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mercoledì 28 febbraio 2024

Recensione Narrativa: THE BLACK LORD di Colin Hinckley.

Autore: Colin Hinckley.
Titolo Originale: The Black Lord.
Anno: 2023.
Genere:  Horror.
Editore: Independent Legions (2024).
Pagine: 152.
Prezzo: 14.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Fresca uscita della Independent Legions Publishing che, nell'occasione, guarda in modo spiccato al modern weird un po' come se fosse le Edizioni Hypnos. The Black Lord, del giovanissimo Colin Hinckley, è un racconto weird a tutti gli effetti che miscela i topoi classici, in particolar modo legati alla narrativa di Algernon Blackwood, a quella narrativa dell'orrore degli anni ottanta che ha i suoi fari guida in scrittori come Charles L. Grant (si veda The Pet – La Carezza della Paura) e, in parte, Stephen King.

Poco più di cento pagine, per una novella che potremmo definire divisa in due parti molto diverse tra loro: la prima legata a una sorta di elaborazione di un lutto in famiglia, con un bambino che cerca di metabolizzare la scomparsa del fratellino (vero e proprio eroe ed emblema di coraggio) mentre i genitori sprofondano nella disperazione più assoluta. Dunque la disgregazione prossima di una famiglia che fatica a reagire al cospetto del dramma, con un padre di famiglia che trova nell'alcool la scorciatoia per anestetizzare il dolore (approccio kinghiano). Molto diversa la seconda parte, che rimanda a idee lovecraftiane fino ad assumere una filosofia nichilista che sconfessa l'esistenza di un Dio interessato alle vicende umane.

Hinckley struttura la storia con un taglio cinematografico, modificando, di capitolo in capitolo, i punti di vista dei personaggi per riproporre le medesime scene da punti di vista diversi. Largo uso inoltre dei flashback, sempre utili per aggiungere dettagli e comporre il mosaico che delinea le carraterizzazioni psicologiche dei personaggi. Nella prima parte, l'autore sembra alludere a una qualche allucinazione del piccolo protagonista, terrorizzato, ogni notte, da un essere mostruoso che batte alla finestra della sua cameretta chiedendogli di aprirla e di farlo entrare. Hinckley rimanda all'immaginario del vampiro (non può entrare in casa se non invitato) e del licantropo (volto canino, petto peloso e fame spropositata un po' come il lupo di Rodari) ma lo fa in chiave moderna sotto la forma di una metafora delle problematiche familiari. Il riferimento va alle violenze familiari e ai conflitti passati mai superati dovuti ai contrasti col padre. Su questa prima fase si innesca la seconda, piuttosto inattesa e imprevedibile. Il fantastico subentra al realismo quotidiano e lo fa all'ennesima potenza, orientando quello che poteva sembrare un racconto stile anni ottanta in un vero e proprio tuffo nel passato di quell'orrore cosmico, con tanto di passaggio dimensionale, erede dei sogni di Lovecraft e dei maestri inglesi che ne influenzarono la narrativa. Tornano infatti a rivivere le atmosfere di cult quali The Wendigo e The Man Whom the Trees Loved (“L'Uomo che Amava gli Alberi”) di Algernon Blackwood o, in misura minore, di The Novel of the Black Seal ("La Storia del Sigillo Nero") e "The Shining Pyramid" ("La Piramide di Fuoco") di Arthur Machen. I protagonisti della vicenda, infatti, vengono letteralmente ingoiati dal bosco e dalla natura attigua alla loro abitazione, in una delirante, quanto disperata, caccia all'uomo (in realtà un'evoluzione licantropica di un orco) nella speranza di poter ritrovare in vita il piccolo scomparso (in un certo senso ritorna, sotto altra luce, anche la tematica macheniana dei folletti che rapiscono bambini in culla). Esaltazione dunque della natura, tra ruscelli oscuri che risuonano laddove non avevano mai dato traccia di se, alberi che sembrano muoversi e strane apparizioni che si palesano tra le fronde. Gli alberi sembrano esseri senzienti, esseri mobili che potrebbero sradicarsi e piombare su di lui in qualsiasi momento.”

