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sabato 25 luglio 2015

Recensioni Narrativa: Dracula di Bram Stoker.


Autore: Bram Stoker.
Anno: 1897.
Genere: Horror.
Pagine: 412
Edizione: Mondadori.

Commento di Matteo Mancini
Grandissimo classico della narrativa gotica e più specificatamente della narrativa del terrore, forse il più famoso romanzo horror, capace di ispirare un vero e proprio sottogenere ovvero quello dei vampiri. Scritto da uno scrittore irlandese all'epoca più famoso come critico teatrale che come romanziere, ebbe successo immediato al punto da interessare fin da subito il cinema che renderà questo romanzo un vero e proprio cult dell'immaginario colletivo con una serie interminabile di trasposizioni più o meno fedeli. 
Abbiam già parlato dell'autore, Bram Stoker, e della genesi del romanzo in occasione della recente recensione de La Vergine di Norimberga, entriamo dunque nel vivo del cuore della storia.

Innanzi tutto occorre analizzare la struttura del testo. Per dare verosimiglianza alla storia, Stoker ricorre allo stratagemma delle pagine di diario o delle lettere che i vari protagonisti si scambiano ovvero di stralci di articoli di giornale che commentano gli avvenimenti narrati. E' una soluzione che cala il lettore nella storia e offre il modo ai vari coinvolti di esternare le proprie emozioni, oltre a dare la parvenza di una cronaca di un episodio realmente accaduto. D'altro canto rende la struttura un po' frammentaria, cambiando spesso punto di vista e ponendo troppo volte l'attenzione su questioni marginali alla storia e più legate agli affetti dei vari protagonisti. Aspetti che tendono, in più di una circostanza, a spezzare il ritmo e a non dare fluidità al narrato.
Premetto subito che, ad avviso di chi scrive, Dracula è un romanzo sopravvalutato, molto diluito nello sviluppo del soggetto e per lunghe parti noioso. Sarò l'unico a cantare fuori dal coro, ma è quello che penso. E' comunque incontenstabile la notevole importanza storica del testo, per aver generato un vero e proprio sottogenere, ma anche per la presenza di alcuni passaggi e alcuni monologhi ben calibrati, dal retrogusto meta-filosofico, oltre che per alcune trovate a dir poco futuristiche.

L'autore Bram Stoker.

Veniamo alla storia. Stoker sviluppa il soggetto scrivendo qualcosa come 500 pagine, quando avrebbe benissimo potuto realizzare un romanzo da duecento pagine. La storia si riassume in poche righe e ha un soggetto, a mio avviso, un po' forzato (ma chi glielo fa fare a Dracula di andare in Inghilterra e prima ancora di segregare Harker nel suo castello?). Protagonista è Jonathan Harker, un procuratore alle prime armi, che viene spedito in Transilvania per perfezionare la vendita di una magione londinese. L'acquirente è un Conte smilzo, dal volto pallido e dai baffetti pronunciati, avanti con gli anni e con gli occhi iniettati di sangue. Si tratta del Conte Dracula, un non morto, ma ancora Harker non lo sa, sebbene in paese si mormorino strane leggende e soprattutto si faccia più volte il nome del diavolo. Dracula ha un passato da valoroso soldato, statista, alchimista, grande sapiente con un cuore che non conosce paura. Ha combattuto per la propria terra, respinto l'invasore. Narra fatti storici come se li avesse vissuti di persona, e di fatti è proprio così anche se all'inizio ad Harker sembra impensabile. Non si sa bene come sia diventato vampiro, si dice solo che questo passaggio lo abbia, difatto, instupidito e costretto a compiere azioni meccaniche alla maniera di un bimbo. L'inizio è molto promettente e fascinoso. Harker viene recluso nel castello, molestato da tre vampire iper sexy che lo vorrebbero sbranare in modo amoroso e lento, ma interviene in sua protezione Dracula che entra ed esce alla maniera di un geco che percorre le pareti esterne della magione a testa all'ingiù. Conosciamo subito i poteri e i vizi del mostro. Non mangia mai, vive negli scantinati della cappella all'interno di una bara e non si riflette negli specchi. Dracula controlla branchi di lupi, comanda agenti atmosferici come tempeste e nebbie, ha influenza sui topi, ha il dono proprio dei gatti che gli permette di assottigliarsi e di passare sotto piccole fessure. Ma ha anche grossi limiti, come l'impossibilità di ricorrere ai propri poteri nelle ore diurne, l'impossibilità di resistere agli oggetti sacri (in particolare ostie e crocefissi), ma anche all'aglio e ha altre limitazioni. Il suo alone di malvagità gli deriva dal fatto che va a caccia di bimbi, che rapisce, avvolge in sacche e li getta in pasto alle tre ragazze che vivono con lui al castello. Insomma è una creatura molto meno affascinante e molto meno pestifera di quella tracciata dai film, anche perché meno diabolico e meno intelligente di quanto il cinema ci abbia abituato a vederlo. Van Helsing dirà a più riprese che ha una mente fanciullesca ed egoistica.

La storia si sposta presto in Inghilterra dove Dracula, divenuto più giovane per aver succhiato un po' di sangue, si reca per prendere possesso della casa appena acquistata. Carfax è il nome della struttura ovvero Quatre Face per aver la caratteristica di avere i quattro lati corrispondenti ai punti cardinali (che abbia rilevanza metaforica e simbolica? Molto probabile data l'estrazione di Stoker). Non si capisce bene perché Dracula decida di emigrare dopo tanti anni, sembra per cercare sagnue fresco, ma la scelta si rivelerà, piuttosto velocemente, nonostante le lungaggini di Stoker, fallimentare. Dopo l'arrivo alquanto misterioso di una nave i cui occupanti sono tutti morti, dopo un viaggio all'insegna della follia (forse è la parte più paurosa del romanzo), Dracula, nella forma del lupo, sbarca nel Regno Unito. Qua il romanzo diviene lento. Stoker presenta la due protagoniste femminili, Lucy e Mary, le quali non fanno altro che parlare dei loro amori e dei loro sogni (parte pallosissima), tanto da tingere di rosa quello che è un romanzo nero. La parte centrale del romanzo la conoscono tutti ed è proposta un po' da tutti i film sul tema. Lucy, l'amica della fidanzata di Harker, viene vampirizzata da Dracula anche se la cosa resta celata per molto tempo. Deperisce sempre più e non se ne capisce la ragione. Le vengono praticate numerose trasfusioni di sangue, sebbene nessuno si spieghi come faccia a perderlo. A destare sospetti sono due piccoli fori che ha sul collo, simili a pinzi. Dracula, nel frattempo, è un personaggio latente, non si vede ma c'è, se ne percepisce la presenza per via di un ululato o di un pipistrello che svolazza nella notte. Viene chiamato in causa allora il grande professore Van Helsing, che giunge in supporto del dottor Seward, psichiatra impegnato, nel contempo, nello studio di un paziente zoofago chiamato Ranfield (personaggio che si sarebbe potuto tagliare e che viene messo per allungare la minestra e per compiere disserdazioni di carattere metascientifico). Van Helsing è il vero protagonista del romanzo. Dottore olandese di ampie vedute, che si esprime in modo sgrammaticato, perché è straniero. Arriva dall'Olanda ed è lui a comandare la battaglia contro Dracula, leggendo i diari di Harker, nel frattempo fuggito dalla Transilvania e ritornato a casa, e spulciando su antichi testi di stregoneria e di folklorismo. "Filosofo, metafisico, mente assolutamente aperta. Nervi d'acciaio, carattere di ghiaccio, volontà indomabile" quesa la descrizione che si fa di lui nel testo.

