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domenica 26 settembre 2021

Recensione Narrativa: LA GUERRA DEI MONDI di Herbert G. Wells.

Autore: Herbert G. Wells.
Anno: 1897.
Genere:  Fantascienza/Horror.
Editore: Fanucci.
Pagine: 252.
Prezzo: 10.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Capolavoro indiscusso dello sci-fi horror, capace di tracciare le coordinate di un sottogenere talmente forte e affascinante da debordare dal contesto artistico/scientifico per dirompere in quello massmediatico, sociologico e persino complottistico. Un'eruzione dai confini in grado di abbracciare l'interesse di capi di stato e studiosi di comportamenti di massa. Artefice di tutto questo è il talentuoso Herbert George Wells, un trentenne biologo convinto sostenitore delle teorie darwiniane nonché allievo del biologo Thomas H. Huxley (padre del futuro autore di uno dei romanzi distopici per eccellenza: Brave New World – Mondo Nuovo). Uno studioso così diligente e “profetico” che, negli anni a seguire, verrà da molti definito “il padre della fantascienza”.

Il contesto scientifico in cui Wells muove le sue storie è una costante, un coacervo di situazioni avveniristiche e antesignane che tracciano una linea marcata tra etica medica, involuzione dei valori all'evolvere della specie e sviluppi sociologici connessi. Un atteggiamento e un approccio che rendono lo scrittore un filosofo scientifico, un ispiratore politico oltre che un visionario capace di solleticare, specie all'epoca, il sense of wonder dei lettori e fungere da ispirazione, tra gli altri, per il nascente sottogenere apocalittico legato al crollo sociale di un mondo in balia di variabili fuori dal controllo umano.


LE ORIGINI DEL ROMANZO

Non è dunque un caso se The War of the Worlds prende forma sulle riviste di divulgazione scientifica. È il 1896 quando Wells, stimato autore dei romanzi The Time Machine (1895) e The Island of Dr Moreau (1896), pubblica il saggio Intelligence on Mars (1896) sul periodico Saturday Review.

L'articolo viene stimolato da precedenti supposizioni riconducibili all'astronomo Giovanni Schapparelli e al collega americano Percivall Lowell. I due, attorno al 1895, rilevano la presenza di strani canali (“formazioni rettilinee estese per lunghi tratti”) sulla superficie di Marte. Mentre l'italiano resta sul vago, Lowell, in Mars (1895), qualifica i canali quali “imponenti opere di ingegneria idraulica progettate per meglio gestire le scarse risorse idriche del pianeta”. Naturalmente avrà torto e non tarderà chi lo farà notare, come Vincenzo Cerulli che parla di “illusioni ottiche”. Wells, fervente sostenitore della possibilità di vita su Marte già dal 1888, prende la palla al balzo per la stesura del suo articolo. Nel testo si dilunga in lunghe descrizioni biologiche in cui descrive la vita su Marte, adattando le caratteristiche anatomiche di vegetali e “animali” marziani in base alle specifiche condizioni ambientali. In altri termini, Wells parte dalle condizioni ambientali marziane in modo da utilizzare le stesse per elaborare, nel pieno rispetto degli insegnamenti di Charles Darwin, un ideale profilo anatomico di creature capaci di adattarsi all'habitat.

Wells, durante una camminata nei pressi di Woking, parla della questione al fratello. Il dialogo si trasforma in una discussione che fa sorgere in Wells la prospettiva di utilizzare lo spunto come base per un racconto. È il fratello a dargli la spinta decisiva, parlando degli effetti provocati dagli inglesi sugli indigeni della Tasmania. "Cosa succederebbe se scendessero dei marziani qui nel Surrey?” dice Wells al fratello. Ecco che spunta l'idea della discesa di marziani alquanto originali, tutt'altro che umanoidi, dotati di un cervello enorme (Tim Burton ironizzerà sulla cosa nel sarcastico film degli anni novanta Mars Attacks!) e bisognosi di macchinari per muoversi. La fuga da Marte viene vista come necessaria per far fronte alle sempre più critiche condizioni di vita. Un'invasione non dissimile a quella dei coloni nelle lontane lande entrate a far parte del Commonwealth, tutt'altro che guidata da propositi di amicizia o coesistenza paritetica. Wells sfrutta la fantascienza per intavolare una feroce critica al colonialismo, alla legge del più forte, ma anche all'arroganza umana nei rapporti con le creature del creato (in particolare gli animali) e i più deboli. In altre parole, si ribalta la posizione di dominio dell'uomo (o del cittadino inglese) trasformando lo stesso in un animale costretto alla fuga al cospetto di esseri superiori che ne mutuano l'atteggiamento. “Questa guerra ci ha insegnato la pietà: pietà per quelle anime inferiori che subiscono la nostra dominazione” scrive con ottimismo Wells, cercando di stimolare le capacità di immedesimazione del lettore al fine di comprendere quale sia la cosa giusta da fare.

Wells utilizza, sia come struttura sia come base del suo The War of the Worlds, il romanzo fantapolitico The Battle of Dorking (1871) di George T. Chesney, un testo giudicato da molti “l'iniziatore della letteratura dell'invasione” in cui si immagina l'invasione delle truppe di uno stato continentale ai danni di un'Inghilterra incapace di difendersi.

Alla maniera di Chesney, Wells narra la storia in prima persona, utilizzando un testimone oculare che racconta i fatti anni dopo rispetto a quando gli stessi si sono consumati. Quest'ultimo racconta le avventure in cui si è ritrovato coinvolto, facendo riferimento anche ai racconti successivamente appresi per voce da altri testimoni. Su queste coordinate, Wells parte nella stesura dell'elaborato che uscirà in nove puntate, tra l'aprile e il dicembre del 1897, su Pearson's Magazine, per venire raccolto in un unico volume nel 1898 da William Heinemann. Arriverà in Italia tre anni dopo, grazie alla traduzione richiesta dalla Antonio Vallardi Editore.


UN ROMANZO COMPLESSO

L'origine saggistica del romanzo è percepibile in una struttura narrativa che, ogni tanto, abbandona la via narrativa, sacrificando ritmo e fluidità, per prendere quella del saggio. Una soluzione alla Moby Dick (1851) di Melville, per intenderci, seppur meno estesa e più diluita in una narrazione che è assai lontana dal voler essere enciclopedica. Un taglio che, in epoca moderna, potrebbe far apparire pesante qualche capitolo, addirittura far propendere qualcuno per un alleggerimento da ottenere con opportuno intervento di forbice. Non è tuttavia questo a farne un romanzo complesso. Sotto l'apparenza da romanzo popolare, peraltro dotato di un impatto visionario e di un'azione capace di incollare i lettori alle pagine, The War of the Worlds tocca con profondità molteplici tematiche. Filosofia, sociologia, religione, psicologia di massa, scienza, guerra e politica sono solo alcuni dei temi trattati. Wells mette molta carne al fuoco e lo fa in modo da trasformare un apparente testo per ragazzi in un capolavoro della letteratura. Il fatto che si tratti del primo romanzo in assoluto su un'invasione aliena nonché di un precursore dei cosiddetti survivor o apocalittici (The Purple Cloud di Matthew P. Shiel uscirà quattro anni dopo), col protagonista che pensa per lunghi tratti del romanzo di esser rimasto l'ultimo uomo sulla terra, costituisce un tassello in più che esalta ulteriormente il lavoro dell'autore.

