Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

sabato 11 settembre 2010

Recensione narrativa: In Principio era il Male (AA.VV)




Autore: AA.VV.
Anno di uscita: 1990
Casa editrice: Oscar Mondadori
Pagine: 346
Commento di Matteo Mancini
In principio era il male” credo sia l’antologia che ho letto più volte tra tutte quelle che fanno parte della mia piccola biblioteca privata.Questo potrebbe far pensare che io abbia gradito in modo speciale questa fatica messa in piedi dal curatore Douglas E. Winter e invece non è così. Ho impiegato molti mesi per terminarla, perché dopo ogni racconto mi deprimevo al punto da accantonare il libro preferendogli altre antologie. Convinto, poi, di non aver compreso appieno il contenuto di vari elaborati, mi sono costretto a rileggerli sforzandomi di rivalutarli, ma questo non è avvenuto quasi mai.Eppure gettando uno sguardo nell’indice si leggono nomi (King, Barker, Etchison, Straub, Campbell) che dovrebbero garantire una qualità eccelsa, ma nell’occasione diversi mostri sacri deludono oltre ogni più pessimistica previsione. Tra l’altro, non di secondaria importanza, è la constatazione che in molti testi l’atmosfera orrorifica latita a vantaggio di un umorismo nero (penso ai racconti di Hazel e Etchison) o di una valenza esclusivamente drammatica e perversa, con decisi elementi erotici piuttosto che fantastici (Harrison e Straub).
Ciò premesso, ci sono alcuni racconti interessanti come enucleerò qui di seguito.
Il libro parte in quarta con “Il succhiatore volante” per la firma di Stephen King. Pur non essendo un grosso ammiratore del Re, l’opera (che verrà riproposta nell’antologia “Incubi e Deliri”) è di gran lunga la migliore del lotto. Propone una detective story profondamente horror con un reporter di una rivista dedicata all’occulto che cerca di scoprire l'identità del serial killer che, a bordo di un Cessna, vola di aeroporto in aeroporto mietendo vittime. La firma dell'assassino è costituita dalla presenza di due fori, grandi come se fossero stati inferti da una zanna, sul collo dei defunti. L’approccio con cui l’omicida abborda le vittime è così amichevole da lasciar pensare che le abbia affascinate. Epilogo da vero maestro del genere.
Dopo una partenza al fulmicotone, giusto per invogliare il lettore, Winter spara due colpi fiacchi: “Una donna a pranzo” del semi sconosciuto Paul Hazel e “Bacio di sangue” dell’apprezzato Dennis Etchison. Nel primo caso abbiamo un soggetto che fa dell’umorismo e dell’ambiguità la sua unica arma, con qualche strizzatina d’occhio, seppur velata, all’erotismo. L’idea che sta alla base del tutto, però, è troppo povera e si limita nel mettere in scena una donna, assunta in un consiglio di amministrazione di soli uomini, che cerca di farsi accettare da un manipolo di colleghi maschilisti. Gli sforzi della poveretta falliscono miseramente e, dopo alcune imbarazzanti uscite a pranzo con i nuovi compagni di avventura, sfoceranno in un omicidio da risvolti cannibalici.
Non riesce meglio il prodotto di Etchison (che peraltro lo riproporrà, tre anni dopo l’uscita di “In principio era il male”, anche nell’antologia “Il ritorno degli zombi”). L’autore Californiano tenta di montare una storia che abbia al suo interno un’altra storia, legando il tutto tracciando un parallelo tra il rapporto tra i personaggi di entrambe le storie (che sono sempre un regista e una donna che in un caso ricopre il ruole di attrice di un film, mentre nell'altro di sceneggiatrice). Etchison punta sugli equivoci e riserva per il lettore un duplice finale beffardo. Se dunque i colpi di coda di Etchison convincono, la narrazione avanza senza coinvolgere a dovere e, al di là, delle sorprese finali c’è ben poco.