In questa seconda fase tutto si modifica. I personaggi, ignari di quanto sta accadendo, penetrano in un mondo altro, un qualcosa di alieno che sconvolge le regole che conosciamo, a partire dal concetto del tempo. Le stelle perdono la loro consistenza, diventano altro. Il cielo assume colori indescrivibili, mentre mondo vegetale e mondo animale si sovrappongono per riscrivere i connotati del “mostro”, un uomo contaminato da un male ultraterreno che (un po' come per il vampiro e per il licantropo) lo ha trasformato in un qualcosa di nuovo e innovativo. Potente il sense of wonder, così come la tensione che raggiunge vette orrorifiche nelle ultime venti pagine del testo. Cristiano Saccoccia, pur se alle prime armi in veste di adattatore/traduttore, se la cava molto bene e a lui si deve la scelta di proporre il volume in versione italiana (ottima individuazione). Lessico chiaro, veloce e in grado di rapire l'attenzione nei momenti cardinali. Hinckley, anche in questo, modernizza la scrittura dei grandi maestri e lo fa senza banalizzare lo stile e senza perdere niente a livello di capacità evocative.

The Black Lord è dunque una “fiaba nera” molto diversa da quelle proposte dalla Independent Legions, molto più prossima alla narrativa del terrore della prima metà del novecento che alla narrativa del terrore contemporanea. Il grandguignol è quasi assente, mentre il senso di estraniamento onirico/visionario costituisce il punto di forza.

Da segnalare, all'interno del volume, un racconto omaggio che, ancora una volta, combina i disagi familiari e la rielaborazione del lutto con l'idea degli alberi animati e del bosco pressante che si piega verso l'abitazione della giovane coppia di protagonisti (idea chiaramente ripresa da Blackwood). Acquisto ultra consigliato agli appassionati della narrativa weird legata agli antesignani di Howard P. Lovecraft. Bravo Saccoccia a proporla e, prima ancora, a scoprirla. Dovrebbe infatti essere la prima pubblicazione in italiano di Hinckley.

Il giovane Colin Hinckley.

Un bambino andrebbe protetto da quell'orrida realtà sospesa tra le fiabe e una tragedia indicibile.”

martedì 27 febbraio 2024

Recensione Saggi: IL PORTIERE DI ASTRACHAN' di Romano Lupi.

Autore: Romano Lupi.
Anno: 2019.
Genere:  Saggio Sport.
Editore: Fila 37.
Pagine: 186.
Prezzo: 15.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Secondo dei tre volumi, editi dalla romana Fila 37 dedicati al calcio sovietico, acquistati dal sottoscritto in occasione del Pisa Bookfestival del 2023. Scritto dal giornalista pubblicista sanremese Romano Lupi, Il Portiere di Astrachan è la biografia di un mito sportivo degli anni '80. Miglior portiere del mondo nel 1988, miglior calciatore sovietico del 1982, miglior portiere del mondiale del 1982, sei volte miglior portiere sovietico tra il 1980 e il 1988, due volte campione dell'Urss con lo Spartak Mosca, medaglia d'argento agli Europei del 1988 e medaglia di bronzo alle olimpiadi del 1980, Rinat Dasaev è un must per chi, come il sottoscritto, si è avvicinato al calcio da bimbo negli anni ottanta. Ho avuto la fortuna di vedere giocare questo portiere, all'epoca oggetto anche di critiche (come ben ricorda Lupi nel suo testo, facendo riferimento a Gianni Brera, Walter Zenga e Minà) ma, al tempo stesso, osannato dalla critica e dai preparatori dei portieri (lo posso ben dire avendo iniziato a giocare in porta nel 1989). Lupi ne sottolinea correttamente le doti, lo stile unico e tipico che ne faceva uno sperimentatore di stili e scuole calcistiche. Discepolo per corrispondenza di Harald Schumacher - numero uno della Germania Ovest dell'epoca - erede designato di Lev Yasin, ma soprattutto primo giocatore d'attacco della sua squadra. Il suo, per l'epoca, era un approccio innovativo nell'interpretare il ruolo dell'estremo difensore. Non più un solitario chiamato a interpretare un ruolo singolo all'interno di uno sport di squadra, bensi il primo elemento all'interno di un collettivo (quello dell'URSS del “colonnello” Lobanovskij) schierato con una tattica antesignana prossima a surclassare e mandare in pensione il cosiddetto gioco a uomo in favore della zona più estrema. Uno spartito di gioco basato sull'esaltazione del collettivo a discapito dell'individualità tecnica dei singoli. Talento e individualismi sacrificati sull'altare della pragmaticità e della sostanza. Tanta corsa, verticalizzazioni e una cultura votata al bene supremo non solo della squadra ma di una nazione chiamata al canto del cigno onde evitare di cedere il passo al capitalismo.

