamente intitolato come un successivo film della coppia Bud Spencer e Terence Hill col quale non ha nessun legame. Howard conferma lo stile fluido, infarcitissimo di azione, sia a livello di sparatorie che di scontri fisici. L'anima pulp è apprezzabile e il senso del ritmo sollecito, tanto da dare l'idea più di un western all'italiana che di un classico americano.
Protagonista è un giovane che ritorna nel paesino di San Leon, in cui è cresciuto, col fine di risarcire gli abitanti per i furti e le razzie perpetrate anni prima insieme ai fratelli. Giunto in paese, però, scopre che è all'opera un'altra banda di delinquenti che firma i propri delitti col nome della precedente banda ovvero quella dei fratelli del protagonista (che in realtà sono tutti morti). “I tuoi fratelli erano dei bastardi, ma pur sempre dei bianchi. Uccidevano senza rimorso, ma in modo pulito. Questi ratti non si contentano di rubarci le mandrie. Bruciano i ranch e avvelenano l'acqua dei pozzi come una tribù di maledetti apache.” Così parla un vecchio del paese disposto ad aiutare il ragazzo che, nel frattempo, è stato accolto sotto una grandine di piombo. Traspare ancora una volta la sfiducia howardiana, e degli scrittori (e poi registi) western dell'epoca, per la categoria degli indiani, tratteggiati alla stregua di sanguinari e scorretti. Qua però gli indiani non sono responsabili di niente, addirittura non fanno parte del racconto. Dietro alla banda c'è l'insospettabile banchiere del posto che mira a diventare il padrone assoluto dell'area, mandando in rovina i mandriani, colpendoli prima con i furti del bestiame e poi costringendoli a ricorrere a prestiti dallo stesso offerti, al corrispettivo di ingenti interessi, così da indurli a cedere i terreni per risarcire i debiti.
Il protagonista del racconto riuscirà a riabilitare la propria famiglia e soprattutto sé stesso, debellando la banda in un pirotecnico finale, in un rifugio incastonato in mezzo ai canyon, grazie all'aiuto offerto dallo sceriffo e dai pistoleri del vecchio amico. Sparatorie, scazzottate e cavalli al galoppo sono il cliché offerto dalla lettura. Howard non dimentica la sdolcinata chiusura in cui, oltre alla giustizia, trionfa anche l'amore. Il “nostro” troverà infatti la donna dei propri sogni, dichiarandosi alla sorella dello sceriffo con la quale un tempo andava a scuola. Sarà lei a convincerlo a restare e a mettere su famiglia, nella pura tradzione del western all'americana. “Ti amo anche io, Buck. Ti ho sempre amato da quando ero una bambina e andavamo a scuola insieme. Mi sono solo costretta a non pensare a te negli ultimi sei anni. Ma ero innamorata del tuo ricordo... ecco perché ero così addolorata per il tuo essere diventato un bandito... Sapere che sei sempre stato onesto e onorevole è come sollevare per sempre l'ombra nera che era scesa fra di noi. Non mi abbandonerai, vero?” Dunque un testo di sicura presa per i lettori dell'epoca che mischia azione, buoni propositi, eroismo degli uomini di legge e romanticismo.