I medici non riescono però a salvare Lucy, che una volta sepolta torna in vita sotto forma di vampiro e seduce i bambini per poi succhiar loro il sangue. Van Helsing riesce a dimostrare la sua teoria, cioè quella dell'esistenza dei vampiri ritornanti, profanando la tomba (che scoprirà vuota) e uccidendo la vampira di giorno, conficcandole un paletto di frassino nel cuore. Tutto molto semplice, con poche resistenze.
L'ultima parte è incentrata sulla ricerca di Dracula, che poi non è tanto lontano essendo alloggiato accanto ai protagonisti. Quest'ultimo vuole vampirizzare anche Mary, perché è offeso dall'atteggiamento dei suoi rivali che hanno osato contrastarlo (e cosa avrebbero dovuto fare?). "E così vorreste mettere la vostra intelligenza a confronto con la mia! Ora voi sapete cosa significhi frapporni ostacoli... E voi, la loro beniamina, siete ormai mia... per ora mia rigogliosa vendemmia, in seguito mia compagna e mia complice!" Così dice, prima di darsi alla fuga in quattro e quattr'otto, anche perché i "buoni" troveranno tutte le casse di terra maledetta che il mostro si è portato dietro per potervisi nascondere nelle ore diurne e le renderanno inservibili consacrandole con l'apposizione di ostie benedette. Così pur essendo riuscito a mordere Mary e averla indotta a una sorta di battesimo satanico, costringendola a bere il sangue dal proprio ventre, Dracula si trova a dover cedere. Scappar via come un coniglio inseguito dalla muta di cani rabbiosi. Braccato da Van Helsing e soci si trova costretto a ritornare in patria, contrattando un posto a buon prezzo su un'imbarcazione diretta in Romania. Non riuscirà a farla franca. La cassa all'interno della quale è celato e che viene difesa da alcuni zingari, viene bloccata a poche centinaia di metri dal castello da Van Helsing e soci. Questi ultimi hanno infatti deciso di seguire il viaggio del Conte per altra via in modo da anticiparne l'arrivo a destinazione. L'obiettivo è spezzare il sortilegio che grava su Mary mediante l'uccisione del mostro. Per Dracula è la fine, un epilogo senza lotta, sbattuto sulla neve semidormiente per via del tramonto non ancora completato. Paletto nel cuore e testa decapitata, il tutto senza reazione. Per Mary è la salvezza, dal momento che la maledizione del vampiro cessa con la morte dello stesso. Questo in estrema sintesi il romanzo.

CHRISTOPHER LEE ovvero l'attore che ha interpretato
più volte Dracula.

Dunque una storia con pochi risvolti, molto ridondante, che propone, sotto altra veste, il tema della possessione diabolica. Una possessione che non è determinata da colpe, ma dal mero fato, dalla scelta di un non morto che vive nutrendosi del sangue altrui, come un perfetto parassita. Una possessione che si lotta con la fede, ma che necessita l'assassinio del diretto responsabile, poiché come una malattia infettiva porta alla morte e da questa alla perdizione e alla mutazione di tutte quelle caratteristiche dell'essere che l'ha provocata. Non c'è possibilità di salvezza, non esistono buoni o cattivi ma soggetti liberi  e schiavi. Dunque una morte che genere vita e che trasforma in entità diaboliche che si sostituiscono a Dio nel decretare chi debba avere la vita eterna, una scelta non dettata dall'amore e dalla generosità bensì da necessità egoistica. E come tutti gli egoismi da ciò non può che nascere un'esistenza dannata, una vita piegata alla schiavità di ripetere sempre i medesimi gesti non tanto per malvagità ma per bisogno esistenziale. Dracula non rappresenta il male, ma la dannazione. Semina morte e pestilenza perché è costretto a farlo. Apparentemente rappresenta la libertà assoluta e la ribellione ai formalismi e alle regole sociali, ma è solo una parvenza di libertà e di ribellione, perché è lui stesso assoggettato a regole che non può valicare. E' portatore di una forte carica erotica, anche se nel testo non emerge in modo sbandierato. Dracula non ama una donna in particolare, contamina tutte quelle che gli riempiono l'occhio. Una soluzione che all'epoca avrebbe potuto sconvolgere il bigottismo tipico della società vittoriana e che sicuramente lo avrà anche fatto. Ma a suscitare potenziale scandalo sono più gli atteggiamenti, quasi da libertine represse, delle sue vittime che non riescano a sottrarsi dai suoi attacchi, anzi sembrano riceverlo come in preda a un'estasi ai limiti dell'orgasmo. Stoker anticipa il tema della corruzione del sangue, delle malattie infettive trasmissibili con rapporto sessuale (e guarda caso con rapporti promiscui e occasionali). Eloquente, al riguardo, la scena in cui Van Helsing strappa il fidanzato di Lucy dalle labbra della donna che lo vuol baciare. Ancor più esemplificativa è la disperazione di Mary, quando dice che non potrà più amare il suo uomo perché comprende di esser stata morsa da Dracula ("Contaminata! Non potrò più né toccarlo né baciarlo. Oh, proprio io dovevo divenire la sua peggiore nemica, colei che più ha motivo di temere?"). Interessante è poi il collegamento ipnotico e mentale che si instaura tra Dracula e le sue vittime, che restano in contatto mentale con lui riuscendo a vedere dove si trovi e cosa stia facendo.Una trovata che sarà ripresa da dozzine e dozzine di romanzi successivi.

Si evince poi un'apertura di Stoker, da membro di certe società iniziatiche e segrete, al paranormale, al superamento dei limiti scientifici, andando a pescare direttamente da leggende medievali e da credenze sepolte nel tempo, quasi a voler recuperare la tradizione e anteporla al menzoniero progresso. E' grazie alla cultura tradizionale che Van Helsing piega il mostro e non in virtù delle conoscenze scientifiche acquisite grazie allo studio universitario. Si sottolinea pertanto l'importanza di possedere una mentalità aperta, di superare preconcetti e i limiti autoimposti dall'esperienza diretta. Mai pensare che certe cose non possano esistere solo perché non vi sono dimostrazioni contrarie. Si parte sempre da un fatto e si cerca la soluzionie, mai partire dalle soluzioni ritenute possibili per poi adattarle al dato iniziale di partenza, scartando a priori l'imponderabile.
Un romanzo a suo modo religioso che si interroga di continuo sul significato della vita, sulla destinazione post mortem delle anime, sulla necessità di conquistarsi la vera immortalità nella vita di tutti i giorni. "Perché la vita in fondo cos'è'? Solo l'attesa di qualcos'altro, no? E la morte è l'unica cosa sicura!" scrive Stoker, cercando di suggerire quale sia il vero senso della vita ovvero la conquista del Paradiso, senza farsi influenzare dai desideri materiali (vuoi della carne o delle proprietà immobiliari o delle monete che Dracula lascia cadere nella sua irruzione finale nella camera di Mary). Un'opera quindi che è bene aver letto ed è bene leggere per ragioni culturali, specie per gli amanti della narrativa del brivido, ma che ho faticato a terminare perché, a mio avviso, poco avvincente. L'amerà maggiormente un pubblico femminile, vuoi per la velata componente erotica, vuoi per il subliminale fascino operato da Dracula che riesce a valicare la carta stampata per sortire il medesimo effetto operato sulle vittime del romanzo nei lettori. Quando vi coricare a letto allungate un orecchio nella notte e fate attenzione al flebile battito d'ali che risuona nella notte: un non morto potrebbe essere lì che vi scuta dal buio della notte.