 

Una scena dall'adattamento cinematografico di Spielberg

NON SIAMO SOLI NELL'UNIVERSO

Il primo spunto di riflessione, che è insito già nel titolo, è il superamento dell'idea che l'uomo e la Terra siano al centro dell'universo. Wells dice ai suoi lettori che non siamo gli unici nell'universo e anticipa la scoperta attraverso una serie di bagliori avvistati su Marte. Sono i fuochi degli shuttle che, uno dietro l'altro, prendono moto dal pianeta rosso direzione terrestre. Gli astronomi però ancora non lo sanno, pur abbandonandosi in una serie di congetture. Se ne accorgeranno qualche giorno dopo, a seguito della caduta di una serie di cilindri piovuti nei pressi di Londra. È un evento capace di scuotere l'umanità per il suo minare tutte le credenze e deflagrare le certezze maturate in millenni di evoluzione. Quanto l'uomo ha scoperto e creato è nulla se parametrato alle conoscenze e alle attrezzature del popolo invasore. Il romanzo è ambientato a inizio secolo, in epoca ancora vittoriana, e la cosa rende ancora più manifesto il divario di conoscenze. Carrozze, uomini che scappano in bicicletta e cannoni mossi su carretti sono la risposta umana al cospetto di esseri che sfruttano veicoli a propulsione motorizzata, macchinari sospesi a trenta metri d'altezza, gru a forma di granchio, raggi inceneritori che polverizzano qualunque cosa che attingono e gas mortali. Wells porta in chiave evoluta e, purtroppo, profetica la guerra (ottocentesca) che funestava la campagna in piena città, simulando gli effetti di quei bombardamenti che sventreranno l'Europa negli anni quaranta. Si pensi in particolare all'utilizzo dei gas tossici, arma per eccellenza nel primo conflitto mondiale e poi vietata dalle convenzioni internazionali.

La supposta evoluzione dell'uomo è pertanto relativa, illusoria e nulla se comparata a quella di chi si trova secoli più avanti nella scala evolutiva. Cade anche la convinzione dell'uomo quale creatura eletta di Dio (perdita della fede persino nei rappresentanti del credo, crollo di edifici religiosi) e si modificano persino le prospettive: l'uomo non è più dominante e la sua società è sull'orlo del collasso. Dice uno dei protagonisti: “persuasione di non essere più un padrone, bensì un animale tra gli animali sotto il tallone di un marziano.”

IL CERVELLO COME INDIVIDUAZIONE DEL SOGGETTO

L'evoluzione che Wells immagina è giostrata sullo sviluppo del cervello, vero e unico elemento centrale ed essenziale nell'individuazione dell'essere, con buona pace delle teorie aristoteliche legate alla convinzione che fosse il cuore la sede dell'anima. I marziani di Wells, così come quelli di Stehen King in Dreamcatcher (“L'Acchiappasogni”, 2003), sono apatici, privi di emozioni e del tutto estranei da ogni attrazione erotica. Costituiscono il prototipo che i nazisti cercheranno di mutuare per la creazione dell'uomo del futuro. L'individuo stacanovista, cultore del lavoro e combattente irriducibile che non si ferma neppure per dormire o per cadere vittima di tentazioni epicuree. Wells parla di tutto questo in capitoli dal sapore saggistico, ripresi dal suo articolo precedente. A leggere ora il testo si intuisce una sorta di fusione tra componente biologica e componente meccanica, in quello che potremmo considerare un primordiale cyberpunk. Si pensi a film come Robocop (1987), per esempio. Il corpo dei marziani è divenuto, al passare degli anni, superfluo e quindi da lasciar decadere. Arti e organi sono caduti, superati nella scala del perfezionamento genetico. Solo le mani, per la loro funzione prensile, sono rimaste laddove in passato vi erano altri elementi che costituivano la parte esterna. Ora i marziani si muovono guidando immensi macchinari da loro stessi costruiti, un po' come faranno nei cartoni animati degli anni ottanta i piloti dei robottoni che delizieranno i pomeriggi di milioni di bambini.

L'essenza dell'essere è dunque nella testa e non nel corpo. Laddove il cervello è anima e sostanza, il corpo è carne marcescente e forma priva di significato oggettivo.

Il potere della mente marziana è tale da aver amplificato il funzionamento del cervello, portando questi esseri a sviluppare poteri che noi definiremmo parapsicologici. I marziani infatti comunicano tra loro attraverso la telepatia (King ruberà ancora, estendendo la stessa a una contaminazione con le menti degli uomini). Forse anche a seguito della coeva uscita del Dracula (1897) di Bram Stoker, Wells rende vampiri queste creature. I marziani si nutrono infatti di sangue di altri esseri viventi e questo li renderà mortali sulla terra per i motivi che andremo in seguito a spiegare. Scrive Wells: “Loro si sono trasformati in semplici cervelli che indossano corpi diversi a seconda della necessità, esattamente come noi uomini indossiamo abiti di stoffa e montiamo su una bicicletta per fare più in fretta.”


La locandina del primo adattamento cinematografico,
diretto nel 1953 da Byron Haskin.

LA RESISTENZA UMANA: DUE VIE PER CONTINUARE A ESISTERE

L'arrivo dei marziani dapprima suscita curiosità e interesse, quindi paura e reazione militare. L'attacco umano volto a uccidere il diverso, ovvero colui che non si conosce e dunque si teme, accelera il processo distruttivo. I marziani, dopo aver allestito le loro macchine, respingono l'offensiva e partono ad attaccare le cittadine del Surrey, luogo del loro atterraggio, puntando dritto su Londra (gli uomini fuggono in modo scomposto). Non è dato sapere se altri “cilindri” (così Wells chiama quelli che oggi definiremmo “sigari” o “Ufo”) siano caduti in giro per il mondo. La narrazione, essendo giostrata da un profilo soggettivo, è limitata al territorio locale. Immaginatevi lo schema narrativo di un Cloverfield (2008) per dirla in termini cinematografici o di un Earthworm Gods (“I Vermi Conquistatori”, 2005) di Brian Keene. Attraverso il suo protagonista, uno scrittore filosofo, Wells piazza alcuni capitoli in cui distruzione, tensione, paura e azione rendono unico ed estremamente moderno il racconto, tra palazzi che crollano, fiumi che evaporano, e tentacoli metallici che si muovono al suolo per abbracciare cittadini in fuga e condurli in alto nel cielo. Le caratterizzazioni dei personaggi sono centrali, non per nulla casuali. Vi è un curato che ha smarrito la fede in Dio, forse perché credeva che l'uomo fosse sotto la protezione di un qualcuno di superiore, e uno stoico artigliere dalla filosofia platonica che pensa a costituire una nuova società “repubblicana” sotterranea (si legga The Coming Race, “La Razza Ventura”, di Bulwer Lytton, 1871), in cui i filosofi siano a capo e i combattenti ai loro ordini, tralasciando tutti gli altri, da reputarsi subordinati e da scartare se affetti da vizi. “Non possiamo permetterci i deboli e gli sciocchi... Gli inutili, i maldestri e i dannosi devono morire. Vivere e contaminare la razza è una forma di tradimento.”