Delude anche Clive Barker con il suo kinghiano “Addio al passato” (di sicuro il peggior racconto che mi sia capitato di leggere dello scrittore inglese), tutto incentrato sui ricordi di una donna ritornata nel paese natale per partecipare al funerale della madre. A inquietare la donna è un lungo sentiero sospeso su un dirupo delimitato da un fragile muretto. Al di là del muro pare vi sia un’entità che invita i passanti a gettarsi nel vuoto.
Qualche sprazzo interessante nel racconto “Cibo” di Thomas Tessier. Anche qui però la narrazione è troppo diluita e tutto si concentra sull’onirico e folle (in senso positivo) finale. Protagonista della vicenda è un cinquantenne che si innamora di una ventenne bulica, condannata a starsene a letto 24 ore su 24. L’uomo cerca di far di tutto per convincere la giovane a sottoporsi a una dieta restrittiva, ma ogni tentativo fallisce. Infine, una notte, la disgraziata si trasforma in una sorta di verme gigante che assorbe l’uomo, prima di scomparire sotto terra lasciandosi alle spalle una lunga striscia di bava. In definitiva Tessier spende quindici pagine per un soggetto che ne avrebbe necessitate poco più di cinque.
Si piomba nel mediocre, invece, con “Il grande Dio Pan” di M. John Harrison (altro autore che non vanta, per lo meno in Italia, schiere di fan). Il titolo potrebbe evocare ricordi di macheniana memoria, ma in realtà la storia si sviluppa in modo tutt’altro che fantastico. Il ruolo di protagonista viene affidato a un’epilettica ossessionata da disagi che paiono connessi a un evento oscuro ancorato a un passato lontano; un episodio in cui quattro ragazzi hanno evocato una sorta di Dio, per avanzare delle richieste non specificate da Harrison. L’elemento fantastico è limitato ai minimi termini e costituito da due creature di colore bianco, dall’aspetto umanoide, che appaiono fuori dall’abitazione della donna, come prede della ragnatela di un ragno. Epilogo frettoloso e deludente.
Con David Morrell e il suo “L’angoscia è arancione, la follia è blu” si torna a respirare un può di sana narrativa dell’orrore con la “o” maiuscola. Non che il soggetto brilli per originalità, ma si rivela ben gestito e offre spunti filosofici / narrativi interessanti. Il tema base è l’estro geniale dei pittori e, più in particolare, di Van Dorn (leggi Van Gogh). A cercare di far luce sull’argomento è un critico d’arte convinto che i quadri di Van Gogh nascondano un segreto che rende, a livello subliminale, più inquietanti le raffigurazioni. L’idea diviene presto un’ossessione che porta l’uomo a isolarsi e a vivere disinteressandosi della propria persona. Pare che tutti i critici, attenti ai particolari non convenzionali della produzione di Van Gogh, siano impazziti e si siano strappati gli occhi a colpi di forbice per cercare di risolvere il mistero. Piano piano, il critico inizia a capire. Scoprirà che nei 38 quadri originali dell’ultimo anno di attività di Van Gogh, celati in modo metaforico, ci sono dei volti urlanti che paiono anime dannate dell’inferno. Deciso a verificare l’intuizione, il critico parte per La Verge, cittadina francese in cui Van Gogh ha vissuto il suo ultimo anno di carriera. L’ossessione porta il critico a ripercorrere l’esperienza del pittore, emulandone abitudini e comportamenti. Scoprirà così, a prezzo della propria salute mentale che l’estro di Van Gogh non era dovuto a una genialità innata, ma a un episodio paranormale connesso alla caduta di un meteorite. Il corpo celeste, da quel che si dice, avrebbe aperto una falla nell’inferno e sarebbe proprio la visione di questa falla ad aver fatto impazzire Van Gogh e tutti coloro che hanno cercato di scoprire il mistero dei suoi quadri. La vista dei dannati, infatti, renderebbe i malcapitati schiavi di forti emicranie che si placano solo attraverso il disegno, un disegno compulsivo in cui vengono riprodotte le immagini dell’orrore vissuto, come se tale esperienza si sovrapponesse a qualunque soggetto di vita reale. In definitiva un testo che, al di là dello stile, rievoca i più brillanti lavori del solitario di Providence.