La carica erotica del romanzo parte anche dal fatto che DRACULA,
gran bel furbacchione, vampirizza sempre giovani donzelle e lo fa
con quello che è un bacio iper passionale. Scambio di fluidi.

"E' davvero meravigliosa la capacità di recupero della natura umana. Basta che una causa di ansia, quale che sia, venga rimossa in un modo o nell'altro ed eccoci a tornare spontaneamente ai normali principi della speranza e della gioia"

domenica 19 luglio 2015

Apertura canale youtube I GRANDI MAESTRI DELLA LETTERATURA FANTASTICA a cura di Matteo Mancini.




Rendo noto ai lettori del blog che ho provveduto ad aprire un canale su youtube in cui mi dedico alla spiegazione orale dei maggiori maestri della letteratura fantastica. Al momento sono stati realizzati quattro video, tutti piuttosto spartani nella messa in scena, di diversa durata, dedicati a Matthew G. Lewis, Leslie A. Lewis, Nikolaj Gogol e gli ascendenti di DYLAN DOG.

Chi abbia voglia può quindi sorbirsi questi video e, eventualemente, lasciare dei commenti. Ripeto lo stile è spartano, ma il contenuto credo efficiace. Un modo diverso per "pubblicizzare" mostri sacri, cercando magari di coinvolgere anche coloro che faticano a leggere.

Buona visione. 

Il link dedicato a Nikolaj Gogol: https://www.youtube.com/watch?v=A_zecVoeNNE 

sabato 18 luglio 2015

Recensioni Cinematografiche: QUELLA SPORCA DOZZINA di Robert Aldrich




Regia: Robert Aldrich.
Anno: 1967, USA.
Genere: Guerra.
Soggetto: tratto dal romanzo di E.M. Nathanson.
Sceneggiatura: Nunnally Johnson e Lukas Helle.
Interpreti Principali: Lee Marvin, Charles Bronson, John Cassavetes, Telly Savalas, Donald Sutherland, Jim Brown, Ernest Borgnine, Robert Ryan e Al Mancini.
Durata: 149.

Commento di Matteo Mancini (autore di Spaghetti Western V. 1 e V.2).
Pietra miliare del cinema di guerra, ma soprattutto base di riferimento per il nascente cinema di genere europeo e americano. E' Robert Aldrich a firmarlo e dirigerlo in un clima iniziale di scetticismo ingiustificato. Siamo infatti alle prese con un regista già affermato, che arriva a portare in scena questo adattamento da un romanzo di Nathanson con qualcosa come sedici pellicole all'attivo, oltre che un lunghissimo praticantato in veste di aiuto regista iniziato nel 1942 agli ordini di Robert Stevenson (è un caso di sdoppiamento di identità, ma non ha nulla a che fare con l'autore de Lo Strano Caso del Dr Jekyll e Mr Hide) e sviluppatosi soprattutto con Irving Reis, con l'apice ottenuto al servizio di Charlie Chaplin ne Luci della Ribalta (1952) che gli apre la carriera da regista. Professionista quindi già di grosso calibro, alla soglia dei cinquant'anni, più apprezzato nel vecchio continente che in patria come dimostrano Il Leone di Argento ottenuto al Festival di Venezia per Il Grande Coltello (1955) e la nomination al Leone d'Oro per Prima Linea (1956), nonché l'Orso d'Argento del Festival di Berlino con Foglie d'Autunno (1956) e la nomination alla Palma d'Oro di Cannes per l'assoluto capolavoro Che Fine ha Fatto Baby Jane? (1962).
Quando Aldrich inizia a lavorare a The Dirty Dozen è reduce da tre pellicole non particolarmente riuscite tra cui Sodoma e Gomorra (1962), dove vi ha lavorato in qualità di direttore della seconda unità Sergio Leone, e dalla beffa di aver ricevuto sette nomination all'oscar con Piano... Piano, Dolce Carlotta (1964) senza vincerne neppure uno. La carica emotiva quindi non gli manca e il copione ha tutti gli ingredienti per dare avvio, nel corso degli anni, a un sottogenere, a una serie di sequel (tre) e addirittura a un serial televisivo. C'è azione (pur se concentrata nella parte finale), buoni dialoghi caratterizzati dall'anteposizione di canaglie e reietti alle consuetudinarie presenze di uomini di alto rispetto nonché portatori di valori da diffondere nella popolazione e poi vi è un atteggiamento rivoltoso, più votato alla sostanza che alla forma, ai canovacci legati all'ambiente militare. Qua i protagonisti sono i reietti e non gli accademici.
L'idea è semplice e deriva dal romanzo di E.M Nathanson, autore tutt'altro che famoso. Abbiamo un maggiore dell'esercito americano, Maggiore Reisman (il nome sembra quasi un omaggio al maestro di Aldrich, che era Reis), che pensa bene di proporre all'alto comando americano una missione proibitiva, per i grossi rischi per il commando da impiegare, facendosi affidare i peggiori elementi dell'esercito allo scopo di mettere in piedi un nucleo di soggetti disposti a tutto. Riesce così a mettere su una rosa di reietti, addirittura tutti condannati a pene detentive con almeno cinque destinati alla forca, su cui nessuno punterebbe un mezzo dollaro. Gli uomini accettano, perché vien loro offerto, in caso di esito favorevole della missione, il condono delle pene (soluzione che starà alla base di dozzine di film successivi, su tutti 1997 Fuga da New York), ma il comportamento sbagliato di qualcuno di loro o ogni tentativo di ammutinamento determineranno conseguenze negative sull'intero gruppo. Gli inizi dell'addestramento sono tutt'altro che facili, c'è chi è riottoso agli ordini, chi sembra ritardato, chi è uno psicopatico, chi ha deliri religiosi culminanti con derive da missionario schizofrenico e via dicendo. Il maggiore però che li ha in custodia è un altro soggetto fuori dai canoni, inviso ai superiori per i suoi modi non convenzionali e addirittura per un atteggiamento tendente allo spaccone. Li mette in riga con modi duri, ma giusti. Li fa pernottare in baracche senza alcun confort, perché quelli si devono guadagnare sul campo. Conia per loro il nome di "sporca dozzina" perché loro per protesta rifiutano di radersi e di pulirsi finché non viene data loro l'acqua calda che viene invece garantita alla Militar Police. Reisman in tutta risposta fa togliere sapone e rasoi: "sarete il reparto più brutto e puzzolente degli Stati Uniti!". Alla fine però li premia promuovendo un'orgia nel campo, soluzione che manderà su tutte le furie colonnelli e generali, oltre che l'elemento affetto da deliri religiosi (il grande Savalas) nonché ultra misogino (sarà poi quello che complicherà la missione facendo indirettamente morire quasi tutti i suoi compagni).
La prima parte si consuma con l'addestramento di questi uomini, che non vengono chiamati per nome ma solo per numero, proprio come se fossero una squadra di calcio. Il Maggiore Reisman li fa fraternizzare "all'inglese" e così dai litigi e dagli spintoni (dovuti anche a questioni razziali) riesce a forgiare uno spirito di gruppo e di appartenenza sotto una medesima divisa, sebbene lo spirito di tutti i partecipanti, Maggiore compreso (che si unisce a loro nella missione combattendo fianco a fianco), rimane ribelle e insofferente ai formalismi. Costituisce al riguardo una palese critica ai formalismi e alle ipocrisie di fondo che governano certi meccanismi la sequenza in cui si assiste alla sceneggiata che mette in atto il colonnello Breed, interpretato da Ryan, quando pensa che tra i dodici sia infiltrato un generale, cui da corpo Sutherland, e per aggraziarselo riceve il gruppo con la banda e la musica, giusto per farsi vedere bello e ossequioso. I nostri terranno un atteggiamento da buzzurri che manderà su tutte le furie il colonnello: "Maggiore, qualcuno la potrà ritenere un ottimo ufficiale, per quanto mi riguarda lei è soltanto un pagliaccio indisciplinato e mediocre. Mi farò un preciso dovere di farla radiare dall'esercito!" urla a Marvin che in tutta risposta lo schernisce con humor british "Devo farle le mie scuse, signore, l'ho sempre creduta un tipo privo di immaginazione e di emozioni e invece... Molto emotivo, non è vero?"
La parte finale del film, la più spettacolare ma anche la più cinematografica (dal punto di vista della verosimiglianza), è incentrata sulla missione segreta del commando. I dodici comandati dal maggiore Reisman dovranno assaltare un castello, in Francia, dove è in corso un ricevimento che vede coinvolti i più alti gradi dell'esercito nazista. Reisman, in compagnia del polacco Wladislaw (unico del gruppo a parlare tedesco), si infiltra, vestito da ufficiale, all'interno del locale in attesa che i suoi uomini assalgano dall'esterno il castello. L'obiettivo è uccidere tutti i nazisti presenti. Cosa vi ricorda? Bastardi senza Gloria di Quentin Tarantino, esattamente e non è un caso dato che l'ispirazione di Quentin è più legata a questo film che a Quel Maledetto Treno Blindato di Enzo G. Castellari che, a sua volta, lo aveva omaggiato in modo palese col western Ammazzali Tutti e Torna Solo.
Aldrich gira questa parte finale con grande dispendio di capitali, ma alto senso per la spettacolarità. Memorabile l'esplosione di buona parte del castello per effetto di svariate bombe a mano e decine di litri di benzina versati dall'esterno nei locali sotterranei della struttura. L'esplosione sventrerà trequarti della costruzione, con fiamme e lingue di fuoco che avvolgeranno finestre e fuoriusciranno dagli squarci del muro, senza stacchi e tutto in primo piano. Sequenze davvero curatissime che risollevano il film da una parte centrale un po' noiosa e mi riferisco all'esercitazione in cui il gruppo deve dimostrare al colonnello Breed, suo assoluto detrattore, le capacità e le doti che il maggiore va decantando al generale Worden ("Il mio gruppo è il più preparato tra quelli di cui potete disporre"), quest'ultimo (lo interpreta il grande Borgnine) di vedute più aperte e disposto a concedere una chance all'accozzaglia di reietti. L'ufficiale sembra quasi godere nel vedere il modo in cui i ragazzi si prenderanno gioco del colonnello, arrivando a vincere la prova in un modo a dir poco disonorevole per il graduato che finisce preda di ilarità e di risate di gusto.