Curioso notare, ancora una volta, quanto Wells anticipi di svariati decenni le impostazioni che andranno per la maggiore nell'Europa continentale a partire dagli anni venti e trenta, creando danni e morti. Da grande darwiniano, del resto, non poteva non essere un autore affascinato dal concetto razziale da intendersi però nel senso più ampio possibile (e non nell'idea della superiorità di una razza sull'altra).

Attraverso i marziani, Wells delinea anche un'aspra critica al consumismo e al sistema capitalistico nascente. I marziani (tecnologici al punto da essersi integrati nelle macchine) non vengono tratteggiati alla stregua di macellatori gratuiti, piuttosto di creature intenzionate a creare un nuovo ordine mondiale che veda loro a capo di tutto. Un dominio forgiato sulla paura e sulla forza. La loro prova distruttiva è dimostrativa, una politica del terrore per piegare le resistenze e ricevere consenso, con buona pace di principi quali "la sovranità popolare" e la "libera manifestazione del pensiero". Chi si ribella muore e mette in pericolo tutta la popolazione. La divisone dei governati è fondamentale per mantenere l'ordine. Lo capiamo dai capitoli in cui il protagonista dialoga con l'artigliere, un altro superstite della mattanza. Nei suoi deliri, il soldato centra alcuni punti focali che ben rappresentano la psicologia sociale dell'uomo medio. In questo, The War of the Worlds è attualissimo. Al cospetto dei marziani (ovvero dei centri di potere) l'atteggiamento umano è duplice: remissivo/accondiscendente (atteggiamento prevalente) ovvero combattivo/rivoluzionario (eccezione).

Wells individua in questa dicotomia il senso della vita dell'uomo, lo fa dunque con un piglio materialistico da cui viene sottratta del tutto ogni ambizione ascetica. Per lo scrittore inglese il senso della vita è la conquista dell'indipendenza dal potere, un traguardo da perseguire non compiendo una scalata sociale premiata dal denaro e dalle poltrone di comando, ma attraverso la liberazione dalle catene del padrone e l'uscita dal "sistema". In questo consisterebbe la vera evoluzione umana. Il suo è un evidente approccio anarchico, da intendersi in senso elevato e dunque in antitesi con lo stato di caos in cui piomberebbe una civiltà sprovvista di padrone e, al contempo, incapace di autodeterminarsi (fondamentale è lo studio e la lettura dei giusti libri). Per liberarsi delle autorità (catene che impediscono l'evoluzione umana e rendono schiavo l'uomo), è indispensabile infatti una reale presa di coscienza dei valori e di sé stessi, senza cadere preda della tentazione di accettare concessioni e premialità offerte da un'autorità in cerca di compromessi utili a permetterle la detenzione del potere con un minore sforzo possibile con la relativa garanzia di controllo e manipolazione della popolazione.

Wells si rende tuttavia conto che questo fine elevato, che si potrebbe ottenere solo grazie all'attivazione dell'intelligenza di una popolazione nella sua interezza, è utopico. Il cittadino medio vuole i divertimenti, vuole vivere in modo tranquillo, senza pericoli, difficoltà e senza farsi le giuste domande. È disposto a cedere porzioni di libertà per non combattere e avere salva la vita, lasciando ad altri il compito di dirigere la vita sociale. Thomas Hobbes, del resto, insegna cosa stia alla base del famoso "patto sociale". “Io non ho certo intenzione di farmi prendere e addomesticare e ingrassare, allevato come un maledetto bue” dice l'artigliere, regalando quella che è un'aspra ed evidente critica del consumismo. Come dice Chuck Palahniuk in Fight Club (1996) “le cose che possiedi alla fine ti possiedono”. Il potere capitalistico ti concede per imprigionarti. Il vantaggio che consegui diventa una limitazione e una forma di controllo, esponendoti alla punizione e alla sottrazione. Per combattere l'invasore marziano (colui che vuol dominare il mondo) è necessaria la capacità di non rendersi dipendenti del benessere, la capacità di ricercare la giusta informazione nonché la comprensione delle meccaniche che stanno alla base dell'influenzamento mentale.

Wells, attraverso l'artigliere, si rivolge alla popolazione civilizzata, cioè coloro che hanno qualcosa da perdere. “Tutti questi individui, tutti questi piccoli impiegati non vanno bene. Non hanno spirito di adattamento, non hanno ambizioni o desideri importanti” prosegue nella sua filippica l'artigliere. Individua nei loro modi la paura di essere licenziati e il loro aver costruito una famiglia più per un'abitudine generale che per una vera e sentita convinzione. Il benessere diventa allora metro per leggere la disgrazia, si traforma in una posizione che crea ansia e paura, un po' come avviene con la droga quando un tossico inizia a temere di non poterne più far uso. Ciò che manca in chi vive a questa maniera è il principio cardine degli studi di Charles Darwin, cioè quella flessibilità tale che permette alla specie di adattarsi ai cambiamenti circostanziali così da non dipendere da ognuno di essi. Questi sono uomini che, pur di non perdere quanto hanno accumulato, accetteranno i marziani (i dominatori). “In molti prenderanno la situazione così com'è, grassi e stupidi... I deboli propendono sempre per una religione del non fare niente e si sottomettono alla prevaricazione e alla volontà del Signore.” In cambio di questo riceveranno la carota da chi comanda, l'invito a perseguitare chi non è come loro, senza rendersi conto che “faranno la fine di tutte le bestie mansuete... Nell'arco di poche generazioni saranno grossi, belli, di sangue buono, stupidi... spazzatura!”

The War of the Worlds nel suo essere un romanzo popolare è dunque un testo duro, critico e altamente sovversivo. La logica capitalistica viene spiegata quale via attraverso cui trasformare i cittadini in polli di allevamento (infatti i marziani si cibano degli uomini, tenendo alcuni di questi in gabbiette). Soggetti che devono solo obbedire e non porsi le domande, poiché ad altri è demandato il compito di risolvere i problemi. In questi soggetti gli uomini devono riporre la loro fiducia e farlo con una sorta di affidamento fideistico. Tutto questo non vi ricorda forse Matrix (1999)? Quanto era avanti, allora, H.G. Wells? 