Non molto dissimile per location ed epilogo finale è Il Nido dell'Avvoltoio, pubblicato quale Vulture's Sanctuary, nel novembre del 1936 su Argosy. Howard amplifica l'eroicità del protagonista che sfida un'intera banda debellandola all'interno del covo della stessa, ancora una volta in un impervio luogo nel cuore dei canyon. Nella circostanza lo fa mandando allo sbaraglio un muscolare texano che intraprende l'azione solo perché una ragazza, che per giunta lo ha umiliato a inizio racconto, è finita nelle mani di un gruppo di reietti. "Come la maggior parte degli uomini della frontiera, era molto sensibile a qualsiasi questione che riguardasse le donne... Il codice per cui viveva, quello rigido e adamantino delle frontiera texana, non permetteva alcuni tipo di rappresaglia verso una donna, a prescindere dalla provocazione subita." Vediamo dunque ancora una volta esaltato il galateo, se così lo vogliamo definire, texano, oltre al marchio di fabbrica howardiano di portare al centro delle proprie storie la figura femminile, vista come un qualcosa capace di influenzare i comportamenti dei rozzi e temerari uomini sempre in bilico tra la vita e la morte. Non mancano poi le scoccate velenose verso le categorie indisiderate. Chissà cosa penserebbe un lettore di sinistra dei tempi odierni, leggendo Howard. Probabilmente sarebbe orientato a catalogarlo quale scrittore di destra, ma a noi frega qualcosa questo? Leggiamo forse un certo tipo di narrativa chiedendoci se l'autore fosse di destra o di sinistra? Per quel che mi riguarda, leggo certi testi per altri motivi, per il c.d. sense of wonder o per il ritmo e il coinvolgimento avventuroso e adrenalinico che sanno creare certi autori. Il dovere di cronaca ci porta però a sottolineare alcuni aspetti, forse stucchevoli o comunque politicamente scorretti. Così leggiamo frasi quali "un bianco andava in soccorso di una fanciulla in pericolo, a prescindere di chi potesse essere, mentre per i pellerossa e i messicani le donne bianche erano merce pregiata." Evidente ancora una volta la distinzione razziale operata da Howard. Tuttavia, nel racconto c'è qualcun altro che reputa le donne una merce pregiata e questo qualcuno è El Bravo, il leader dei reietti (un bianco, ex uomo delle istituzioni), che si prende la ragazza oggetto della contesa come dolcetto con cui deliziare il proprio palato. E' per lei che il texano sfiderà la morte in "una partita disperata" solo perché "è abituato a giocare con il diavolo e a distribuire carte letali." El Bravo, inoltre, ha un conto in sospeso con lui. Personaggio curioso questo antagonista. Si tratta di un ex sceriffo, destituito perché dedito al crimine, che ha organizzato una vera e propria banda di reietti costringendo gli stessi a versargli un quota di adesione per far parte della banda. Un po' come i bambini di una scuola calcio, per intendersi. Potrà far ben poco contro l'arguzia e l'astuzia del protagonista. "Questo demonio non sarebbe mai venuto qui da solo, a meno di non avere qualche asso nella manica..." Eppure il nostro non avrà alcun asso, ma solo un bluff, tuttavia decisivo.
Letto ai giorni nostri non si può che convenire sul fatto che siamo alle prese di un elaborato rambesco, un bel po' ingenuo. Il nostro texano riuscirà a entrare nel covo dei cattivi con uno stratagemma e riuscirà a capovolgere a proprio favore la situazione, ormai legato come un salame, facendo sorgere dei dubbi nel capobanda così da fargli pensare che i propri uomini lo abbiano tradito, mettendoli così l'uno contro l'altro.
Si conferma il taglio pulp, così come quel romanticismo che sembra pervadere tutti i racconti del genere firmati R.E.Howard. Alla fine il bene trionfa e la donna può guardare con un occhio dolce al suo eroe salvatore. O quanto siamo machi noi uomini di azione, sembra suggerire Howard, strizzando l'occhiolino a ragazze desiderose di scorgere lo spirito di azione e di sacrificio negli uomini dei loro sogni, così da poterli accudire e,a  fine battaglia, disinfettarne le ferite sugli addominali e i pettorali tremanti, bramando un abbraccio che le possa far sognare.

Howard allunga la distanza, proponendo addirittura un finale alternativo, con Vultures of Whapeton edito, nel dicembre del 1936, su Smashing Novels e offerto al pubblico italiano col titolo de Gli Avvoltoi di Whapeton. Oltre cento pagine per quello che è quasi un romanzo breve. Howard dimostra il gusto per l'azione e il pulp e la storia che ci propone ha un sapore non troppo lontano dagli spaghetti western che sarebbero nati poco meno di trent'anni dopo. Lo scrittore texano costruisce un violentissimo noir ante litterram ambientato nel solito paesino di frontiera, con venature gialle e molte sparatorie. Saloon, ufficio dello sceriffo e celle sono le location di questo western prevalentemente notturno e urbano.
Il protagonista è il solito rude texano, veloce nell'estrarre le armi e di corporatura robusta, che finisce per innamorarsi di una donna che ne determinerà i comportamenti finali (specie nello sdolcinato finale alternativo). Howard cerca di caratterizzare la figura con piglio maschilista e sempre guardando a quel codice non scritto di rispetto verso la figura femminile, ritenuta sacra e inviolabile in un'ottica cavalleresca più incline al periodo medioevale che al west. "Un vero pistolero non era semplicemente un uomo dotato di vista più acuta e muscoli più reattivi rispetto a una persona comune; era anche un fine psicologo, uno studioso della natura umana, la cui vita dipendeva dalla correttezza delle sue conclusioni."