Il generale Warden (BORGNINE) se la ride quando capisce il gioco che la Sporca Dozzina
sta tirando al colonnello Breed.

Una nota di merito va al cast artistico a dir poco faraonico. Protagonista è il fresco premio oscar Lee Marvin, che in quegli anni avrebbe dovuto ricoprire il ruolo del colonnello Douglas Mortimer in Per un Pugno di Dollari, è lui a forgiare e a vigilare sul branco di schegge impazzite che ha deciso di domare e di utilizzare per una missione eroica di cui lui stesso diviene parte attiva. Personaggio sarcastico, ma piuttosto freddo, ha le caratteristiche tipiche per esser esaltate da un attore come Marvin, solitamente alle prese con personaggi antagonisti soprattutto in western e film di azione.
I migliori del gruppo sono però Telly Savalas, perfetto nei panni dell'individuo affetto da deliri religiosi (è il personaggio più pericoloso del gruppo), del resto aveva già avuto un ruolo da sadico in L'Uomo di Alcatraz (1963) che gli era valso la nomination all'oscar e che va a ricalcare nella scena in cui uccide con un pugnale una tedesca gridandole più volte a denti stretti: "sgualdrina... sgualdrinna... sei una sgualdriiiiina"; e Donald Sutherland, quest'ultimo alle prime armi con un personaggio che da l'impressione di essere un ritardato mentale, ma che cambia atteggiamento appena gli viene richiesto (eccezionale la prova quando scimmiotta i comportamenti di un generale intransigente, ma al contempo burlonesco). A ricevere maggiori consensi di critica è però John Cassavetes, prossimo a esser ingaggiato da Polanski per l'horror satanico Rosemary's Baby (1968), unico, tra quelli del film, a esser indicato quale potenziale migliore attore non protagonista nella rosa dei candidati al premio oscar. Il suo è un ruolo da pacione, meno violento degli altri e forse anche meno sopra le righe rispetto a esempio ai due citati. L'unico a sopravvivere sarà però Charles Bronson, un blocco di marmo come al solito,da quasi l'impressione di essere un terminator quando vaga per il castello francese parlando in tedesco e tranquillizzando Marvin che invece fa smorfie e annuisce non capendo niente di quello che gli dicono gli interlocutori ("Fai una cosa... le porto io le borse, tu vai avanti" dice al suo uomo, prendendogli di mano le valige che sta portando nella camera destinata agli ospiti della festa).
Non manca il "man in black" di turno, giusto per sottolineare il superamento degli atteggiamenti razziali, rappresentato dal colosso Jim Brown, atleta definito "il più grande running back di tutti i tempi del football americano". Brown denota grande mole, ma doti recitative non eccelse, all'epoca era peraltro in lite col suo presidente che non accettava di buon grado le uscite cinematografiche del suo dipendente.
Buona prova per Robert Ryan, è lui il colonnello legato ai formalismi e  con la puzza sotto il naso, quello che qualcuno (per render l'idea) chiamerebbe "cravattaro". Ryan era un altro attore abituato ai ruoli da antipatico e da antagonista, ex pugile, pure lui con alle spalle nomination all'oscar (grazie al ruolo di killer in Odio Implacabile del 1947). Ernest Borgnine ha invece un ruolo più marginale, si nota quindi poco pur lasciando impressa l'idea di colui che ha capito tutto e si gode lo spettacolo in disparte nonostante la sua posizione suprema. Arriva invece dai serial televisivi Al Mancini, dove poi tornerà, ma soprattutto da The Dirty Game - La Guerra Segreta (1965) di Christian-Jaque dove era presente, questa volta col grado di Generale, lo stesso Robert Ryan.