Uno dei tanti epigoni del romanzo.

VALENZA DIDATTICA DEL ROMANZO: CONFRONTO CON INDEPENCENCE DAY

The War of the Worlds è un romanzo di grande valenza didattica. È utile a dimostrare quanto un soggetto di intrattenimento votato alla spettacolarizzazione visiva e dall'intensa azione possa assumere una luce diversa a seconda delle modalità attraverso le quali viene trattato.

Se prendiamo in esame il film Independence Day (1996) del tedesco Roland Emmerich ravvisiamo subito, in apparenza, un medesimo soggetto, peraltro con un finale simile in cui si sostituisce al virus influenzale (forza della natura) un virus informatico (forza dell'uomo) in grado di far cadere le protezioni aliene e condannare gli invasori alla sconfitta.

La mano autoriale di un artista emerge quindi non nella storia in sé per sé, ma in quello che io sono solito definire “il messaggio” veicolato dal soggetto. Ecco allora che il “semplice” racconto dell'invasione aliena diventa un pretesto secondario, un qualcosa di così fantastico che copre l'idea che sottende il tutto. L'idea è una sorta di virus che si muove in un contesto che lo cela, permettendogli di eludere sia il sistema immunitario delle censure sia il brutto stile tipico dei messaggi propagandistici. L'obiettivo di un autore (e non di un narratore) è far ragionare quei lettori che vogliono sforzarsi e si divertono a ricercare sotto la scorza dell'apparenza. L'apertura mentale è fondamentale, in quanto è richiesta la partecipazione di colui che legge che deve esser abituato ad avere una sua vera e propria idea. Questi sono coloro a cui piace farsi delle domande e ricercare risposte, che non devono essere univoche. La propaganda ha sempre la risposta giusta da dare a chi è in cerca di risposte, l'arte, invece, lascia nell'incertezza chi osserva e studia, permettendogli di trovare una sua risposta al problema. Ecco allora che The War of the Worlds e Independence Day, entrambi divertenti e capaci di intrattenere il pubblico, sono due opere diametralmente opposte.

Il romanzo di Wells è un'opera sovversiva, in cui si allude a futuri scenari degni di They Live (“Essi Vivono”, 1988) di John Carpenter. È un'opera in cui viene messa alla berlina la debolezza sia fisica che mentale dell'uomo. Vediamo infatti l'uomo muoversi all'impazzata calpestando il prossimo alla presenza di un pericolo, salvo poi prostrarsi al cospetto del più forte in cambio di un qualche (presunto) vantaggio personale, mostrando così il proprio atteggiamento votato all'obbedienza alla maniera di una pecora che necessita della presenza di un pastore per poter vivere nel gregge.

Il film di Emmerich fa il contrario. E' un prodotto propagandistico che inneggia ai centri di potere. Vediamo infatti persino il Presidente degli Stati Uniti combattere al fianco dei cittadini, con un reietto che abbatte l'astronave madre sacrificandosi per il bene collettivo (in Wells avviene il contrario) e la patria (da leggersi quale “il sistema”). In Independence Day non si scappa né si demanda ad altri la risoluzione del problema. L'uomo combatte in gruppo in nome di un'ideale che è quello dell'indipendenza, un'indipendenza però solo apparente in quanto legata alla sussistenza di un sistema. Se Wells si rivolge al singolo cercando di portarlo all'evoluzione, Emmerich si rivolge al collettivo franando l'evoluzione in nome del conformismo.

Orson Welles spaventa una nazione intera
con il suo adattamento radiofonico da Wells.

L'ADATTAMENTO RADIO DI ORSON WELLES

Oltre per gli adattamenti cinematografici che hanno visto coinvolti registi del calibro di Byron Haskin (1953) e Steven Spielberg (2005), con adeguamento temporale e cambio di location geografica (entrambi ambientati negli Stati Uniti), il romanzo è celebre per l'adattamento radiofonico curato dal futuro premio Oscar (per la sceneggiatura de Il Quarto Potere, 1941), nonché ghost writer dei testi del Presidente degli Stati Uniti Delano Roosvelt, Orson Welles.

Quasi omonimo dell'autore di The War of the Worlds, il 30 ottobre del 1938, la notte di Halloween, il ventitreenne Orson Welles, collaboratore della trasmissione Mercury Theatre on the Air, prende l'opera di H.G. Wells (ancora in vita) e la trasforma in una calibrata e indovinatissima cronaca in diretta, minuto per minuto, che, intervallata da pezzi musicali e interventi di inviati sul campo, viene trasmessa dall'emittente radio newyorkese CBS come se fossero una serie di aggiornamenti dell'ultima ora di un fatto di cronaca. Gli inviati parlano prima di un meteorite caduto nel New Jersey e poi di una invasione extraterrestre, lo fanno in modo concitato, con calibrato montaggio di effetti sonori, urla, voci in background e fiato grosso dell'inviato che si da alla fuga. La resa è così ben riuscita che molti ascoltatori la prendono per vera, sebbene la natura fantastica fosse stata preannunciata in testa al programma. La follia è un male contagioso, passa di bocca in bocca e prende presto a diffondersi molto più di un semplice virus. In poche ore, il delirio scoppia nello stato. I cittadini abbandonano le case proprie come nel romanzo di Wells e si ammassano nelle Chiese a pregare. Altri urlano per le vie, si rotolano a terra, qualcuno si suicida, altri prendono la macchina e si recono nei luoghi interessati dall'attacco, qualcuno addirittura conferma l'invasione. C'è anche chi chiama il New York Times per chiedere A che ora è la fine del mondo? (domanda che darà poi il titolo al famoso pezzo dei R.E.M.).

La cosa farà così scalpore da portare gli americani a non credere, anni dopo, all'attacco dei giapponesi a Pearl Harbor, scambiando la notizia per una burlonata della radio. Le notizie del caso arriveranno anche in Europa, scomodando i rappresentanti dei maggiori poteri di stato. Adolf Hitler non tarderà a sottolineare “l'eccessiva credulità del popolo americano”, citando l'evento in uno dei suoi celebri discorsi.Wells si dirà sbigottito.

Anni dopo, Welles dirà al regista Peter Bogdanovich: “Mentre stavano distruggendo il New Jersey, cominciammo a renderci conto che avevamo sottovalutato l'estensione della vena di follia della nostra America.” La cosa la dice assai lunga sul potere di chi detiene i canali di informazione.

 

L'autore H.G. Wells

Uccisi, dopo che tutte le creazioni dell'uomo avevano fallito, dagli esseri più umili che Dio, nella sua saggezza, aveva posto su questa Terra.”

mercoledì 22 settembre 2021

Recensione Narrativa: ODIAMORE di Giordano Sammuri.

