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sabato 15 ottobre 2022

Recensioni Narrativa: SANGUE SELVAGGIO a cura di Nicola Lombardi.

Curatori: Nicola Lombardi
Anno: 2018.
Genere:  Antologia AA.VV Horror / Weird Western.
Editore: Weird Book.
Pagine: 214.
Prezzo: 17.50 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Lodevolissima iniziativa a cura di Nicola Lombardi, giallista e soprattutto maestro del terrore italico da oltre trent'anni. Lo scrittore romano, nell'occasione, si “riduce” a selezionatore e predispone per l'emergente Weird Book (casa editrice da tenere d'occhio) un'antologia dedicata al weird western. Otto racconti dei più famosi specialisti italiani della narrativa del terrore, eccezionalmente prestati al western.

Criticata da alcuni lettori, Sangue Selvaggio intrattiene dalla prima all'ultima pagina, trovando nelle scenografie il punto di forza. Salvo un'eccezione offerta da Musolino, emerge l'immagine di un western torrido, flagellato da tempeste di sabbia, in cui pistoleri, più o meno indolenti, devono vedersela con la violenza selvaggia degli indiani ma anche con le mille insidie dell'ambiente. Più che la lezione garantita dai western di Robert Ervin Howard o del western che dominò nelle sale cinematografiche negli anni sessanta e settanta, si sente marcatissima l'influenza dei racconti di Joe Lansdale, di Jack Ketchum, di Valerio Evangelisti e persino di Michael Crichton. Il western viene ibridato, oltre che dall'horror (licantropi, leggende indiane, streghe), dalla fantascienza. Ologrammi che fungono da sfondo a sfide che ricordano il romanzo Il Mondo dei Robot, ma anche sortilegi connessi al palo-mayombe che provocano squarci dimensionali che rapiscono e spostano nel tempo e nello spazio personaggi e armamenti vari. Le citazioni non si contano. Il lettore più smaliziato può persino divertirsi a individuare personaggi battezzati con nomi che hanno fatto la storia del cinema di genere, quali Doug Bradley (l'interprete che ha personificato al cinema Pinhead nella saga Hellraiser), Waltz (cognome di uno degli attori feticcio di Quentin Tarantino), Ketchum e persino la riproposizione di un John Wayne divenuto vampiro.

Un altro aspetto comune è caratterizzato da alcuni fil rouge ritornanti, quali le teste mozzate, le tempeste di vento, lo sciamanesimo, i saloon, le eviscerazioni e, naturalmente, i pistoleri e le loro armi (debitamente descritte).

Sebbene non tutti i racconti siano originali, l'intrattenimento è sempre garantito, grazie ad abilità stilistiche che non lasciano rimpiangere firme internazionali. Brillano, su tutti, Danilo Arona e Luigi Musolino, due veri fuoriclasse. Arona con Malongo provoca un brainstorming nel lettore, ben metaforizzato dalle terribili tempeste di sabbia che investono i protagonisti. In apparenza difficile da seguire, il racconto è un mosaico di tasselli decostruiti e rimodulati secondo una logica deformante. A metà strada tra magia nera, rimandi al Pazuzu de L'Esorcista e a una serie di tematiche già affrontate da Arona in altri testi, persino saggi (il Santa Ana, altrimenti detto “Il vento del diavolo”), Malongo arriva a cucire episodi del lontano far west con le operazioni militari nella Guerra del Golfo dei primi anni novanta. Estremamente onirico e visionario, è il soggetto che regala le scene più affascinanti dell'antologia (bellissima la parte con il carrarmato americano disperso nel deserto irakeno).

Eccellente è anche Teste di Luigi Musolino, senza ombra di dubbio il racconto più elegante per scrittura e gestione della tensione. Musolino è un vero e proprio maestro (ma di quelli con la M maiuscola), uno scrittore in grado di rivaleggiare con firme ben più note d'oltreoceano e che non è mai stato menzionato al Bram Stoker Award (dovrebbe esserlo, visto chi riceve premi a ripetizione). Il suo racconto, peraltro l'unico ad avere un'ambientazione glaciale, è una progressiva discesa verso la follia, ai piedi di una catena montuosa interessata da lontane leggende indiane e infestata da teste umane volanti. Una sorta di giallo che evolve in una maledizione ultraterrena. Finale ad alta tensione, con punte di orrore degne delle pagine di weird tales. Chapeau, per dirla alla Goggi.

Interessante, ma fortemente debitore del soggetto del film Bone Tomahawk (2015), Bad Lands di Stefano Di Marino. Cultore del genere (sua la guida Odoya sul cinema western), ma soprattutto firma della collana Segretissimo della Mondadori, Di Marino porta su carta l'azione e la truculenza della pellicola di Craig Zahler, di cui riprende l'idea della contaminazione tra western e presenza di una tribù di indiani trogloditi praticanti il cannibalismo. Extreme horror a tutti gli effetti, ma mai volgare e sempre attento a garantire l'intrattenimento.