Il soggetto è di quelli che avrebbero fatto la fortuna dello spaghetti western, anziché uno più fedele ai cliché fordiani votati all'importanza dei valori e della famiglia e incentrati su una netta divisione tra buoni e cattivi. Sembra quasi che il testo abbia influenzato, in una versione edulcorata e votata alla commedia, il film Occhio alla Penna con Bud Spencer, se non fosse che Howard non era tradotto e letto in Italia, per quanto riguarda le sue storie western. Siamo a Whapeton, cittadina in cui imperversa una banda di delinquenti (gli avvoltoi) i cui componenti sono ignoti a tutti, pur bazzicando la cittadina e tramando nell'ombra. In un clima di continui sospetti, morti e saccheggi, lo sceriffo decide di ingaggiare quale vice sceriffo un straniero che giunge in paese facendo razzie. Letale alla stregua di un cobra, il nuovo arrivato elimina chiunque decida di ergersi al suo cospetto, conquistando il rispetto e la fiducia delle persone oneste. A poco serviranno i tranelli o i tentativi di inscenare giudizi sommari per impiccare personaggi che, a vario titolo, finiscono sotto l'ala protettrice del nuovo arrivato. I personaggi di Howard però non sono uomini tutto di un pezzo, sono canaglie la cui etica resta in equilibrio sul sottile filo di un rasoio. E' facile errare nelle valutazioni e ferirsi in modo inatteso, scambiando un uomo onesto per un manigoldo che risponde solo al profumo dell'oro. "Gli uomini del west seguivano un codice personale di condotta. La linea che separava il fuorilegge dal vaccaro o dal cowboy onesto era spesso sottile come un capello, troppo vaga per essere tracciata con precisione." Così il vice sceriffo finisce per esser contaminato dalla proposta dello sceriffo che, in realtà, lo sta solo mettendo alla prova, così da utilizzarlo per far fuori i soci e ridurre le percentuali di divisione del bottino accantonato. Lo sceriffo è un vero e proprio demonio che sta conducendo, in modo convincente, un tremendo doppio gioco per coprire la propria identità ovvero quella del capo banda. Ha così inizio una serie di giochi tra i vari componenti della banda, con lo sceriffo e il suo vice che programmano di sottrarre il bottino depredato, a destra e manca, e darsi alla fuga in barba a tutti gi altri componenti del gruppo. L'arrivo dei vigilantes in paese, chiamati da un colonnello, sarà il momento per scatenare una guerra, così da mettere contro i due schieramenti. Lo sceriffo darà infatti ordini tali da agevolare questo scontro, così da allontanarsi indisturbato. Qualche bicchierino di troppo e la componente femminile giocheranno però da variabile impazzita determinando un sanguinoso epilogo. Il sangue versato e la morte della donna amata porteranno il texano a guardare nel profondo della propria anima e a rinunciare a un oro fin troppo vergato di rosso, il rosso dei morti. Howard chiude così con una sorta di morale che forse mal si concilia con la tempra di certi personaggi, offrendo ai suoi lettori un racconto dove la polvere da sparo e la sabbia mossa dal vento si liberano dalle pagine per investire il volto di chi si lascia immergere nella magia orchestrata dalla parola. Ecco allora che i tratti del luogo in cui il lettore sta investendo il proprio tempo sfumano e acquistano i caratteri di una landa incastonata tra canyon e vecchie strutture di legno. Il west rivive, lo fa nell'immaginazione, a oltre un secolo e mezzo dai tempi nostri; i colpi di pistola e le mascelle che si rompono sotto i pugni sganciati dai protagonisti di Howard si liberano dal silente effetto del nero su bianco per assumere consistenza percebile dai limitati sensi umani. Chiudete gli occhi e vi troverete in mezzo alla storia, ma attenti... cercate un riparo ben protetto, perché la vita nel west vale qualche cent... il prezzo di un proiettile!

Howard considerava
il suo racconto THE VULTURES OF WHAPETON
uno dei suoi migliori testi in assoluto.