All'epoca il film ebbe un grande successo soprattutto per la cura nella messa in scena e per l'apporto del cast tecnico. Ottenne svariate nomination agli oscar per miglior sonoro, miglior effetti sonori (riceverà l'oscar) e miglior montaggio. Fotografia e colonna sonora, pur essendo apprezzabili, non ricevettero particolare attenzione.
Si tratta quindi di un war-movie, anche se io lo definirei più un action movie essendo i combattimenti limitati all'assalto di un castello con il solo impiego di fanteria paracadutata, che fa leva sul political incorrect e sull'apporto recitativo degli attori, oltre una ventina di minuti finali all'insegna dello spettacolo visivo.
Come abbiamo detto il film avrà la forza di tracciare le coordinate di un sottogenere, particolarmente seguito in Italia dove all'epoca furoreggiava il c.d. Macaroni Combat, e di stimolare negli anni '80 svariati sequel tutti di livello assai inferiore a questo e che vedranno coinvolto persino un personaggio come il pugile Ray "Boom Boom" Mancini che farà la sua comparsa in Quella Sporca Dozzina: Missione nei Balcani (1988) di Lee H. Katzin, quarto e ultimo episodio della saga.
Mi preme anche evidenziare come un copione che potrebbe sembrare fumettistico e di difficile attuazione come quello qui oggetto di esame abbia avuto dimostrazione pratica anche nel concreto e con risultati leggendari, anche se al cinema i profili dei soggetti sono estremizzati e sconfinano in profili criminali a tutti gli effetti. Cito al riguardo alcune righe da un volume senza indicarne ne autore ne titolo (perché lascio al lettore l'eventuale curiosità che possa spingerlo alla ricerca), è solo per fare un parallelo per dimostrare come, spesso, l'intelligenza, le motivazioni e la bravura di un "addestratore-leader" riescono a sviluppare doti e caratteristiche da soggetti scartati dagli altri e considerati "carne da macello", ma che invece dimostrano potenzialità inespresse su cui investire e su cui lavorare... "Eravamo dodici... quelli puniti, la gente umiliata, quelli che non fanno regali agli ufficiali, quelli che non sono carini, quelli che hanno il loro carattere e sono grandi guerrieri che per le circostanze della vita vengono considerati ribelli. Gente difficile da trattare, ma che in fondo è buona di cuore (quelli del film insomma, ma è un film, n.d.r.), quelli con i quali nessuno parla mai, ma che tutti vorrebbero avere vicino nel momento del bisogno. Questo era il mio gruppo."
E questo è anche lo spirito di fondo a cui si è ispirato Tarantino nel delineare i suoi "Bastardi senza Gloria", nella fattispecie ancora più polital incorrect di quelli di Aldrich, un'espressione in cui il termine "bastardo" acquisisce un'accezione positiva e sta a significare colui che rigetta ipocrisie, schemi di facciata, formalismi bigotti e persegue un obiettivo senza fare calcoli economici, senza fare ragionamenti circa le possibilità di far carriera. Sempre riprendendo il libro citato, chiudo con una frase che ben si adatta ai dodici soldati del film e non solo a loro, ma a tutti coloro che hanno avuto la sventura di combattere una guerra, situazione estrema dove non ci si può nascondere dietro ipocrisie o giri di parole perché si viene abbattuti senza appello: "Provate a vivere con la consapevolezza di una condanna a morte e vi accorgerete che in quello che dite e fate non vi può essere protagonismo o polemica, ma solo voglia di vincere per tornare a vivere la vita come tutti gli altri..."


ROBERT ALDRICH indossa la cravatta in modo atipico e irriverente.

domenica 12 luglio 2015

Recensione Saggi: I CENTO LIBRI di Piero Dorfles




Autore: Piero Dorfles.
Sottotitolo: Che rendono più ricca la nostra vita.
Genere: Saggio di critica narrativa.
Anno: 2014
Editore: Garzanti.
Pagine: 300
Prezzo: 14,90 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Bella iniziativa del giornalista RAI Piero Dorfles, conduttore della trasmissione Per un Pugno di Libri, il quale confeziona un'agile e piacevole guida alla letteratura che possa fungere da orientamento nella scelta dei libri da leggere, ma anche da confronto e da spunto di riflessione circa le diverse chiavi di lettura che caratterizzano un romanzo.

Triestino classe 1946, nipote del critico d'arte Gillo Dorfles, Dorfles realizza un volume che ha lo scopo di radunare e di presentare i cento libri che, ad avviso dell'autore, sono entrati a far parte dell'immaginario letterario collettivo. Romanzi cioè che uniscono all'importanza sotto il profilo storico e culturale una certa diffusione nella cultura personale di massa. "Sono quei libri che, al di là del loro valore letterario, potete sentir citare in un discorso, in un saggio, in una chiacchiera da bar, in un articolo, e che possono esser necessari per capire di cosa si sta parlando" così commenta la propria selezione. Abbiamo così l'omissione di quelle opere classiche la cui lettura viene imposta a scuola, come I Promessi Sposi, La Divina Commedia, le tragedie greche piuttosto quelle di Virgilio, ma anche il Don Chisciotte o l'Ivanhoe, per non parlare dei vari Verga e altri scrittori proposti alle superiori; testi di valore assoluto, pilastri della letteratura mondiale, ma anche complessi, a volte persino per i professori, e legati a certe logiche costruttive che finiscono per l'allontanare buona parte dei ragazzi dalla lettura anziché invogliarli nel proseguimento di questa passione. Risultato quest'ultimo non addebitabile agli scrittori in questione, sia chiaro, ma a chi propone certe letture a un pubblico acerbo, su cui invece si dovrebbe insinuare e lasciar maturare il seme della passione che solo le opere più briose, divertenti e votate all'intrattenimento possono garantire in modo da far scattare quel principio che sta alla base del circolo vizioso (in questo caso virtuoso) che governa tutte le forme di dipendenza. Curiosamente sfuggono da queste esclusioni William Shakespeare, rappresentato da più di un romanzo, e autori più attenti alle capacità di intrattenimento come Pirandello o Sciascia. Dorfles si orienta in direzione della letteratura del 1800 e del 1900, dando spazio a romanzi che un professore di vecchio stampo tenderebbe a non far leggere ai propri studenti. Così abbiamo proposti accanto ai classici di autori come Shakespeare, Pirandello, Primo Levi, Dostoevskij i maestri della narrativa fantastica, della fantascienza e  persino dell'horror degli inizi.
In altri termini, l'autore si sforza in un lodevole proselitismo letterario e lo fa assai bene, citando le parole di Umberto Eco: "Chi non legge vive un'epoca sola, mentre chi legge può vivere infinite epoche diverse". Quindi la lettura come evasione, oltre che come istruzione, un allontanarsi temporaneamente dalla realtà per vivere emozioni illusorie ben più forti di quelle che può offrire il cinema, poiché alla visione di un film lo spettatore è un essere passivo, mentre dietro a un libro, scrigno che custodisce quel bene prezioso offerto dalle combinazioni delle lettere dell'alfabeto, è un fruitore attivo che immagina, dipinge sequenze mentali e talvolta personalizza andando a completare quelle caratteristiche che uno scrittore si è solo limitato a tratteggiare. Sta anche in questo la magia della scrittura e della lettura. Ma la letteratura è anche occasione di riflessione, di denuncia, un allontanarsi dalla realtà per poi penetrarvi con la speranza di esser portatori di un nuovo carico di valori o quanto meno di riuscire a scuotere le coscienze per ristabilire i valori sopraffatti dal consumismo o dall'innegabile richiamo delle tentazioni materialistiche. Giustamente Dorfles scrive che con l'andare degli anni cioè che era considerato un prodotto di intrattenimento è in realtà uno dei più raffinati strumenti per avere consapevolezza della complessità del mondo in cui viviamo. Pertanto la letteratura come allegoria o come metafora apparentemente lontana dalla realtà, ma legata a questa da similitudini innegabili e forse più concrete di ciò che si pensa essere reale, proprio perché filtrato da quel velo di ipocrisia di cui l'uomo moderno piace contornare le proprie gesta e le proprie scelte.

