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lunedì 18 dicembre 2023

Recensione Narrativa: IL RE DEI BASTARDI di Brian Keene & Steven L. Shrewsbury.

Autore: Brian Keene & Steven L. Shrewsbury.
Titolo Originale: King of the Bastards.
Anno: 2015.
Genere: Sword & Sorcery.
Editore: Lettere Elettriche (2022).
Pagine: 211.
Prezzo: 5.90 euro (kindle).

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Romanzo breve scritto a quattro mani dal prolifico Brian Keene, apprezzato in Italia soprattutto per gli horror legati alla serie zombie The Rising e alla lovecraftiana saga de I Vermi Conquistatori, e dall'assai meno conosciuto Steven L. Shrewsbury, un vero e proprio specialista di dark fantasy, extreme horror e weird western. King of the Bastards, importato in Italia nel 2022 dalle Lettere Elettriche con la supervisione di Cristiano Saccoccia, appartiene più al mondo di Shrewsbury che a quello di Keene. Scritto nel 2015 per la Apex Publications (medesimo editore della saga, inedita in italiano, di Keene intitolata The Lost Level), è l'episodio pilota delle avventure dell'ex Re di Albion Rogan, un eroe antidiluviano che si ispira chiaramente al Conan di Robert Ervin Howard. Al momento sono tre i romanzi della serie, proseguita da Throne of the Bastards (2017) e Curse of the Bastards (2022). Non a caso la struttura del romanzo è episodica e si presenta, un po' come avviene in The Scarlet Plague (“La Peste Scarlatta”) di Jack London, nella forma di un racconto narrato da un padre ai figli che, in un mondo dai tratti apocalittici (Keene strizza velatamente l'occhio alla sua serie de I Vermi), scopriranno di essere i nipotini proprio dell'eroe della storia. Il plot è molto semplice e propone per protagonista un guerriero barbaro ormai di età avanzata, ma ancora virile e duro da uccidere. A differenza di altri personaggi, penso anche al Kane di Karl E. Wagner, viene meno l'aura mitologica ed epica, a favore di caratterizzazioni tipiche di un vero e proprio tamarro, che non disdegna la battuta volgare e il dileggio degli avversari. Avaro di sentimenti, è un soggetto in apparenza egoista (in realtà tiene alla famiglia) al punto da rinnegare il sentimento dell'amore. Interrogato dalle varie amanti che bramano di saltargli addosso per misurarne il vigore erotico (cosa che puntualmente finirà col sorprenderle), rifugge da qualsiasi sentimentalismo in favore di un approccio materialista (non a caso disdegna anche i maghi) sostenendo che per lui l'amore è un tallone di Achille da cui ogni uomo di valore farebbe bene a liberarsi, così da non essere costretto a subire ritorsioni di sorta.

Eloquente, per tratteggiarne il profilo, come si presenti a chi ancora non sa chi sia. “Io sono Rogan. Il mio nome significa Maledetto Bastardo con un'erezione perenne. Questo è Javan, e il suo nome significa servo di un bastardo coperto di sangue con il cazzo duro.” Ecco il tono dei dialoghi del personaggio che, curiosamente, viene inserito in un contesto più classicheggiante. I due autori sembrano infatti volersi inserire nell'alveo dello sword & sorcery ma, al contempo, di volerlo parodiare introducendo un villain proveniente dal futuro (viaggia per mezzo di una sorta di macchina del tempo) e un eroe che, tanto per intenderci, ha tratti dell'Attila di Castellano & Pipolo. Stanco della vita di palazzo, Rogan ha abdicato il trono di Albion in favore del figlio per poter così andarsene in giro in cerca di avventure. La prima particolarità che salta agli occhi è la sua età avanzata. E' un sessantenne che si definisce “un vecchio che cerca di ritrovare se stesso da giovane.” L'attrazione per lo spasso e la convinzione di aver lasciato il proprio regno in mani sicure hanno un ruolo centrale nella vicenda. Dapprima alle prese con piovre giganti e poi con una banda di pirati africani che gli sterminano l'intero equipaggio lasciando il nostro nella sola compagnia del nipote, Rogan apprende che uno dei suoi tanti figli illegittimi, di origini africane, ha assaltato Albion violando le donne locali e massacrando coloro che non si sono chinati al suo cospetto. Ha così inizio un'odissea totalmente virata al pulp e all'eccesso, quasi tutta ambientata su un'isola (forte compressione delle ambientazioni). I propositi di tornare indietro del nostro, infatti, cozzano con i danni subiti dall'imbarcazione. Naufragato su un'isola popolata da una tribù di combattenti soggiogati da un mago e da una divinità pagana, Rogan si trova costretto a prestare il proprio aiuto agli indigeni così da ottenere dagli stessi l'impegno a riparargli il veliero. Prende così piede la scalata a una montagna sacra sul cui vertice avranno luogo una serie di combattimenti tra amazzoni, zombi (menzionato anche Damballah), mostri antropomorfi, creature ectoplasmatiche, uomini scimmia, satiri, divinità, uccelli leggendari, orsi, tigri dai denti a sciabola e chi più ne ha più ne metta, con Rogan che metterà a frutto la sua conoscenza dell'acciaio (sconosciuto ai locali) finendo addirittura per sparare con un fucile a pompa recuperato da uno dei tanti guerrieri collezionati sotto formaldeide dal villain (!?).