Intreccio assai meno complesso e lunghezza molto più contenuta per Lama, Pallottola o Capestro, pubblicato col titolo Knife, Bullet and Noose sull'Howard Collector nella primavera del 1965, a circa trent'anni dalla scomparsa dell'autore. Si tratta di un intreccio, se vogliamo, giallo, molto classico e caratterizzato da quel taglio pulp che contraddistingue tutti i racconti dell'opera. Qua protagonista abbiamo un mandriano che commercia bestiame spostandolo da una parte all'altra dell'America, ma senza ricorrere a treni o mezzi che possano permettere rapidi spostamenti. Ci viene narrata quella che, dalle nostre parti, potremmo definire una vera e propria transumanza. Howard concede brevi cenni, focalizzando l'interesse della lettura su una disputa che viene a crearsi tra il protagonista e alcuni cacciatori di bisonti che lamentano dei torti subiti, più specificatamente intendono vendicare un loro amico ucciso dal personaggio principale del racconto. Arena del confronto il saloon, non poteva esser diversamente. In realtà si tratta tutto di una montatura, ordita dal bullo di paese, per eliminare il commerciante e inscenare il furto dei soldi, assai ingenti, a lui dovuti come corrispettivo della transazione, così da permettere all'insospettabile boss di acquistare a titolo gratuito il bestiame concordato. Nel corso del testo emerge addirittura un precedente, per quello che diviene un vero e proprio schema malavitoso, orchestrato con arte e astuzia. Ma il cattivo di turno non ha fatto i conti col grande uomo del west howardiano.
Testo semplice, onesto, dal grande ritmo e dall'intrattenimento costante. Howard, anche qua, offre alcune pennellate antropologiche che ne identificano il pensiero, lo fa infatti a suo modo, con quell'impostazione che alcuni lettori dei giorni nostri identificherebbero con una predisposizione, diciamo così, alle tematiche destrorse. Così leggiamo una critica, dal sapore conservatrice piuttosto che progressita, che rievoca alla mente certe posizioni politiche di H.P. Lovecraft. Si legge infatti che "le città dei mercati di bestiame si erano riempite di giocatori d'azzardo, imbroglioni, pistoleri, tutta la genia di parassiti che segue passo passo ogni boom economico... Un ingenuo cowboy trovava meno pericolo tra le insidie della pista che non fra gli intrighi della città in espansione." Eloquente la posizione filosofica e sociologica dell'autore che, guarda caso, non era certo un amante della città, vista come un luogo in cui pullula, prolifica e fa affari la feccia sociale. "Tutti i cacciatori erano a loro volta uomini di grossa statura, in gran parte coperti di pelli e con mocassini indiani.... Dal momento che la loro esistenza era primitiva, erano duri e feroci non meno degli indiani, ma molte volte più pericolosi. Ispidi, burberi, fieri, con gli occhi a lampeggiare alla luce delle lampade e le mani a oscillare davanti al manico dei grandi coltelli che portavano alla cinta." Traspare dunque in modo evidente la presa di distanza dell'autore da certe categorie di soggetti, visti come tribali, privi di capacità di ragionamento e così bestiali da preferire il coltello (arma da corpo a corpo che offre la sensazione di dominio fisico sull'avversario e dunque offre la sensazione di maggiore virilità) alla più fredda pistola, un oggetto che rende la morte altrui meno apprezzabile e sensibile per il suo colpire da distanza oltre che ad annullare ogni abilità umana (meno la mentale, come vedremo nel successivo racconto) così da scrivere che "grande o piccolo, davanti a una .45 sono tutti uguali. E in quelle parole c'era l'intera filosofia del pistolero."
Piccolo racconto dunque, ma molto interessante, intriso di azione e di quella spacconeria con può non piacere a certi amanti del west (quello tamarro, all'italiana e non quello aulico di stampo epico e formativo).

Registro diverso per The Extermination of Yellow Donory, uscito postumo nel 1970 su Zane Grey Magazine, proposto qua col titolo Il Suicidio di Donory il Codardo. Howard sperimenta il racconto parodistico, ma lo fa con enorme intelligenza e studio psicologico dei personaggi, come solo i grandi maestri snano fare.