Ne deriva un volume che scorre via velocemente, diviso in mini capitoli che fungono da raggruppamento dei vari romanzi proposti. Il linguaggio è semplice, di facile lettura, rivolto a un pubblico di qualunque specie. Dorfles presenta ciascun romanzo parlando della trama e offrendo la propria valutazione del testo, individuando chiavi di lettura e significati metaforici, con tanto di citazioni e di frasi estrapolate dal testo di riferimento.
Ne deriva un'opera che è perfetta per esser regalata a dei giovani ragazzi, per permettere loro di avere un orientamento che possa avvicinarli in modo divertente alla lettura e che possa permettere loro di acquistare i volumi più indicati ai loro gusti. Dorfles presenta autori come P.K.Dick, Orwell, Verne Poe, Stevenson, Stoker, Mary Shelley, Collodi, Swift insomma ce n'è davvero per tutti i gusti.
Si tratta inoltre di un libro utile anche agli adulti, specie coloro che amano la letteratura e che sono sempre in cerca di quello scambio di opinioni e di diversi approcci interpretativi di un testo, discussioni che al bar, come invece immagina Dorfles, sono assai rare da poter intavolare tra una spuma e un tramezzino.

Chiudo con un'ottima frase di Dorfles, forse un po' troppo romantica e ottimista nell'estendere il concetto a tutti coloro che leggono, che va riequilibrata con una massima di Jorge Borges che sosteneva che un buon lettore è raro tanto quanto un buon scrittore: I libri bisogna viverli, rileggerli, sentirli propri, personalizzarli. Farli diventare una parte di noi come noi diventiamo una parte di quello che hanno dentro."



sabato 4 luglio 2015

Recensione Saggi: EROI AL VOLANTE - TRENTA STORIE OLTRE LA LEGGENDA di Michael John Lazzari.




Autore: Michael John Lazzari.
Genere: Saggio Sportivo.
Anno: 2013.
Edizioni: Ultra Sport.
Pagine: 190.
Prezzo: 16,50.

ARTICOLO DI MATTEO MANCINI.
Aneddoti sull'acquisto.
Recensire Eroi al Volante ha un gusto particolare per il sottoscritto. Ricordo che appena giunsi a casa, dopo averlo preso, mi misi subito seduto in terrazzo a sfogliarlo rimanendo molto colpito dall'introduzione dell'autore; penso di poter dire la cosa più bella del testo, non perché quello che segue non sia interessante, ma perché da essa traspira la passione e la volontà di tributare dei personaggi che hanno regalato emozioni e a cui ciascun sportivo, amante del settore, ha legato un ricordo più o meno personale, magari relativo alla propria vita privata. Poco importa poi se si è al cospetto di campioni che hanno macinato vittorie su vittorie o di chi non abbia mai conseguito un punto mondiale, non è questo a valere. Il fine dello sport non deve essere la vittoria (che è comunque il risultato cui tendere) bensì lo spettacolo, la funzione di metaforizzare la vita e di regalare sensazioni indelebili a chi assiepa le tribune e anche a chi pratica certe attività. Io, a esempio, ricordo perfettamente cosa feci e dove mi trovavo quando morirono Roland Ratzenberger e Ayrton Senna, ma anche quando Mika Hakkinen, per il quale facevo il tifo fin dal debutto in Formula 1 (ricordo che in una delle sue prime gare, trasmesse in Italia in prima mattina, quando correva con la Lotus, mio padre mi disse, visto che io non mi ero alzato: il tuo pilota si è ritirato e quando è sceso dalla macchina aveva la mano del cambio sanguinante), vinse la sua prima corsa in F1 (mio padre, tifosissimo Ferrari visse un giorno da incubo e mi tirò dietro persino una ciabatta dandomi del vergognoso in quanto da italiano non facevo il tifo per gli italiani, cosa peraltro non vera essendo stato Ivan Capelli, che io chiamavo Cappelli, il primo pilota per cui ho fatto il tifo: leggendario quel secondo posto con la Leyton-House rimasta quasi senza benzina lo ricordo ancora... Ivan con le due braccia alzate al cielo), per non parlare di quando ebbe quel tremendo incidente in Australia con gli occhi, che affioravano dalla visiera spaccata, persi nel vuoto (credo di possedere ancora alcune pagine della Gazzetta dello Sport di quel giorno).

Un libro assimilabile a questo era poi nei miei programmi di scrittura da svariati anni, come ho avuto modo di scrivere anche su queste pagine, ma che poi non ho mai fatto limitandomi a scrivere qualche articolo (il migliore, forse, proprio su quel tragico week-end di Imola del 1994). E' stato quindi un immenso piacere quando l'ho visto esposto nella sezione sport della libreria della Feltrinelli di Pisa, dove stavo cercando, avendo la postepay fuori gioco, Anarchico e Testabalorda di Nicola Roggero. Avevo infatti appena terminato di leggere L'importante è Perdere, proprio di Roggero e ne ero rimasto molto impressionato, al punto da cercare un suo nuovo libro. Inoltre si trattava di un giorno particolare ovvero del giorno mondiale dedicato alla FESTA DEL LIBRO (24 aprile) e io, che in un anno compro anche qualcosa come una trentina di volumi, non potevo e non volevo mancare all'appuntamento. Perché? Perché come direbbe il buon Ringo, di matrice Gemma e non il clone De Martino, è una questione di principio.  Comprai quel dì, per un totale di 55,05 euro (quasi a voler emulare un leggendario film comico di ambientazione sportiva, ma senza il De del regista sopra ricordato) altri due volumi a tema ovvero Portieri Figli di Puttana di Fausto Bagattini (stessa casa editrice del volume qui in esame) e il più costoso Il Tempo dello Sport di Maria Aiello, trasformando così il giorno della festa del libro nel giorno della festa dello sport raccontato su carta stampata.

i TRE acquisti del 24 aprile con relativo scontrino fiscale.