Il Portiere di Astrachan segue passo per passo le vicende di Dasaev, soprattutto quelle conosciute in occidente, parlando delle partite internazionali della sua squadra di club (lo Spartak Mosca) e in modo assai più approfondito delle competizioni mondiali ed europee dell'Unione Sovietica. Lupi descrive le azioni, le parate e i momenti salienti delle varie partite (non ci sono cenni, se non telegrafici, ai match interni del campionato sovietico). Ecco che il volume, di maggiore presa sportiva rispetto al già recensito Spartak Mosca di Mario Alessandro Curletto (vedi http://giurista81.blogspot.com/2023/10/recensione-saggi-spartak-mosca-di-mario.html), diventa un testo sulle sorti dell'ultimo decennio della nazionale sovietica, di cui Dasaev è stato pilastro e capitano. È l'Unione Sovietica degli juventini Alenikov e Zavarov, del pallone d'oro Belanov, della punta Protasov e del futuro sampdoriano Mychailychenko, oltre che di Blochin, Rats e Demianenko. Un collettivo “operaio” giostrato dai brutali allenamenti di Lobanovskij (su cui Lupi non indaga, nell'occasione, troppo), idolo assoluto di Kiev che non risparmia critiche e non entrerà mai in grande sintonia con Dasaev (probabilmente per gli ammiccamenti dell'occidente verso il portiere) pur preferendolo al “pretoriano” Chanov (portiere della Dinamo Kiev).

Il volume parte dall'importanza del ruolo del portiere nella cultura sovietica, proseguendo con gli inevitabili rimandi al mito Lev Jasin (unico portiere a vincere un pallone d'oro) per spostare progressivamente l'attenzione su Dasaev. L'attitudine al nuoto, la fede islamica, gli esordi ad Astrachan, quindi l'approdo allo Spartak e da qui la scalata verso la conquista della nazionale e della fascia da capitano fino al declino a Siviglia tra papere, incidenti stradali e il sospetto dell'alcolismo (che Lupi sconfessa). Dasaev, negli anni ottanta, incarna il ruolo del portiere moderno: “fornisce un'interpretazione innovativa del ruolo, dimostrando di essere uno dei portieri più completi della sua generazione. La capacità di far ripartire l'azione una volta catturata la sfera, diventando così l'ispiratore dei contropiede. Con lui il portiere non è più un corpo avulso dagli altri dieci giocatori, ma è parte integrante di tutta la squadra.”

Lupi parla di tutto questo, fornendo un volume nostalgico per chi quegli anni li ha vissuti. Il Portiere di Astrachan è un libro di nicchia, indirizzato ai cultori del calcio internazionale e soprattutto est europeo. Fila 37 si conferma una casa editrice interessata alle vicende sportive del mondo sovietico e offre ai suoi lettori l'opportunità di approfondire la conoscenza su un'epoca ormai lontana, eppure affascinante e molto diversa da quella patinata e viziata che siamo abituati a conoscere.

Qualche refuso in qua e in là non inficia il valore del volume, facile da leggere e sufficientemente impreziosito da interviste ed estratti estrapolati da altri volumi, giornali e siti. Per cultori. Acquisto obbligatorio per il sottoscritto.

La nazionale sovietica a matrice ucraina (quando russi e ucraini giocavano assieme)
giunta seconda negli Europei del 1988.
Dasaev, in completo giallo, è il primo da sinistra verso destra.

"Ci sono delle regole auree per i portieri: o si rimane fermi o, se si va avanti, bisogna continuare e gettarsi sul pallone."

martedì 13 febbraio 2024

Recensione Cinema: POVERE CREATURE! di Yorgos Lanthimos.