A metà antologia, dunque, si inizia a sperare in un finale in crescendo anche perché scorrendo le pagine si incontra niente meno che Peter Straub (conosciuto soprattutto per le sue collaborazioni con Stephen King) e il suo “Il ginepro”. La speranza evapora subito. Straub propone una storia di pedofilia con marcatissimi riferimenti erotici, ma lo fa dando vita a una mattonata senza capo né coda, dando l’idea di scrivere di getto senza bussola alcuna. La prima parte, iper drammatica, è interessante e si lascia leggere con curiosità (seppure assai cruda nei particolari). In tale frangente vengono narrati gli incontri sessuali tra un bambino di sette anni, appassionato di cinema, e un vecchio. Teatro dell’oscenità è un vecchio cinema di quarto ordine. Straub regala citazioni cinematografiche a go go e descrizioni puntigliosi di masturbazioni e altre perversità, poi, d’un tratto, il testo si disunisce, con uno sbalzo temporale di circa quaranta anni, per capitolare con un finale del tutto scollegato al resto. Ancora una volta, infine, si registra la quasi assenza degli elementi fantastici.
La delusione prosegue con il fiacco “Raccontami una storia” di un altro autore che avrebbe dovuto garantire una certa qualità, cioè Charles L. Grant. Grant dimostra grande talento nel narrare i fatti, ma stringi stringi la sua storia è vuota e pare esser stata scritta in mezza giornata. Abbiamo un uomo che racconta una serie di storie assurde che vedono per protagonisti personaggi della storia o delle narrativa, ma nonostante questo il nostro pretende di venderle al figlio come se fossero vere. Alla fine si scopre che l’uomo cerca di imparare a convincersi della veridicità di fatti che non sono mai accaduti, per superare un trauma terribile. In definitiva buona l’idea di base, noioso lo sviluppo.
Non invertono il trend negativo Thomas Ligotti (“L’ultima avventura di Alice”) e il veterano Ramsey Campbell (“Imparerete a conoscermi”). I due, infatti, presentano altrettante storie anonime (specie quella di Ligotti).
Gli ultimi due testi (Whitley Striber con “La piscina” e Jack Cady, con il romanzo breve “La nemesi delle tenebre”), invece, si guadagnano il diritto di essere letti con piacere, ma ormai è troppo tardi per salvare l’opera da un giudizio estremamente negativo. In particolare “La piscina” di Strieber ha il notevole pregio di inquietare il lettore e di restare impresso nella mente. Strieber mette in scena un bambino particolarmente dotato che vede, all’interno degli specchi d’acqua, i volti delle persone defunte e fa di tutto, alla fine riuscendoci, per suicidarsi. Il bambino afferma, infatti, che i morti vogliono il suicidio delle persone altrimenti scateneranno le forze della natura per punire l’uomo.
Per concludere non posso che esprimere un giudizio negativo dal momento che su tredici racconti solo quattro posso definirsi buoni, mentre gli altri vanno dal mediocre al pessimo. Davvero deludente. Voto: 4.5

2 commenti:

  1. Sono una fan di Stephen King ma non conoscevo questo libro. Interessante il tuo blog, mi aggiungo ai tuoi lettori fissi (spero ti faccia piacere)e tornerò a leggere dalle tue parti. Sei il benvenuto anche da me.
    A presto.

    RispondiElimina
  2. Certo che mi fa piacere!
    Il racconto "Night flier" ovvero "Il volatore notturno" e qui tradotto come "Il succhiatore volante" fu scritto appositamente da King per questa antologia collettiva.
    Il mio blog è abbastanza povero nei contenuti e nella grafica.
    Mi aggiungo anche io tra i tuoi lettore e sono felice di conoscerti.
    A presto

    RispondiElimina