L'Autore.
Autore del volume è un giornalista italiano di origini inglesi ovvero MICHAEL JOHN LAZZARI scomparso, questo lo scopro ora, circa un mese prima del mio acquisto sebbene fosse ancora molto giovane. Bolognese del 1970, ironia della sorte di SAN LAZZARO, Lazzari era conosciuto per la passione a 360' per lo sport, sia da osservatore che da praticante, ma anche per la musica della sua adolescenza, qualcuno di basketcity.net, dove Lazzari credo collaborasse, intona ancora un ritornello che fa "mare forza nove, fuggire si ma dove..." Voce di Radio International Bologna dove conduceva vari programmiamava in particolare commentare le partite del calcio inglese ma anche i tornei di Wimbledon (tennis). Si dice persino che avesse una "fede cieca in Verstappen" (credo che il riferimento vada a Jos, il sottoscritto ce l'aveva invece in Gachot quindi lo capisco bene) e un debole per El Maestro. Molto colorito nel parlare, aveva espressioni e neologismi che per i colleghi sono diventati dei modi di dire decodificati da utilizzare quasi in una sorta di omaggio di stampo cinematografico. Un suo vezzo particolare, un po' come il tennista Ivanisevic in una famosa partita (mi pare proprio a Wimbledon) prese a fare con il commissario di campo scimmiottando John McEnroe, era quello di riprendere coloro che gli storpiavano la pronuncia del nome. Odiava farsi chiamare Michele e penso persino con quel Michail con cui veniva storpiato, da alcuni, il nome di Schumacher (uno che ha avuto a che fare sia con Verstappen che con Gachot, i due citati assai poco convenzionali quando le persone comuni pensano ai campionissimi). La pronuncia correct (come disse Hakkinen a Schumacher dopo il pazzesco sorpasso a tre a Spa) era Maicol, un po' come quel soggetto scuola Gavardina, figlio di Capo Nord, che da perfetto brocco si trasformò in un notevole saltatore al punto da essere schierato, quasi con i galloni del favorito, nel Corona di Milano.
Questo, più o meno, il ricordo di questo sfortunato giornalista che ha salutato la compagnia a soli 45 anni, lasciando di sé però un ricordo piuttosto marcato oltre che una figlia che potrà comunque sentir parlare un gran bene del padre. Ricordo che sarà vivo non solo in chi lo ha conosciuto di persona, ma anche in chi possiede i suoi articoli, i suoi video o i suoi libri. Prima di Eroi al Volante si era già confrontato (dopo una sorta di almanacco evoluto in un'antologia di ricordi, scritta a più mani, legata al Bologna Calcio) con l'automobilismo con il volume ATS la Scuderia Bolognese che Sfidò Ferrari (2012, Maglio Editore), in cui parlava della girandola di licenziamenti che videro protagonista la scuderia Ferrari, proseguendo poi con Teodoro Zeccoli. Cuore Alfa, biografia di un asso italiano che ha battuto fior fiori di piloti e ha resistito alle lusinghe di Enzo Ferrari, per concludere con un interessante volume (che credo comprerò) dedicato alla figura della donna nell'automobilismo e intitolato Donne da Corsa. In F1, Rally, Prototipi, Indycar e Nascar, una sorta di scuderia in rosa. Dunque il ricordo è e sarà sempre vivo, perché se c'è una cosa che possa rendere magica la "letteratura", sia essa creativa o sia essa saggistica, piuttosto che il cinema, o l'arte in genere, è la possibilità per coloro che ne entrano a far parte (sia passivamente, sia attivamente) di sfuggire alla morte, un po' come disse un certo James Dean, uno che quando si parlava di Eroi al Volante non si tirava mai indietro e che se ne andava in giro con un Porsche con scritto sul retrotreno Little Bastard.

Michael J. Lazzari consegna la coppa al pilota Biagi, quello col berretto.

La Recensione di EROI AL VOLANTE
Il volume di Lazzari è dedicato alla Formula Uno, ma più specificatamente a chi in pista ha dato il cuore meritandosi il riscatto della propria anima, a volte minacciato dalle tentazioni infernali di logiche e massime più commerciali che altro, grazie a a gesta che hanno emozionato spettatori disseminati nei più reconditi angoli del mondo. Lazzari non realizza un volume dedicato ai più vincenti, bensì si concentra su chi ha dato tutto sé stesso finendo, in quasi tutte le circostanze, col salutare i suoi tifosi proprio sulla pista, come un soldato che cade sul campo di battaglia dopo aver condotto una battaglia da altri tempi. Ci sono comunque delle deroghe tra i trenta soggetti scelti dall'autore, c'è chi come Graham Hill, Carlos Pace o David Purley sono venuti a mancare in altre circostanze (tutti caduti con l'aereo) o chi, come Michael Hawthorn (inglese d'oc e dunque attenzione alla pronuncia del nome, come vi direbbe Lazzari), si era ritirato quasi a voler sfuggire da quel destino che, molto spesso, come dice Hill (Terence), lo si incontra proprio sulla strada presa per evitarlo.

L'introduzione dell'autore, specie se si considera che si sta parlando di una persona con cui non è più possibile parlare, è commovente e mi ha trovato in perfetta sintonia. Ho trovato inoltre molto divertenti i ricordi personali, che in libri del genere potrebbero sembrare irrilevanti (secondo qualcuno) ma che invece sono quelli che fanno fare il salto di qualità a un libro, perché proiettano il lettore nel mondo dell'autore. Così Lazzari ricorda sé stesso quando da bimbo tracciava nel cortile le curve dei vari circuiti per lanciarci le riproduzioni delle monoposto del mondiale ricreate dalla Polistil, ricordo che ha la potenza magica di innescarli a centinaia tra tutti i lettori che stanno leggendo e che si immedesimeranno nella situazione ricordando a loro volta sé stessi da bimbi. Riporto le parole tratteggiate dalla penna dell'autore perché sono esemplificative, a mio avviso, della vera natura dello sport: "E' stato come fare una sorta di piacevole tuffo nel passato e, in un certo senso, il libro è il mio personale modo di ringraziare tutti i protagonisti della F1 di allora, una competizione molto più romantica di quella odierna capace di suscitare forti emozioni... Eroi al volante rappresenta una chiusura del cerchio rispetto a tutto ciò che ci hanno donato, senza chiedere nulla in cambio; d'accordo, era il loro mestiere, erano pagati per questo e la loro ambizione era di vincere, ma i sentimenti che hanno suscitato in noi non hanno avuto prezzo, sono impagabili.

Per un tragico gioco del destino, a mio avviso, l'unica parte dell'introduzione che è stata forzata (perché nel testo ci sono piloti che hanno mostrato in pieno tutto il loro talento ottenendo quanto avevano seminato, penso ai vari Senna, Alboreto, Graham Hill, Jim Clark) si adatta invece alla perfezione al suo autore e anche a un pilota di cui, fino a qualche tempo fa, in Italia vedevo poco ricordato il nome e che scomparve a Spa in un duello con il più blasonato, su carta, compagno di team. Non dico quale sia questa parte, perché la lascio scoprire a chi comprerà il volume.