Autore: Giordano Sammuri.
Anno: 2018.
Genere:  Giallo/Drammatico/Horror.
Editore: Il Mio Libro.
Pagine: 144.
Prezzo: 15.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Autoproduzione che ha poco o nulla da invidiare a un volume regolarmente edito. Giordano Sammuri, esordiente narratore livornese nonché vorace lettore, debutta col piglio del narratore esperto proponendo un'antologia macabra a sfondo realistico impreziosita da qualche spunto horror.

Grandissimo collezionista e studioso della produzione di Stephen King, Dan Simmons e Joe Lansdale, di cui ha letto praticamente tutto, Sammuri è un agente di polizia locale con trascorsi in laboratori di scrittura e corsi di scrittura creativa. Un background che è palpabile dalla lettura dei racconti che compongono l'antologia Odiamore.

Dodici racconti, dalle cinque alle quindici pagine, confezionati con uno stile estremamente asciutto e moderno, con periodi brevi e scarso utilizzo della virgola. La lettura è semplice, priva di fronzoli e leziosismi, eppur accompagnata da frequenti paragoni. L'ambientazione toscana, tra Pisa e Livorno, parte quasi sempre dalla cronaca nera o dalle cronache legate alla seconda guerra mondiale (tema caro all'autore) per sviluppare soggetti piuttosto realistici che solo in qualche circostanza accedono a un fantastico che guarda alla tradizione etrusca piuttosto che a quella di matrice anglo-americana.

Pur se cultore del genere horror, i racconti di Odiamore svelano un legame col giallo e il drammatico, senza disdegnare un certo gusto per l'azione. Sammuri è abile gestore della tensione che monta al procedere della lettura, in vista di finali talvolta spiazzanti e crudeli. È l'orrore sociale a interessare l'autore, in particolare quello insito nella famiglia. Non di rado i malvagi delle storie dello scrittore sono i parenti stessi delle vittime, spesso le madri o i padri, altre volte sono soggetti che potrebbero sembrare dei soggetti virtuosi o che dovrebbero aiutare coloro che sono in difficoltà. Le creature ultraterrene, quasi sempre legate alla tradizione etrusca, diventano entità protettrici di bambini in difficoltà o, in altri casi, dei giustizieri sanguinolenti chiamati a liberare la società da banditi e rapinatori. Il male, dunque, quale risposta a un male più ingiusto.

Vi è un solo caso, in deroga a questa impostazione. Nel racconto In Fondo alla Strada, forse il più inquietante e più riuscito del lotto, Sammuri propone un soggetto ambasciatore di morte, capace di muoversi nel tempo e nello spazio a bordo di una strana vettura che, dall'esterno, pare in tutto e per tutto una Jaguar. L'essere, all'apparenza un uomo capace di mostrare il futuro alternativo col tocco di una mano, emana un tanfo pestilenziale e si rivela capace di estorcere al protagonista la sua collaborazione. È di gran lunga il racconto più kinghiano di Odiamore nonché l'unico racconto in cui il soprannaturale si carica di un valore negativo. Un vero e proprio gioiellino che, se presentato nei concorsi narrativi, avrebbe avuto diverse chance di piazzamento.

In Ti Vengo a Prendere, elaborato piuttosto convenzionale, l'amore di un padre verso il figlio si rivela più forte della morte ed è tale da salvare lo stesso dalla follia della madre. Similare, ma di qualità superiore, è La Porta. Qui abbiamo una scenografia interessante, una sorta di tempio etrusco, da cui secondo la leggenda è possibile ritornare dalla morte (un po' come Pet Semetary di King). E' quello che cerca di dimostrare un giovane bambino, dopo aver adagiato il proprio canarino sull'altare, ma qualcosa va storto. Il padre infatti lo sorprende all'interno del tempio e decide di imprigionarlo. Tra le mura della struttura il bimbo finisce preda di un vecchio intenzionato a procedere a un rito sacrificale. Verrà salvato dal piccolo amico volatile. Sulla stessa falsa riga è L'Uomo di Atlantide, che vede fuoriuscire dai sotterranei scoperti da un tombarolo un essere capace di arrestare gli orrori di cui si è reso responsabile il serial killer violentatore di donne che lo ha portato alla luce. Allineato alla medesima impostazione, anche se decisamente più action, è Furia, testo ancora una volta ispirato dalle leggende etrusche. Qui è un mostro alato, che si manifesta sotto le sembianze di un'attraente donna di trentacinque anni, a debellare una banda di rapinatori intenzionati a svaligiare la villa e a violentare la donna.

Altri killer, questa volta umani, chiamati a rimediare agli orrori della perversione umana si incontrano in Fides e in Un Uomo Qualunque. Nel primo racconto (assai crudo e violento) siamo alle prese con un solido e interessante elaborato, tra i migliori del testo, che vede per protagonista un timorato uomo di famiglia costretto a ricorrere a una banda di delinquenti per venire a capo del mistero legato all'uccisione della figlia minorenne. La verità che emergerà dalle inconsuete indagini sarà a dir poco mostruosa, caratterizzata da un totale ribaltamento dei ruoli. Il secondo testo risponde a una logica similare e vede, ancora una volta, le vittime di un danno ingiusto costrette a rivolgersi a un sicario. In entrambi i testi, Sammuri evidenzia l'impotenza di chi dovrebbe garantire il rispetto della legge e assicurare i delinquenti alla giustizia e lo fa portando alla luce un atteggiamento passivo da parte delle autorità dettato da connivenza e/o corruzione.

Un altro giallo ben gestito è Tutto per Sbaglio, giocato a cavallo tra paranormale e realismo e risolto grazie all'intervento di un qualcuno capace di ricordare nelle fattezze la vittima di uno stupro finito male e, per questo, far cadere in errore un sospettato incapace di trattenere le emozioni e i sensi di colpa.

Broken propone, da diversi punti di vista, un episodio della seconda guerra mondiale, aprendosi sul volo di un bombardiere americano prossimo a sganciare una bomba sulla città di Pisa.

Ben gestito è Evans, testo d'azione dove un commando di forze speciali libera un bambino dalla mani di un gruppo terroristico.

La Strada dei Venti è un tributo ai racconti del nonno del protagonista, a suggerire un omaggio memorialistico legato all'infanzia dello stesso autore. Il Fiume è forse il racconto meno riuscito, a causa dell'assenza di un vero e proprio finale, un vizio che rende il testo un mero esercizio di stile.

Una lettura dunque agevole, in cui Sammuri dimostra di meritare una chiamata dagli editori ufficiali. Il maggior legame al giallo e al territorio autoctono, tra l'altro, dovrebbe rendere il volume più appetibile sul mercato. Da tenere sott'occhio.

sabato 4 settembre 2021

Recensioni Narrativa: L'ACCHIAPPASOGNI di Stephen King.