Un codardo, deriso da tutti, si sente stanco di procedere nella vita. La disperazione, la mancanza di stimoli e i fallimenti lavorativi lo portano a prendere l'estrema decisione. Non importa quanto i motivi siano effettivi e tali da giustificare il comportamento che ne segue, poichè "un problema che per gli altri può sembrare una stupidaggine, spesso è un vero inferno sulla terra per colui che ne soffre, e l'incubo di rendersi conto della propria codardia è il peggiore fra quanti perseguitano il genere umano." Così scrive Howard, autore che dimostrerà, purtroppo, con i fatti di avere assai padronanza sulla tematica, aspetto che trasformerà la parodia, quasi comica che avvolge la storia, in un qualcosa che assume contorni tragici. Dunque il suicidio come (possibile, ma non certa) via di fuga dalla realtà... ma c'è un problema. L'uomo è così codardo che non riesce neppure a uccidersi. E cosa pensa allora per raggiungere l'obiettivo? Decide di chiudere in bellezza la propria esistenza, un modo distorto di riscatto, e di approfittare della straordinaria presenza in paese del più formidabile pistolero della zona. Entra così nel saloon e lo provoca a viso aperto, da autentico sbruffone sicuro di sé, ghiacciando un pubblico incredulo che concentrà per l'unica volta nella vita del protagonista l'attenzione sulla vita di quest'ultimo, alla stregua di un collegamento internazionale su una partita di contorno di un torneo di tennis dove il numero uno della graduatoria vacilla contro l'ultimo della categoria (per la gioia dei book makers, che avranno così una storia da raccontare ai lettori avidi di imprese). Da una parte abbiamo così il più celebre codardo della contea e dall'altra il più famoso assassino della zona. Una situazione che sembra preludere a una barzelletta e a una soluzione finale scontata, se non fosse che si ribalta l'intera situazione. E com'è possibile una cosa del genere? Chiederete voi. Solo in un romanzo potrebbe succedere... ma ne siete davvero sicuri? Sembra di leggere un'innovativa tecnica psicologica applicata alle regole non scritte del far west. Del resto se è pur vero che "il Colonnello Colt ha reso tutti gli uomini uguali, sono poche le persone che si affidano a occhi chiusi a questo adagio, e molte sono più propense a pensare che un'arma fiammeggiante sia più efficace nelle mani di un uomo dall'aspetto imponente." Sono i pregiudizi i veri boomerang che si abbattono sulla visione dell'uomo, poiché inidonei a trarre le giuste conclusioni e tali da determinare, come controindicazione, pericolose derive comportamentali indotte dall'atteggiamento delle c.d. variabili impazzite (quelle non preventivate o sottovalutate). Ma quali sono questi pregiudizi? Presto detto. Uomo imponente, muscolare e dalla forza bruta, magari grande esperto nel combattimento corpo a corpo, induce timore. E lo fa anche al cospetto di uno armato che, tuttavia, disponendo di un'arma, ha il vantaggio della distanza e del controllo, così da potersi considerare, a ragion veduta, su una scala superiore, ma solo se è bravo a mantenere l'uso dell'arma. Ma c'è un uomo ancora più superiore, in un ideale combattimento, e questo uomo superiore non è l'erculeo né, tanto meno, colui che dispone dell'arma, ma è un altro che addirittura entra in gioco disarmato (o almeno così sembrerebbe). Questo sembra suggerire, con verve ironica e dissacrante, l'autore. Howard scrive che "un vero assassino è sempre anche un grande attore, un perfetto uomo di spettacolo." E così in The Estermination of Yellow Donory è proprio la figura dell'uomo di spettacolo a ergersi sul trono più alto di un ideale combattimento mortale. E' la tecnica psicologica, seppur nella fattispecie involontaria, a risultare l'arma di risoluzione del conflitto, un'arma all'apparenza pacifica e da indurre l'ilarità della platea, capace poi di ribaltare una situazione che, agli occhi di tutti, sembrava da vero e proprio suicidio comportamentale. L'aperta sfida, con fare smargiasso di un piccolo e inutile uomo, resa davanti  a un pubblico copioso che finisce con l'invadere un saloon pronto a raccontare l'evento ai nipotini, è un qualcosa che mina le certezze e fa sgretolare le colonne che sorreggono la convinzioni dell'avversario incapace di leggere la situazione. "Più alta un uomo reputa la propria abilità, tanto più probabile che valuti ancora più alta la capacità, pur indimostrata, di un avversario sprezzante... Dentro il pistolero andava crescendo una curiosa sensazione, ovvero che quel tipo dovesse essere un pistolero terrificante, talmente terribile che neppure Demon Darts sarebbe stato in grado di opporglisi. Altrimenti, perché mai l'avrebbe sfidato? Doveva sicuramente avere un asso nella manica..." E così ecco che assistiamo alla fuga del pistolero e del grande uomo muscolare invincibile, costretto alla resa da un insignificante individuo che lo ha affrontato senza mostrare alcuna arma apparente, col solo gioco della mente (qua tuttavia involontario). Sembra quasi un'apologia del coraggio che si spinge ai limiti dell'incoscienza. Giocare la morte della propria vita a volte potrebbe essere una somma troppo alta in un confronto, specie quando questa posta viene avvolta dall'incertezza dei processi che potrebbero scattare facendo un data mossa. Un vero e proprio rischio di effetto domino, difficile da arginare con i rozzi modi tipici della violenza fisica. Ed ecco subito quella che potrebbe definirsi una critica di Howard all'atteggiamento popolare, che muta in modo radicale a seguito di un unico evento. Lo scemo del villaggio, piuttosto che il più grande codardo della contea, diventa un grande uomo di valore, un vero e proprio bluffeur che nell'immaginario collettivo copriva, con i suoi atteggiamenti, la sua vera e propria natura, quella del grande valoroso che non può dar sfogo alla propria superiorità per il rispetto di valori superiori. Un po' come faranno Jerry Siegel e Joe Shuster, nel '33, nell'ideazione di CLARK KENT ovvero l'alterego codardo di Superman.