Questi sono i tre testi migliori, a cui si aggiunge il “finto western” John Wayne, una sorta di giallo ambientato in epoca moderna che si trasforma in horror e che ha il pregio di essere il romanzo più ambiguo dell'antologia, aperto a diverse soluzioni di interpretazione. Lo firma lo specialista di romanzi sui vampiri Claudio Vergnani, che anche qua non resiste al gradito richiamo (pur se accennato in un unico dettaglio). Divertente l'inizio, con un circo itinerante che propone la sfida tra un misterioso pistolero uguale in tutto e per tutto a John Wayne (infatti è proprio lui) e gli spettatori del pubblico che intendono misurarsi con la velocità dell'uomo (ma è davvero un uomo?). Tra echi a Crichton e altri che ricordano il racconto breve Pistolero fuori Tempo di Edward Wellen, Vergnani sviluppa una trama gialla con un gruppetto di indagatori che cercano di venire a capo alla misteriosa coincidenza che porta alla scomparsa di una serie di soggetti che hanno incrociato il loro destino alla presenza ambulante del circo. Attenzione all'epilogo, visto che la soluzione suggerita per risolvere il mistero potrebbe non essere quella reale. Molto carino.

Brillano meno, per motivi diversi, gli altri racconti. Luigi Boccia (The Grinder) propone un bizzarro revenge movie con un pistolero soprannaturale, capace di incendiare con la mente i nemici per effetto di misteriosi esperimenti subiti per mano di un mad doctor. Scritto molto bene (l'unico che ha rimandi allo spaghetti western), con una buona caratterizzazione dei personaggi, sconta un finale un po' troppo frettoloso.

Claudio Foti, cultore di Robert Ervin Howard, presenta Il Lascito di Stella Caduta, un curioso mix di erotismo, fantasy e horror che trasla in ambito western il mito di Excalibur. La dama del lago diviene una sirena, la spada un tomahawk e Re Artù il famoso Cavallo Pazzo che ucciderà, qualche giorno dopo munito della speciale arma destinata all'eletto, il Generale Custer. A tratti molto buono, è un racconto un po' ripetitivo nella sua parte centrale e forse troppo statico nella messa in scena, con una struttura perfetta per una rappresentazione teatrale.

Problemi di originalità per gli altri due, sebbene L'Oro degli Olandesi di Maico Morellini sia il racconto più in linea alla tradizione degli anni trenta del weird western che popolavano i pulp magazine americani. Il finale nelle viscere della terra ricorda certe storie di Howard, sebbene a impressionare sia la parte iniziale con l'entrata in scena dello sciamano russo. Un po' confusa la relazione tra spiriti indiani e spiriti della steppa.

Chiudiamo l'analisi con Uomini e Bestie di Gianfranco Staltari, che mette in scena una caccia a un enorme lupo che infesta un villaggio western. Un soggetto che sconfinerà nell'abusatissima traccia connessa alla presenza di un licantropo frutto di una maledizione dovuta al mancato rispetto della natura. Niente di originale, eppur scritto sufficientemente bene.

Da evidenziare la spettacolare copertina di Giorgio Finamore, senza ombra di dubbio il più talentuoso illustratore di copertine nel panorama italiano di genere degli ultimi dieci anni.

Plauso dunque per Nicola Lombardi e questo Sangue Selvaggio, che ha il merito di presentarsi quale antologia horror diversa per ambientazioni e in grado di offrire uno sguardo tricolore su un sottogenere, quello del weird western, assai poco trattato. Niente di estremamente innovativo, ma lettura perfetta per divertirsi pur se con qualche refusetto di troppo (banali errori di battuta che non inficiano il testo).

mercoledì 5 ottobre 2022

Recensione Narrativa: CUJO di Stephen King.

Autore: Stephen King.
Titolo Originale: Cujo.
Anno: 1981.
Genere:  Horror / Drammatico.
Editore: Sperling & Kupfer.
Pagine: 378.
Prezzo: 10.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Scritto sotto l'effetto di alcool e droga, tanto che Stephen King arriverà a dire di ricordare poco del periodo in cui fu scritto, Cujo è un romanzo breve più ascrivibile al drammatico che al genere horror. Il fantastico è del tutto assente, sebbene si tenti di introdurre pochi convincenti rimandi al baubau che minaccia i piccoli, palesandosi da armadi. Un modo per dire che il male è sempre in agguato e non per forza di cose connesso alle creature dell'oltretomba.

L'ispirazione del testo arriva da un episodio della vita reale capitato all'autore. Bisognoso di far riparare una moto, l'asso del Maine si sentì ghiacciare quando, giunto nel cortile di un meccanico di campagna, vide fuoriuscire dall'officina un grosso San Bernardo col fare tutt'altro che amichevole. L'animale, dalle movenze goffe, alzò la testa nella sua direzione e prese a ringhiare, prima di esser richiamato dal suo proprietario. Niente di tragico avvenne quel giorno, ma si innescò la scintilla che generò l'incendio nell'infiammabile mente dello scrittore.