Lazzari, pur proponendo le storie dei trenta prescelti con taglio più giornalistico che narrativo (a differenza invece di Roggero che protende più sul secondo) presentandole in rigoroso ordine alfabetico, impreziosisce i dati relativi alla carriera in pista (gli aneddoti extra corse sono risicati), talvolta freddi e asettici, con frasi e massime dei vari piloti che smorzano un po' la struttura da saggio più legato alla concretezza delle cifre piuttosto che alla filosofia e ai vezzi dei vari driver. Ragioni di spazio, chiaramente, limitano la portata delle informazioni che, in linea di massima, vengono contenute dalle cinque alle sette pagine per pilota.

L'importanza del testo ricade sopratutto sull'aver riportato a "galla" personaggi che non dovrebbero mai trovarsi sui fondali della memoria e su cui, per assurdi modi di pensare riconducibili a ragionamenti legati al mondo del marketing e della moda (si tende sempre a vedere, ascoltare o leggere contemporanei, perché si crede superato tutto ciò che sta dietro non capendo che questo è un modo di fare indotto da chi commercializza). Il volume è importante soprattutto per i tifosi e gli appassionati della nuova generazione, perché va a gettare luce, peraltro in modo certosino con descrizione e sintesi di corse disputate dai futuri campioni della F1 in categorie inferiori (gare in salita comprese), su eventi e personaggi ormai confinati indietro negli anni. Se non ci fossero libri come questo cadrebbe un velo talmente spesso da trasformare personaggi meritevoli di ricordo in dei perfetti fantasmi scopribili solo da esperti cacciatori di spettri o da addetti del settore. E questo sarebbe del tutto intollerabile, esistendo le figure di appassionati in primis, giornalisti in secundis e scrittori infine, a coronamento di una triade che ha il piacere, l'onore (da leggersi a piacimento spostando l'accento un po' in qua e un po' in là) e il dovere morale di perpetrare certe gesta consegnandole così alla storia di un dato settore in modo da realizzare qualcosa che possa servire sia da ricettore capace di raccogliere emozioni e di diffonderle in circolo, sia di ricostruire epoche non più conosciute o comunque sbiadite nella memoria in modo da salvare quel complesso di informazioni che determinano ciò che, certi critici che si riempiono la bocca di parolone ed di latinismi (non ricevendo mai una bella cassata di pomodori), si definisce con una sola parola: "cultura".

A dimostrazione della perfetta atipicità di questa recensione, oggi che la Mercedes ha conquistato le prime quattro postazioni nella griglia di partenza del Gran Premio di Inghilterra, a Silverstone (che un tempo si correva nella settimana del mio compleanno e che, se non ricordo male, è un tracciato derivato da una vecchia base militare), proprio davanti alle Ferrari, voglio omaggiare l'evento con un ricordo pazzesco, di cui non ero a conoscenza, e che ho compreso proprio leggendo Lazzari. Non vi dirò chi è il soggetto in questione e ometterò anche le date. Così M.J.L. "Il suo talento appare lampante anche con le normali berline. Il xxx se ne ha un esempio lampante: per inaugurare il rinnovato Nurburgring, viene indetta la COPPA MERCEDES-BENZ, una sorta di RACE OF CHAMPIONS, a bordo del nuovo modello 190. Gli organizzatori invitano i quattordici campioni del mondo viventi,e  soltanto in cinque declinano l'invito: Fittipaldi e Andretti impegnati nelle qualificazioni delle 500 Miglia di Indianapolis, Stewart che tiene fede alla promessa di non correre più dalla morte di Cevert, Fangio che a 72 anni ha problemi di salute e Piquet... X (non Jackie, ma omissis) non ha il pedigree  per partecipare, visto che ha disputato appena TRE gran premi, ma riesce a convincere gli organizzatori che può essere impegnato come sostituto al posto di Fittipaldi (manco fosse James Hunt alla McLaren, nota del recensore). La trattativa giunge a buon fine. X a bordo della vettura numero 11 (toh, lo stesso numero di Hunt, pensate un po', nota del recensore) è subito secondo in prova alle spalle del PROFESSORE: sul circuito bagnato, il francese parte meglio, ma viene superato al termine del primo giro da X, che lo oltrepassa con un contatto di forza. Una volta rientrato in pista, il Professore impatta con l'italiano per il quale Colin Chapman fece volare per l'ultima volta il berretto ed entrambi finiscono nelle posizioni di retrovia. X conduce da par suo la gara, vuole battere tutti i migliori e interpreta la gara in maniera professionale: LA VINCE, TRA LO STUPORE DEI COLLEGHI, ALCUNI DEI QUALI LO SENTONO NOMINARE PER LA PRIMA VOLTA (alle sue spalle, sul secondo gradino, finisce chi ha detto una frase oggi ricordata a Vettel da un giornalista RAI ovvero "Un pilota per vincere deve essere un egocentrico bastardo")... A fine gara, viene comunicato che la vettura vincitrice finirà al Museo di Stoccarda. Sulle prime, i vertici Mercedes non sono entusiasti che abbia vinto uno sconosciuto, poi col passare degli anni si ricrederanno riguardo al valore del pilota (e saranno parecchio, ma parecchio parecchio, contenti dell'esito di quella gara.). Nick Mason, componente di uno dei gruppo musicali che hanno fatto la storia del rock mondiale (non certo i Prozac+, col dovuto rispetto), sentito dai giornalisti RAI che ne hanno trasmesso oggi l'intervista dopo le qualifiche, parafrasando la sua ottima considerazione relativa a certi assi del volante - ovvero "Il coraggio che aveva quella gente, o forse dovrei dire la follia, non ha eguali... riferendosi poi dopo a un pilota tedesco domani in pista. Sarebbe il colmo se fossi io a dare i consigli a Bernie Ecclestone" (uno che faceva sempre correre un pilota italiano nelle sue macchine, nota del recensore) - avrebbe detto (sarebbe il colmo se lo dicesse davvero): Bello (o) F-olle?

Anche se non si inizia mai un periodo con un gerundio, tornando a Lazzari credo di poter dire che quanto da lui sperato sia stato centrato in pieno. "Mi piacerebbe che il libro riuscisse, anche solo in minima parte, a trasmettere le emozioni che i trenta eroi al volante hanno suscitato nel sottoscritto: i lettori della mia generazione magari si ritroveranno una sorta di chiave magica per aprire il libro dei ricordi, i più giovani invece avranno modo di conoscere piloti sicuramente più carismatici e temerari rispetto a quelli della stagione 2013. Eroi al volante è un libro sulla memoria, sul modo per ricordare e tenere vivo nel nostro cuore chi ha portato, anche solo per un istante, una ventata di felicità nella nostra vita." Che altro dire? Credo proprio che l'autore sia riuscito nel suo intento e comprate il volume, se siete fan della formula uno. Non eccellentissimo, ma buono e costruito su eccellenti basi.




"Credo ci sia una forma di grandezza per l'uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte. Voglio dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello era un gran uomo. Per me l'unico successo, l'unica grandezza, è l'immortalità" (James Dean.)