Autore: Stephen King.
Titolo Originale: Dreamcatcher.
Anno: 2001.
Genere:  Fanta/Horror.
Editore: Sperling & Kupfer.
Pagine: 680.
Prezzo: 12.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Primo romanzo di King pubblicato dopo il terribile incidente patito nell'estate del 1999, un episodio che viene assorbito completamente dal testo inizialmente intitolato “Cancro”. Il dolore fisico, le difficoltà deambulatorie, il ricovero ospedaliero, ma anche il desiderio di mollare, di pensare di staccare la spina sono aspetti che colpirono King, al punto da portarlo ad annunciare il ritiro dall'attività di scrittore. Un disturbo emotivo e fisico che confluisce nel romanzo, scritto in piena convalescenza, per contaminare i personaggi dello stesso e farne portatori di una sofferenza continua. È il dolore, dopo le risate iniziali, il vero protagonista del testo.

Iniziato il 16 novembre 1999, Dreamcatcher (“L'Acchiappasogni”) viene ultimato sul finire del maggio del 2000. “Quei sei mesi e mezzo furono segnati da forti dolori fisici, e la scrittura riuscì a portarmi altrove” ricorda lo scrittore. Eppure il dolore è una costante del romanzo e, non a caso, uno dei protagonisti è reduce da un gravissimo investimento stradale i cui postumi lo hanno ridotto a una zoppia e all'applicazione di una placca all'anca.

King torna allo sci-fi horror, ripescando un romanzo anch'esso riconducibile a un periodo doloroso della sua vita (quella volta dovuto alla lotta contro la dipendenza da alcool e droghe). Dreamcatcher, infatti, ha molte similitudini con The Tommyknockers (1987). Torna il tema degli alieni e dei dischi volanti, del controllo telepatico degli stessi a danno dell'uomo, dei denti che cadono e degli orologi che si fermano in presenza di un incontro ravvicinato e del potere alieno di ordinare azioni a cui la ragione umana non può ribellarsi. A differenza del precedente romanzo, Dreamcatcher è molto più maturo e votato alla spettacolarizzazione (soprattutto nel primo terzo del libro). Gli extraterrestri (mutevoli di forma e in grado di assumere le sembianze pensate dall'uomo) sono presenti e si muovono sulla terra, inoltre la storia è preceduta da una rassegna di titoli di giornali che fanno subito saltare a mente il filo conduttore che legava gli episodi della fortunata serie X-Files assai in voga nel periodo. Si parla di Roswell, di avvistamenti UFO e di debunking e cover up da parte del governo.

Non si contano le citazioni cinematografiche, da Alien (la specie di incrocio tra una donnola e un verme che cresce nei corpi degli uomini per poi squarciarli dall'interno e fuoriuscire da essi) a La Cosa (il ghiaccio, la neve, ma anche l'alieno che assume il controllo dei corpi umani), passando per Mario Bava (direttamente citato da King, probabilmente in omaggio al film Terrore nello Spazio a sua volta ispiratore di Alien), The Hidden ("L'Alieno" diretto nel 1987 da Jack Sholder) fino al war movie Apocalypse Now, con un assalto elicotteristico militare condotto da un ufficiale psicopatico che si chiama Kurtz (nome del colonnello impazzito interpretato da Marlon Brando), una perfetta fusione tra l'omonimo personaggio interpretato nel film da Marlon Brando e il colonnello Kilgore cui dava corpo Robert Duvall.

Scena tratta dalla trasposizione cinematografica del romanzo.

 Al di là di questo, Dreamcatcher è un romanzo fortemente kinghiano. In altre parole, è un testo che rispecchia il King degli anni ottanta. È lo stesso King a esplicitare questo pur citando una lunga serie di film, dal classico L'Invasione degli Ultracorpi al moderno e fracassone Independence Day nonché strutturando il tutto su una sorta di ribaltamento del tema legato al virus con cui aveva giocato Herbert G. Wells nel capostipite del genere La Guerra dei Mondi (1898).

King riporta i suoi lettori all'immaginifica Derry, menziona i fatti che funestarono la cittadina nel 1985 parlando di un assassino vestito da clown e mostrando un monumento commemorativo imbrattato dalla scritta “PENNYWISE LIVES”. Oltre questo c'è la costruzione del testo a rendere manifesta la mano dell'autore. Dreamcatcher è un romanzo kinghiano, che si muove su un doppio binario (presente-passato) grazie a un gruppo di amici di infanzia che si ritrovano da adulti e che sono legati a un evento riconducibile al tempo della scuola. Ritorna infatti lo schema di opere classiche dell'autore, quali It e la novella The Body (da cui il film Stand by Me), su cui si innesca l'altro tema caro all'autore, ovvero quello dei poteri parapsicologici. Così come nei primi esempi della narrativa kinghiana (si pensi a Carrie, Shining, La Zona Morta, L'Incendiaria etc) abbiamo dei personaggi capaci di leggere nel pensiero (caratteristica peraltro amplificata dall'interazione aliena) e di trovare, con la forza della mente, oggetti o persone scomparse (si parla di “vedere la riga”). Altro tema caro all'autore è l'utilizzo di disillusi alla deriva (tra cui un alcolizzato e uno psichiatra che pensa seriamente a suicidarsi) e di soggetti diversamente abili (il Duddits bullizzato e affetto da una sindrome down, ma capace di vedere oltre i limiti umani in virtù di una sorta di sesto senso) proposti quali eroi chiamati a salvare il mondo, in luogo dei soggetti preposti (nella fattispecie i militari) caratterizzati con piglio negativo e manipolatorio. Sono aspetti già visti in romanzi quali Cose Preziose, La Zona Morta o L'Ombra dello Scorpione.

King amalgama così una serie di ingredienti che dovrebbero rendere il romanzo, pur se ultra diluito nella parte finale e particolarmente corposo (prossimo alle 700 pagine), un must per i lettori affezionati, per l'essere in perfetta in linea con la visione tipica dell'autore.