Così nel 1981, dopo Firestarter (“L'Incendiaria”) e prima di Christine La Macchina Infernale, uscì una sorta di versione de Lo Squalo di Stephen King, con un cane rabbico (l'orrore è giustificato) che va in giro a uccidere persone al posto della macchina di morte di Spielberg (l'orrore è gratuito). Se è pur vero che questo è il tema principale del romanzo, ivi compreso l'attacco continuo a danno dell'auto dei due protagonisti (in luogo della barca dei tre eroi del film), sarebbe comunque riduttivo parlare di Cujo nei termini di una semplice beast story. King infatti intreccia alla storia principale una serie di sotto trame, tanto da fare del romanzo uno spin-off de La Zona Morta (1979). Si torna infatti nell'immaginaria Castle Rock e si fa riferimento a eventi legati al precedente romanzo, sebbene gli stessi non abbiano alcun ruolo nella storia in questione. La bravura nella delineazione dei personaggi porta King a caratterizzare al dettaglio le famiglie al centro dell'intreccio. Sappiamo tutto di queste: le loro aspettative, i loro sogni, ma anche le loro paure, le loro scappatelle sentimentali e i loro problemi accomunabili a quelli delle famiglie operaie o della piccola borghesia, con le difficoltà di arrivare alla fine di ogni mese, tra mutui e imprevisti. King fa ancora di più, scendendo nelle psicologie dei personaggi (cane compreso). Fornisce in particolare un anticipo di quanto farà anni dopo con Dolores Clairborne, Rose Madder e Il Gioco di Gerald. Entra infatti nella mente di due madri. La psicologia femminile è gestita con talento e ruota attorno a donne che vivono un momento difficile nella vita di coppia col relativo marito. Da una parte abbiamo una madre che, contrastata da un coniuge violento e manesco, lotta per sottrarre il figlio dalla squallida vita di campagna che lo attende nell'immediato futuro, cercando di fargli capire che in città esistono alternative molto più allettanti. Dall'altra abbiamo una madre in crisi psicologica che si tormenta per aver tradito il marito assenteista. In tutto questo si inserisce il “mostro”. King sviluppa in modo molto interessante il male, che si insinua in modo subdolo, prolifera sottotraccia e solo alla fine esplode. Il Mostro infatti non è una creatura malvagia per sua volontà, bensì un vittima di un morbo che distrugge il sistema nervoso e conduce nelle maglie della follia. Il San Bernardo giocherellone e amante dei bambini diviene un demonio assetato di sangue. Le descrizioni che lo riguardano sono notevoli e fanno presa sull'animo gentile e sensibile del lettore che, alla fine, si dispiace quasi più per le sorti del cane che per quelle dei protagonisti (si contano quattro morti).

Ne viene fuori un romanzo estremamente realistico e quadrato, peraltro con uno degli epiloghi più tragici dell'intera produzione del “nostro”. Non a caso i produttori della trasposizione cinematografica affidata alla direzione di Lewis Teague non se la sentiranno di mutuare l'epilogo del romanzo e alleggeriranno la drammaticità, superando in tal modo il taboo più grande per un genitore: la morte del proprio figlio.

Qualità indubbie quindi, pur se diluite da un intreccio troppo dispersivo e a tratti ripetitivo che interrompe di continuo l'azione principale. King struttura il testo portandolo avanti da tre/quattro punti di vista: abbiamo quello del cane che, di volta in volta, finisce con il coincidere con quello delle vittime nel momento in cui le stesse diventano tali (la più interessante), quello del marito della donna imprigionata nell'auto e quella della moglie del proprietario del cane. La seconda e terza traccia portano l'azione lontano da Castle Rock. In queste parti si parla di tutt'altro. Comprendiamo i problemi lavorativi di un uomo che teme il licenziamento dalla sua società impegnata nel campo pubblicitario e, dall'altro lato, venivamo bombardati dalle paure di una madre stanca del proprio matrimonio e intenzionata a strappare il giovane figlio da un futuro che lo porterebbe sulle orme del padre. In mezzo a tutto questo irrompe il grandguignol. King preme sul pedale dell'acceleratore e estrae dal cilindro uno dei migliori romanzi sugli animali killer anche perché, cosa non da poco conto, l'ira bestiale viene giustificata e, così facendo, esorcizzata dalla natura dell'animale. Responsabile delle morti quindi non è il San Bernardo, mero veicolo del demone, ma il morbo trasmesso dal morso di un pipistrello.

Per i motivi indicati, Cujo, pur non essendo un'opera principale nella produzione kinghiana, resta un romanzo sufficientemente riuscito e che offre punte eccelse di tensione e di coinvolgimento emotivo. Difficile dimenticarselo.

 
Il poster del film del 1981.
 
"Forse tutto quello che era successo prima era stato solo un sogno, niente più che una breve attesa dietro le quinte... Le scuole, gli amici, appuntamenti e le sere a ballare... le sembrava che fosse tutto un sogno, come forse sempre appariva la gioventù quanda si diventava vecchi. Non c'era più niente che contasse qualcosa, niente che fosse qualcosa, al di là di quel silenzio e di quell'aia infuocata di sole dove la morte era già passata e dove aspettava di giocare ancora le sue carte, tutti assi. E il vecchio mostro vegliava mentre suo figlio scivolava, scivolava, scivolava, via."