Qui ci viene in soccorso Quentin Tarantino, che di certo sarebbe ben felice di realizzare un set dai racconti dell'autore texano (ce lo dicono anche i curatori in prefazione al volume della Fratini), quando in Kill Bill V.2 fa dire a Carradine, a proposito della filosofia dei supereroi, che il suo fumetto "preferito è superman, perché la filosofia di questo fumetto non è soltanto eccelsa, ma unica... Superman non diventa superman, superman è nato superman. Quando superman si sveglia al mattino è superman. Il suo alterego è Clark Kent... Quello che indossa come Kent, gli occhiali, l'abito da lavoro, quello è il suo costume. E' il costume che indossa per mimetizzarsi tra noi. Clark Kent è il modo in cui Superman ci vede. E quali sono le caratteristiche di Clark Kent? E' debole, non crede in sé stesso ed un vigliacco. Clark Kent rappresenta la critica di Superman alla razza umana" più o meno come Joey Donory è il limite occulto di Demon Darts, ovvero l'insidia insuperabile dalla forza bruta che, in quanto tale, è incapace di adeguarsi alle mutevoli varianti indotte dalla tattica mentale. Situazione dunque totalmente capovolta, in una sola mossa. Arrivano subito le proposte di collaborazione e poi le valutazioni, completamente sballate, indotte sempre da errori di valutazione di fondo sorretti, ancora una volta, dai rigidi schemi mentali che impediscono di vedere la vera realtà delle cose, poiché la scorciatoia della prepotenza è sempre la via vista dagli uomini di scarsa intelligenza quale quella maestra per perseguire un dato risultato. "Avrei dovuto intuire che voi avete troppo autocontrollo e siete troppo importante per perdere tempo con mezze cartucce come Bull Groker e compagnia. Come tutti i veri pistoleri, voi eravate solo in attesa di un avversario del vostro livello" dicono al modesto protagonista gli uomini del villaggio. Torna ancora centrale il vecchio tema del west, ma anche del mondo marzialista, del grande maestro che cerca sempre di incontrare un altro grande maestro per dimostare chi sia davvero il più valoroso e abile. Esilaranti, ma calibrati, i commenti degli uomini del bar/saloon: "Ragazzi, stasera abbiamo assistito a qualcosa da raccontare ai nostri nipoti... Chi pensate che sia, veramente? Scommetto che ha una lista di duelli lunga dieci chilometri! Sembrava uno smidollato, ma sono sempre loro quelli realmente cattivi..." Difficile uscire dalla rigidità di certi schemi mentali, questo il messaggio di fondo di un Howard che, giocando, porta a galla grandi verità e soprattutto eleva la psicologia e l'uso della mente ad arma più letale tra tutte, capace di influenzare il comportamento altrui... Il bluff del resto, se ben orchestrato, ha sempre pagato molto bene e questo i veri giocatori lo sanno.

Sono oltre 50 i testi western di Howard,
la FRATINI Editore
ne ha proposti solo otto.