Nel suo essere “tipico”, Dreamcatcher lascia un po' perplessi per il suo inizio. Dopo la rapida presentazione dei quattro protagonisti, infatti, seguono circa 150 pagine caricate da un taglio che offre la sensazione di essere alle prese con una parodia del fanta-horror. Rutti, parolacce e scoregge caratterizzano questa fase, con l'autore che si sofferma più volte a sottolineare il particolare olezzo e il rumore dei peti, alla maniera di un bimbo dell'asilo che ride a crepapelle sapendo che qualcuno ha violato le norme comportamentali di buona educazione impartite dai genitori. Si tratta però della fase di incubazione dell'orrore che è pronto a esplodere e che irrompe in un centinaio di successive pagine da annoverarsi tra le più ispirate dell'autore. Azione, grandguignol e sense of wonder si manifestano all'ennesima potenza. Si tratta del punto più alto del romanzo, a cui fa seguito la presa di coscienza di ciò che sta succedendo. È in corso una subdola invasione aliena, orchestrata da un folto gruppo di alieni (assai vulnerabili) discesi a bordo di un disco volante e portatori di un virus capace di colpire animali (bella la parte con tutti gli animali che fuggono dal bosco), vegetazione e l'uomo, coprendoli progressivamente di una mortale muffa epidermica di colore rossastro e altamente infettiva (denominata Ripely, in omaggio a Sigourney Weaver, eroina della saga cinematografica Alien) o di alimentare, attraverso inalazione, la crescita di un parassita intestinale (ribattezzato “la donnola di merda”) in grado di crescere a dismisura sino a divorare dall'interno il portatore per poi fuoriuscire dall'ano e azzannare chi gli sta a tiro. King si sposta da qui alla tematica della pandemia e dell'isolamento in quarantena dell'area interessata, altro tema caro allo scrittore, per mostrare il modo sbrigativo e totalmente incurante dei diritti umani attraverso il quale l'esercito e soprattutto il governo centrale rispondono al problema. Così assistiamo al controllo dell'informazione, al divulgare notizie false e rassicuranti da parte del Presidente della Repubblica per ingannare la popolazione ed eliminare a tappetto, in modalità rastrellamenti nazisti, i possibili contaminati, poco importando se siano o meno affetti dal virus o che questo sia, in qualche modo, regredito dopo la prima azione virulenta.

Dopo due/terzi di romanzo, caratterizzato da un ritmo piuttosto buono pur se con rallentamenti vari nella narrazione, l'opera va incontro a una parte terminale meno riuscita. Ha luogo un doppio inseguimento che vede l'alieno superstite, che si è impossessato del corpo di uno dei protagonisti, braccato, a distanza e via jeep e spartineve, dal coprotagonista e da un militare ribelle a loro volta inseguiti da Kurtz e altri militari intenzionati a non lasciare testimoni sul campo. L'azione si appesantisce, pur non scomparendo, ed entra in gioco un taglio introspettivo, verrebbe da dire aristotelico, con un viaggio nella mente e nei ricordi dei protagonisti, rappresentato in modo materiale e concreto. Il posseduto, infatti, si rintana nella propria mente, muove gli scatoloni dei ricordi come se il cervello fosse un enorme hardisk, per sottrarli dalla disponibilità dell'alieno che muove il corpo e parla cercando di pescare istruzioni tra le conoscenze del posseduto, così da potersi adeguare al mondo umano (di cui non riesce a comprendere la parte emotiva, pur venendone a sua volta infettato). L'obiettivo dell'alieno, autore di un'azione kamikaze, è diffondere il virus attraverso l'inquinamento della rete idrica dell'acquedotto che irradia acqua su Boston. Si tratta di una parte senza troppi colpi di scena, un po' lenta e molto giocata sui collegamenti telepatici che iniziano a manifestarsi tra tutti i partecipanti. Non è un caso se due anni dopo, Lawrence Kasdan (regista incaricato di dirigere la trasposizione cinematografica), velocizzerà la parte in modo molto importante, concentrandosi sull'invasione aliena e sulla presenza dei virus, piuttosto che lavorare sul piano introspettivo legato al passato. Una soluzione capace di rendere più accattivante, ma forse meno originale, il soggetto.

Non particolarmente amato dai lettori kinghiani, Dreamcatcher è un romanzo che spacca le opinioni, tra chi lo considera tra i peggiori lavori dello scrittore del Maine e chi invece ne apprezza l'azione e la componente splatter. Forse non troppo dotato di un messaggio di fondo innovativo, è comunque un romanzo capace di commuovere il lettore, di infondere speranza, pur nel dolore e nella sensazione di esser destinati a una vita in cui i sogni d'infanzia sono stati disattesi (“stessa merda, altro giorno”), in vista di un obiettivo superiore scritto da un qualcuno che, dall'alto, muove i fili della vita e rende incomprensibile a noi umani il grande disegno divino che ci vuole, ognuno di noi, depositari di un ruolo decisivo che ignoriamo. A questa riflessione, nelle ultime pagine del romanzo, sembra giungere King, delineando il male quale pedina necessaria e non sacrificabile per dare dimostrazione del bene. Tra alti e bassi, Dreamcatcher è un classico della fantascienza horror legata all'azione degli alieni.

 
L'Acchiappasogni è il primo romanzo pubblicato
da STEPHEN KING dopo l'incidente che 
gli è quasi costato la vita
 
"I sogni invecchiano prima dei sognatori... Ma gli ultimi sogni sono duri da morire, e se ne vanno con rauchi gridi strazianti in un recesso del cervello."


giovedì 2 settembre 2021

Recensione Narrativa: HANNIBAL LECTER - LE ORIGINI DEL MALE di Thomas Harris.

Autore: Thomas Harris.
Titolo Originale: Hannibal Rising.
Anno: 206.
Genere:  Drammatico/Horror.
Editore: Mondadori, 2007.
Pagine: 336.
Prezzo: 6,00 euro).

Commento a cura di Matteo Mancini.  

Quarto e ultimo episodio, in ordine di uscita, della saga dedicata al più famoso serial killer della narrativa: lo psichiatra cannibale Hannibal Lecter.

Thomas Harris, scrittore tutt'altro che prolifico (appena sei romanzi in quarantasei anni di carriera), torna a interessarsi delle sorti del suo celebre personaggio. Sono passati otto anni dal precedente Hannibal, il romanzo che sposta Hannibal più in là nel tempo mostrandolo in piena attività a Firenze dopo la fuga dal carcere di massima sicurezza. Lo scrittore americano, a differenza dei precedenti episodi, interrompe la sequenzialità temporale della serie e torna indietro nel tempo, alla maniera di una seduta ipnotica che cerca di comprendere le ragioni di un male freddo e apatico.

Hannibal Rising, da noi messo in commercio col titolo “Hannibal Lecter – Le Origini del Male”, è un'indagine nell'inconscio del protagonista fin dalla prima pagina. Un prequel che copre l'adolescenza e la primissima parte della giovinezza di Lecter, ma che qui si ferma, lasciando spazio per altro materiale,  in vista di una nuova ed eventuale uscita, utile a fungere da raccordo tra questo e Red Dragon.

Apparso per la prima volta nel 1981 come personaggio di supporto nel romanzo Red Dragon, Hannibal Lecter ha conquistato le platee grazie al successo del film The Silence of the Lambs (“Il Silenzio degli Innocenti”), capolavoro thriller diretto nel 1991 da Jonathan Demme e tratto dall'omonimo romanzo uscito nel 1988. Un successo, reso memorabile per effetto della glaciale interpretazione di Anthony Hopkins, premiato con cinque statuette oscar e tale da portare Harris a scrivere un sequel (Hannibal, 1999) e un prequel nonché a spingere i produttori a curare una versione del remake del primo romanzo della serie in cui dare più spazio al cannibale.