Regia: Yorgos Lanthimos.
Anno: 2023.
Genere: Grottesco / Fantastico / Erotico.
Attori Principali: Emma Stone, Mark Ruffalo, Willem Defoe, Ramy Youssef, Christopher Abbott.
Fotografia: Robbie Ryan.
Musiche: Jerskin Fendrix. 
Durata: 141 minuti.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Undici nomination agli oscar, due Golden Globe vinti (migliore attrice e miglior film), per un film piuttosto ardito e coraggioso (presenti anche diversi momenti splatter e gore), che affonda le sue radici nei classici della narrativa fantastica e li rimodula in un'ottica moderna e artistica. Frankenstein di Mary Shelley, palesemente citato dal trucco di Willem Defoe (un personaggio assurdo il suo) e dal rimando (questa volta all'adattamento cinmatografico di James Whale) delle scariche elettriche per riportare in vita un corpo morto, L'isola del Dottor Moreau di Herbert G. Wells e ancora Il Gran Dio Pan di Arthur Machen, La Mandragora di Hans Heinz Ewers e un romanzo semisconosciuto (Anima Nera) di uno psichiatra dedito al fantastico che i fan conoscono come Frank Graegorius per i suoi testi inseriti nella collana I Racconti di Dracula. Questi gli ingredienti, a cui si aggiunge un'intelaiatura da film di formazione incentrato sul tema dell'emancipazione della donna (dal controllo dell'uomo) sulla base del libero arbitrio. Diretto con piglio sperimentale da Yorgos Lanthinos (regia eccellente), che fa un uso massiccio del grandangolo anche in scene che si svolgono in interni, guardando un po' a Barbie (le scenografie artificiose quasi fiabesche e la fotografia con gialli-arancioni sparati sono un valore aggiunto non di poco conto) e, al tempo stesso, all'età vittoriana (carrozze trainate da cavalli, vaporetti, ma anche strane funivie urbane) in un mix da steampunk. Visivamente molto bello, con tanto, tanto, sesso (alla Ivo Torello) e una protagonista apatica e non “corrotta” da quel senso etico che in realtà fa comportare i presunti civilizzati come individui che pretendono di avere per sé chi apprezzano solo per motivi sessuali asservendosi a un'ipocrita falsità di fondo (come si deve rispondere a una cena di gala). Un aspetto da una parte positivo, ma dall'altro rappresentato da una ragazza egoista (perché priva di coinvolgimento cerebrale o, se preferite, emotivo) pur se nel suo altruismo umanitario (si dispera dopo aver visto i poveri morire, sentendosi in colpa per la sua estrazione sociale). Fortissimo il rimando a Machen ed Ewers (avrebbero amato il film e con loro ne avrebbe parlato bene anche il citato Oscar Wilde), con la follia che finisce per pervadere molti degli amanti della donna (notevole Mark Ruffalo che ritorna ai tempi di In The Cut), evidentemente settati in modo malato e possessivi, con continui ribaltamenti dei ruoli (questo si era percepito anche in Barbie). E' fortissima questa componente del film e su essa si poggia tutta la parte centrale del film. Mark Ruffalo, pur essendo uno sciupafemmine, fa di tutto per far stare bene la sua donna, le dice di volerla sposare e di voler farsi una famiglia con lei, ma la ragazzina (alquanto ninfomane e schiava del sesso) non può essere ingabbiata in uno schema che non ne caratterizza lo spirito. Bella Baxter (una magistrale Emma Stone) è tutto fuorché sensuale o bella alla Margot Robbie, eppure ammalia o meglio ipnotizza (come le dice il "cornutissimo" promesso sposo, disposto a passare sopra tutto pur di sposarla). La sua ingenuità è tale da farne una sorta di ragazza ritardata o, meglio ancora, fanciulla, nonostante le esperienze di vita la portino a svilupparsi sempre più sotto un profilo culturale (ma non emotivo o spirituale) fino a trasformarsi in un medico. Molti i contenuti intrinseci per un'opera che acquisisce valenze psicanalitiche, da ricercarsi persino nella notevole passione artistica che pervade la regia (si vedano gli originali titoli di coda o l'uso delle scenografie, molte delle quali ricreate utilizzando uno sfondo green screen).

Esilaranti i dialoghi di Tony McNamara (si ride persino) con Bella che parla di qualunque cosa, anche le più riservata, come se stesse parlando del più o del meno, senza alcuna malizia o scopi ulteriori. Non manca un messaggio finale di fondo che, pur muovendosi da uno spunto pessimista e nichilista ("l'uomo è fondamentalmente cattivo"), tende, attraverso l'infantile protagonista, ad abbandonarsi al sogno di un mondo migliore da realizzare attraverso lo sviluppo di ogni singolo uomo (senza religioni, etica o ipocrisie a influenzarne la condotta) così che dal miglioramento del singolo si arrivi a quello della collettività in una concezione decisamente libertina che riconduce l'atto sessuale (evidentemente trattato con rimandi freudiani quale forza motrice del tutto) a una pura esigenza fisiologica che genera felicità se non castrata o incanalata nella monogamia (questo dice il regista). Notevole da un punto di vista tecnico e artistico, sebbene non originale quanto potrebbe sembrare allo spettatore medio, Povere Creature! frulla horror, fantastico, erotico, filosofia, grottesco e fantascienza riuscendo a potare a termine un film solido. Sorprende che i bacchettoni di Hollywood non lo abbiano penalizzato, essendo un prodotto concettualmente molto più europeo che americano. Da non perdere per gli appassionati di contaminazioni tra fantastico ed erotico. 