Keene e Shrewsbury optano per uno stile tutt'altro che aulico. Le descrizioni non mirano al sense of wonder, ma sono essenziali e strumentali a introdurre gli scontri e l'azione. Il lirismo è accantonato a favore di un lessico da hard boiled, con tanto di pupe e antieroe. Ampio spazio è dedicato agli scontri fisici e alle varie mosse dei personaggi. Colpi di spada, frecce scoccate, amputazioni, crani spaccati, calci volanti, oggetti scagliati contro l'avversario e persino la presa dei testicoli e del pene oscillante di una divinità pagana materializzatasi al cospetto del protagonista. A colpire l'attenzione del lettore è soprattutto il tentativo da parte degli autori di ammodernare il genere non tanto dal punto di vista dei contenuti, ma nello stile e nei dialoghi. Keene e Shrewsbury dissacrano, se vogliamo, il genere. Non so se vi sia stato un qualche ruolo del traduttore oppure se il lessico utilizzato sia quello degli autori, ciò che si percepisce è la sensazione di un qualcosa di avulso dai toni del sword & sorcery classico. Rogan, infatti, si esprime da coatto di Trastevere (mi viene in mente la colonna sonora di un poliziesco di Tomas Milian intitolata E nun ce Vojo Stà di Alberto Griso) e lo fa senza che coloro che ha intorno facciano una piega. “Puoi chiamarmi guardiano” gli dice una sorta di sciamano a cui lui risponde “Si, e io porto il marchio di Caino sul culo!

In un altro passaggio, dopo aver sentito come il capo tribù renda omaggio agli avversari caduti, Rogan risponde: “Sai cosa faccio io con lo stomaco dei miei nemici? Li apro e mi accovaccio sopra di loro. Poi ci cago dentro.” O ancora espressioni come: “Muoviamoci, ne ho le palle piene di questo villaggio.” La ragione di fondo è quella di voler rendere simpatico il personaggio, in realtà pomposo come pochi altri, tuttavia, a mio modesto avviso, tale scelta banalizza la storia rodendo l'epicità che dovrebbe contraddistinguerla per portarla dalle parti della farsa. D'altro canto non manca l'azione, pressoché onnipresente, con un frullatone di contenuti che rendono molto alta la componente grandguignolesca e orrorifica. Rogan è truce, brutale, privo di emozioni (se non per i parenti più prossimi). Arriva a prendere a morsi il cuore di uno sfidante che non credeva nelle sue abilità. Quando il nipote, che lo segue come uno scudiero e che è abile a scoccare dardi con l'arco, gli chiede se sia amaro, lui gli risponde che avrebbe bisogno di essere speziato (!?).

 
 
Copertina originale.

Siamo comunque lontani dall'extreme horror e, al tempo stesso, dalla tradizione dark fantasy. Premesso questo non mancano omaggi al weird. Sia Lovecraft (citato Dagon) che Lord Dunsany vengono ricordati dall'idea di un Dio che ha distrutto un universo precedente rispetto all'attuale non riuscendo a eliminare alcune divinità originali che ora possono interferire, da un altrove, con le vicende umane. Queste ultime sono i cosiddetti “Tredici”, tra i quali Croatoan contro il quale dovrà misurarsi Rogan. Tra i momenti apicali del romanzo vi è il rituale attraverso il quale gli sciamani entrano in relazione col mondo degli spiriti. Li vediamo infatti farsi elevare per mezzo di catene conficcate sul petto, per mezzo di uncini infilzati nella carne, in modo da restare sospesi a mezz'aria. Gli autori omaggiano per tale via pellicole estreme come Ichi The Killer (2001) di Takashi Miike e, prima ancora, The Cell (2000) dell'indiano Tarsem Singh dove, un po' come avverrà per lo sciamano del romanzo, la protagonista entrerà nella testa degli altri al fine di fermare l'antagonista di turno.


Il Re dei Bastardi è dunque un sword & sorcery addolcito dalla black comedy e dal weird delle origini. Un mix di generi che piacerà agli appassionati del pulp, soprattutto per effetto di dialoghi e di un protagonista che richiamano il mondo degli hard boiled, ma che rischia di indisporre i puristi. Lo stile manca di “magia”, non è in grado di evocare atmosfere affascinanti o inquietanti. I momenti soprannaturali sono molteplici, tuttavia vengono esorcizzati piuttosto che esaltati. Tutto è orientato a dissacrare l'epicità e al tempo stesso a tenere alta l'azione portando in scena tutto quanto si possa immaginare e persino oltre. Chi potrebbe mai concepire un fucile a pompa in epoca antidiluviana? Ecco, Keene e Shrewsbury sono quell'uno per cento del sondaggio.

 

I due autori. Keene a sinistra, Shrewsbury a destra.

Annegheremo tutti in un diluvio quando gli dei decideranno di lavare la macchia malvagia che è la magia dalla terra.”

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