A differenza dei precedenti episodi, Harris modifica il taglio del soggetto. Pur essendo inserito nella collana de Il Giallo Mondadori, peraltro in un numero commemorativo (uscita 3.000, apparsa in edicola il 18 marzo 2010), Hannibal Rising è una revenge story di impronta cinematografica, assai lontana da quel piglio criminologico e di indagine su cui si muovevano Red Dragon e The Silence of the Lambs. Il poliziesco lascia spazio al filone di guerra (nella prima parte) e a un'azione grandguignol alla Tarantino. Harris costruisce il soggetto su una formula piuttosto collaudata fin dai tempi del genere western. Un ragazzo, anni dopo il fatto, cerca coloro che gli hanno distrutto i ricordi di famiglia e ucciso la sorellina. Per questo se ne va in giro a cercare gli aguzzini e, uno a uno, li fa fuori tutti. Non ci sono indagini, né spunti di particolare interesse criminologico. Lo scrittore si concentra sull'influsso che un passato traumatico può provocare nello sviluppo emotivo e nel futuro di un bambino poi divenuto adulto. Al centro della storia ci sono i traumi e le follie della guerra. La lotta per la fame, lo shock di vedere i propri genitori morire sotto le bombe dell'aviazione tedesca e quella disperazione che porta un gruppo di cinque criminali di guerra in combutta con i nazisti a divorare una bambina di cinque anni. Hannibal è lì, presente a tutto questo. Ha assistito, impotente, a un orrore che potrebbe condurre alla pazzia chiunque, soffocato dai sensi di colpa (addirittura ha mangiato anche lui sua sorella, pur se inconsapevole). Un meccanismo auto protettivo lo ha portato a cancellare le tracce del passato e a perdere la parola, almeno per un po' di tempo. Un orrore sepolto negli abissi dell'animo, eppur presente, pronto a tornare a galla e a spingere a una vendetta che ucciderà la sfera emotiva sostituendo la morte alla vita.

Harris caratterizza nel dettaglio il piccolo Hannibal e gli da un'origine nobiliare. Il padre è un conte Lituano, titolare di un castello nei pressi di Vilnius dove il piccolo Hannibal è cresciuto nello sfarzo insieme alla madre italiana (imparentata con Visconti e Sforza), alla sorellina più piccola e ai maggiordomi. L'arrivo dei nazisti prima e dei sovietici cancella però l'agio e riduce Hannibal sul lastrico. Il giovane perde rango, agi e serenità, ma non il genio. Abile col pennello e nello studio della medicina tanto quanto nelle tecniche assassine, è fin da subito quel manipolatore capace di sovvertire un interrogatorio e trovarsi lui a interrogare il poliziotto di turno impegnato a cercare di incriminarlo. Già a tredici anni maneggia la katana con l'abilità di un samurai. Abile anche con pistola e ovviamente con quel bisturi con cui seziona i cadaveri presso il dipartimento di medicina di Parigi.

Profondo cultore di musica classica e di pittura, viene mostrato nel momento della vita in cui il suo inconscio lotta tra il bene e il male. È attratto dalla vedova dello zio, l'uomo che lo ha tirato fuori dall'orfanotrofio prima di morire per riportarlo a vivere negli agi di famiglia nella Parigi degli anni cinquanta. La giovane, una giapponese che a Hiroshima ha perso l'intera famiglia, consapevole dei suoi crimini cerca di ricondurlo sulla retta via e lo protegge. Prova a donargli amore, per dissuaderlo dai propositi di vendetta. Hannibal è gentilissimo con lei, così come con gli animali e i deboli. Odia i prepotenti e i maleducati, ma soprattutto coloro che gli hanno fatto del male. Il suo cuore però è morto in Lituania, non può più vivere come una persona comune. “Cosa è rimasto in te da amare?” gli chiede Lady Murasaki. Lui non risponde, non batte ciglio, così come non ha reazioni quando viene sottoposto alla macchina della verità. Non prova sentimenti, è una macchina fatta per uccidere, una specie di sicario che non prova sensi di colpa. Eppure, a suo modo, è un antieroe. I cittadini francesi, quando vengono informati dei suoi crimini, lo acclamano e ne chiedono la liberazione a gran voce. A morire infatti sono tutti i collaboratori nazisti. Alla maniera di un Dexter ante literram Hannibal uccide chi si merita di morire: doppiogiochisti, pedofili, uomini violenti con le donne, ladri e assassini. Hannibal, a differenza delle sue vittime, è educato, colto, il miglior studente di medicina di Parigi. Segue un personalizzato senso etico che lo porta persino a scusarsi con i cadaveri sottoposti alle sue autopsie o a dare sollievo ai condannati a morte somministrandogli degli oppiacei prima che il boia metta mano alla ghigliottina. Con le vittime invece è sadico, sfrontato e persino sarcastico. Si diverte a torturarle, dando loro la sensazione di potersi salvare. Decapita teste, le pone in bella vista alla stregua di trofei dopo averne asportato le guance ed essersi deliziato degustando spiedini con funghi e carne umana. È un mostro atipico per cui i lettori finiscono per tifare.

Da un punto di vista tecnico, il romanzo si legge in un paio di giorni. È breve, con un taglio mainstream. Non aspettatevi particolare tensione o colpi di scena. Più che in thriller, infatti, siamo alle prese con un drammatico, caratteristica che potrebbe lasciare deluso più di un lettore.

Nel 2007 Thomas Harris ha adattato il romanzo per il cinema, rendendolo molto più veloce (tagliati diversi personaggi) ed esplicitando la spinta cannibalica di Lecter. Vediamo infatti il giovane ragazzo addentare il volto del capobanda che in Lituania cucinò sua sorella, con il regista che si sofferma sulla faccia solcata di sangue del giovane assassino (alla stessa maniera vediamo Hannibal leccarsi un dito insanguinato in occasione del suo primo omicidio). Il romanzo, in questo, è molto più sfumato e si limita a suggerire.

Il film non ha avuto grandi apprezzamenti, pur essendo più che discreto con Gaspard Ulliel chiamato con successo al difficile ruolo di personificare il giovane cannibale (interpretazione sul modello di Hopkins). Nonostante l'impegno anche alla regia e alla fotografia, il film ha avuto un'immeritata nomination quale Peggior prequel ai Razzie Awards 2007. 

Ci sarà un nuovo parto di Harris dedicato alla serie? Per dirla alla Battisti, ci attiviamo a cercare un nastro rosa e non certo con la speranza che sia femmina.

 
L'autore Thomas Harris.
 
 "Il piccolo Hannibal è morto nel 1945 là fuori nella neve, cercando di salvare la sorella. Il suo cuore è morto con Mischa. Che cos'è ora? Non c'è una parola per dirlo. In mancanza di meglio, possiamo chiamarlo mostro."