  L'attrice Emma Stone,
candidata all'oscar e vincitrice del Golden Globe

 "E' l'obiettivo di tutti, fare progressi.

martedì 6 febbraio 2024

Recensione Narrativa: TERRE DESOLATE di Stephen King.

Autore: Stephen King.
Titolo Originale: The Waste Lands.
Anno: 1991.
Genere:  Fantastico: III capitolo saga La Torre Nera.
Editore: Sperling & Kupfer.
Pagine: 452.
Prezzo: 14.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Terzo capitolo della saga fiume della Torre Nera. Stephen King lo scrive nel 1991, mentre sta completando Cose Preziose. È un King, probabilmente, all'apice del suo periodo migliore. The Waste Lands (“Terre Desolate”) inizia laddove, quattro anni prima, si era concluso The Drawing of the Three (“La Chiamata dei Tre”) e delinea la classica struttura da point to point che caratterizzerà la serie, in cui i protagonisti marciano lungo scenari variabili (spiaggia, foresta, ambiente urbano, deserto) verso la destinazione finale rappresentata dalla fantomatica Torre Nera. È proprio da questo romanzo che il ka-tet (un gruppo di persone legate insieme dal destino) rappresentato dal pistolero (Roland), Eddie (l'ex tossico) e la colored disabile Susannah (che viaggia su sedia a rotelle), a cui si aggiungeranno Jake e un animaletto (cosiddetto bimbolo) simile a un cane parlante, prende la marcia in direzione della Torre Nera al fine di ristabilire l'ordine atto a invertire il processo di distruzione (e di espansione) che sta portando al collasso il mondo di Roland.

King offre frammenti del passato del "Tutto Mondo", la dimensione parallela in cui vivevano “i Grandi Antichi”, esseri umani con una conoscenza pari a quella degli dei, e in cui ha sede la Torre Nera. La Torre Nera è il portale che governa tutti i mondi e che si trova al centro di un cerchio rappresentato da altri dodici portali interconnessi ai vari mondi (compreso il nostro). È proprio in tale dimensione “fantastica” che ha luogo la marcia di Roland e dei suoi amici. Il plotoncino vaga per le lande desolate di un mondo post-atomico, in cui al fantasy e al western si miscela la fantascienza cibernetica. Tolkien, Lovecraft, James Cameron, Philip K. Dick e Robert Zemeckis (riferimento a Ritorno al Futuro con tanto di omaggio agli ZZ Top) si incontrano in un mix altamente visionario (specie nella seconda parte del romanzo). Troviamo animali androidi (sono i guardiani dei portali), creature extraterrestri, demoni stupratori, guerrieri deformi dal retrogusto punk, mutanti, città che ricordano Prypjat e un treno supersonico condotto da un computer che rimanda all'intelligenza artificiale stile Skynet di Terminator, al punto da controllare a proprio piacimento le sorti di una città fatiscente destinata alla distruzione.

Rispetto a La Chiamata dei Tre, rallenta il ritmo e c'è un minore rimando (comunque presente) alle vicende del “nostro” mondo, da cui viene recuperato Jake. Quest'ultimo è il ragazzino che il pistolero aveva lasciato morire ne L'Ultimo Cavaliere, ma che non è morto nella nostra realtà in quanto, ne La Chiamata dei Tre, Roland ha modificato la catena degli eventi che lo avrebbero condotto alla morte e dunque al primo passaggio nel Tutto Mondo, permettendone così un secondo passaggio. Ecco che si delinea una sorta di duplicazione di personaggi e di vicende in un vero e proprio gioco, tra futuro e passato, che ricorda molto Ritorno al Futuro Parte 2 di Zemeckis (omaggiato anche con i cartelloni di Clint Eastwood nei quali Jake riconosce il volto di Roland).

Notevole la parte finale (dove si ha una prima traccia della civiltà del mondo di Roland), con un epilogo proiettato verso il quarto capitolo, in cui King offre il meglio della propria visionarietà, aprendo uno squarcio su un mondo malato flagellato da radiazioni e dalla desolazione più assoluta, in cui si muovono pterodattili, serpenti giganti e creature umanoidi che hanno smarrito i tratti umani. Decisamente più fantascientifico che fantasy o horror. Da affrontare solo dopo aver letto i primi due capitoli.


Un buon romanzo è spesso come una serie di indovinelli in altri indovinelli.