Altro testo postumo è Sfida al Canyon Infernale, Showdown at Hell's Canyon, edito nel 1973 su The Vultures. Tipica caccia al tesoro sepolto (nientemeno che un milione di dollari destinati, in origine, a Pancho Villa per finanziare la rivoluzione messicana) indicato in una mappa, con un soggetto morente che fornisce gli indizi utili per ricostruire il tutto, proprio prima di spirare. Soluzioni che rimandano a quanto Leone mette in scena ne Il Buono, il Brutto e Il Cattivo (si pensi alle ultime parole di Bill Carson), con l'antagonista di turno che fa in modo che gli altri due cacciatori individuino il punto in cui il tesoro è sepolto per poi presentarsi e sottrarre l'intero bottino. Ritornano i temi howardiani della location sulle pareti rocciose dei canyon, del colpo di fulmine che porta l'eroe di turno a innamorarsi della ragazza che trova sul proprio cammino, ma anche quello del bandito che ha un delitto da riscattare così da riparare al male inferto agli altri. Belle descrizioni, grande senso del ritmo, a servizio di un soggetto classico. Dopo indiani e mandriani, arriva inoltre la stilettata a danno dei messicani. "Non sei più negli Stati Uniti, sei nel vecchio Messico... Qui può succedere di tutto." La frase arriva a commento di un assassinio a sangue freddo, con un colpo sparato nella schiena della vittima sotto gli occhi di tutti e in modo impunito. Howard traccia così una situazione ambientale, quella messicana, in cui non vi è neppure l'esigenza di salvare le forme, con ipocrisie o escamotages atti ad aggirare la legge. Niente di tutto questo, in Messico il crimine avviene alla luce del sole e in modo impunito. Altro che far west, come si suol dire...!?

Ne Lo Scherzo del Diavolo, The Devil's Joker, Howard costruisce un piccolo racconto tutto giostrato sugli scherzi operati dal destino. E' la tematica delle c.d. sliding doors. Il pistolero viene inquadrato quale soggetto borderline, un qualcuno sempre pronto a passare dalla protezione legislativa a quella di vero e proprio fuorilegge. Un modo di vivere pericoloso in cui è facile superare quel limite che fa di un uomo un assassino piuttosto che un qualcuno che agisce per legittima difesa. Nella fattispecie basta un banale scherzo per portare il protagonista, terrorizzato dalla vista dei serpenti, a commettere un omicidio d'impeto. "Con una tale fama come pistolero il passo successivo per lui poteva, per forza di cose, essere soltanto diventare un uomo di legge o il suo esatto contrario." Vediamo dunque come i protagonisti di Howard, pur se guidati da una certa etica, siano più degli antieroi vicini a quelli su cui Sergio Leone costruirà la propria fortuna piuttosto che quelli propri della cinematografia western americana. Non è affatto vero, come mi è capitato di leggere in certe recensioni, che in questi western vi sia una netta divisione tra buoni e cattivi. Nient'affatto. I buoni di Howard sono i meno cattivi tra i cattivi. "Erano uomini indomiti, non riconducibili sotto le leggi che governano la massa del genere umano. Vivevano in modo violento, duro, spietato, prendendosi tutto quanto volevano e quando morivano lo facevano in battaglia, con le pistole fumanti, sicuri che non avrebbero mai ottenuto, né concesso tregua." Ecco quindi che la differenza tra male e bene diventa non tanto il seguire la retta via (come cerca di operare lo sceriffo del racconto per correggere il focoso protagonista), quanto avere un'etica tale da trasformare il personaggio negativo in un antieroe caratterizzato da una certa sportività e correttezza, pur violando le leggi. Nel racconto in questione, al posto del rispetto per le donne, c'è il rispetto per un avversario non in condizione di difendersi. Il protagonista, che enterà in contrasto con i membri della propria banda in un regolamento di conti stile Le Iene di Tarantino (si eliminano tutti sparandosi contro in simultanea), si rifiutirà di sparare a sangue freddo allo sceriffo privo di sensi, perché in precedenza lo ha ferito colpendogli il cappello e sfiorandogli la cute del cuoio capellutto. La testardaggine del personaggio non è tanto dovuta dal fatto di voler salvare l'uomo, quando di curarlo e rimetterlo in condizione per prendere parte a regolare duello dove, magari, ucciderlo. E' una questione di filosofia, signori... Sembra dire il protagonista ai compangni. Se vi sembra un buono questo... fate voi.

Robert E. Howard.

"Un uomo con molti nemici deve avere la memoria pronta riguardo ai volti... Un uomo deve essere tante cose diverse."

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