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venerdì 22 novembre 2024

Recensione Narrativa: GATTI DALL'ALTROVE a cura di Marina Alberghini e Luca Ortino.

Autore: AA.VV. a cura di Marina Alberghini e Luca Ortino.
Anno: 2022.
Genere: Fantastico.
Collana: Felinamente.
Editore: Mursia.
Pagine: 230.
Prezzo: 17.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

INTRODUZIONE

Un curioso binomio, tutto targato Firenze, si installa in cabina di regia per un'antologia orientata al fantastico e interamente dedicata al gatto, con sfumature horror, fiabesche e fantascientifiche. Ci pensano Marina Alberghini e Luca Ortino a predisporla, sebbene faticando a trovare una quadra tale da omogenizzare il prodotto. La destinazione finale non può che essere la casa editrice Mursia, dove la Alberghini ha pubblicato oltre undici volumi e che è tanto interessata all'argomento da avere in catalogo una collana, Felinamente, tutta dedicata ai gatti e avviata verso le cento pubblicazioni. Gatti dall'Altrove si inserisce in questo contesto e si avvale della collaborazione del saggista (notevoli apporti alle guide Odoya) e antologista Luca Ortino (già Premio Italia come curatore). Ortino coinvolge calibri pesanti del genere fantascientifico (pluripremiati al Premio Italia) quali Donato Altomare, Gianfranco De Turris, Antonio Bellomi, Adalberto Cersosimo, Max Gobbo, Alessandro Fambrini e Franco Piccinini. Il meglio dell'antologia passa sulle coordinate di Luca Ortino, probabilmente, con un'unica eccezione costituita da Annalisa Gimmi, scrittrice da me non conosciuta (arriva dal mondo animale ed è sicuramente stata ingaggiata dalla Alberghini) ma qua tanto abile (anche per stile) da realizzare il miglior racconto dell'antologia.

Ventidue racconti, postfazione del Maestro Gianfranco De Turris e articolo di chiusura a firma di Pier Luigi Gallucci in cui viene affrontato il tema (triste) della morte di un gatto di famiglia e dei processi di elaborazione del lutto.


ANALISI GENERALE

Un progetto che, sulla carta, avrebbe le stigmate del volume imperdibile, specie per gli amanti dei felini, se non soffrisse – a mio modesto modo di vedere – la presenza di due curatori – evidentemente – lontani tra loro nell'approccio filosofico attraverso il quale personalizzare l'opera.

Manca un vero collante (a parte i gatti, in verità non sempre protagonisti) che unisca le storie, molte delle quali non sono neppure dei racconti, ma un qualcosa sospeso tra lo spunto memorialistico e la metafora tesa a lodare le caratteristiche “occulte” del gatto.

Non tutti i racconti sono inediti. Manca, tra l'altro, l'indicazione dei testi da cui i racconti sono stati estrapolati e il loro anno di uscita. A esempio il racconto di Bellomi arriva dall'antologia Con lo Sguardo Rivolto alle Stelle (Elara, 2005), mentre quello di Cersosimo dall'antologia Quando gli Alieni Invasero la Terra (Editrice Nord, 1996). Difficile sapere degli altri, se non si sono letti i volumi interessati.

A fianco di nomi noti, compaiono molti scrittori all'apparenza semisconosciuti. Le biografie in calce dimostrano tuttavia il contrario, evidenziando una provenienza diversa e non legata al contesto culturale del fantastico italico. La differenza tra i due gruppi di scrittori è evidente da tutti i punti di vista, a partire dall'impostazione delle storie e da come queste vengono sviluppate e condotte ai loro epiloghi.

Sia chiaro, nella lettura di molti testi “secondari” (secondo questo recensore) ho trovato tanti degli spunti comuni che mi hanno guidato a scrivere, dopo la morte del mio micione, il volume Il Mio Amico Micromachine (lulu.com, 2021). L'idea del paradiso dei gatti (Mascia e Israel), il ruolo ispiratore del gatto nell'alimentare e promuovere il senso artistico del padrone (Gobbo, il cui racconto non è secondario), l'amico randagio che ogni giorno si va a incontrare e lascia qualcosa di magico all'amico umano (Alberghini) e il mix tra fantasia e realtà biografica che contraddistingue tanti testi (Canozzi, Grilli, Pansera e Campa). Tuttavia, sono troppo pochi i racconti veramente strutturati. Tanti, in altri termini, sembrano puri esercizi di stile (Blanc), non a caso privi di dialoghi (Santoni e Nuzzo) e giocati di tecnica o sbilanciati sul versante poetico. Predomina la malinconia, sebbene faccia talvolta capolino un'ironia scatenata e dissacrante (i parodistici Miglieruolo e Mortillaro).

Nonostante questo, da cultore dei racconti sui gatti, ho apprezzato il libro, pur con i suoi cali continui di livello. Ecco allora la mia analisi dedicata, brevemente, a ciascun racconto.


Il mio volume su un Gatto dall'Altrove

ANALISI PARTICOLARE

La caratteristica dominante del progetto è la sua spiccata inclinazione verso la fantascienza. Una soluzione senz'altro interessante e in controtendenza rispetto alle tante antologie gialle o horror incentrate sui gatti, si pensi alla longeva serie Cat Crimes curata da Martin H. Greenberg e solo in piccolissima parte giunta in Italia (Gatti del Mistero, 2001, Newton & Compton) o a volumi quali l'antologia di autori vari Artigli e Fusa (1993, Salani) o Artigli (1979, Siad) di William Lauder.

Alberghini e Ortino scommettono invece sulla fantascienza, ma lo fanno a metà servizio. Infatti, solo una parte dell'opera è dedicata alla sci-fi, qualche storia guarda all'horror o comunque al fantastico mentre la restante appare fuori contesto e non si lega troppo al concetto di “gatto dall'altrove”. I racconti fantascientifici sono dieci, sei sono quelli horror o comunque fantastici e altrettanti sono quelli che non hanno a che fare con la narrativa di genere. Si nota quindi una compenetrazione di generi diversi che sembra testimoniare la paura di spingersi troppo verso un prodotto di nicchia (per una casa editrice come Mursia) con la conseguente necessità di rendere più accessibile il lotto di racconti, diluendo la fantascienza (in alcuni casi anche “hard”, nel senso di tecnologica) e il fantastico con storie (talvolta poco narrative) terrestri incentrate sull'amore per il gatto e sul suo ruolo consolatorio nelle tristezze che bersagliano la vita comune.

Dei ventidue racconti solo una dozzina hanno colpito favorevolmente questo recensore. Tra tutti, e a sorpresa, brilla La Fiera a la Gaetta Pelle di Annalisa Gimmi, autrice peraltro che si svincola dalla fantascienza e che non conoscevo affatto. Testo estremamente elegante, sorretto da uno stile narrativo e un lessico nettamente superiore a quello dei colleghi. La Gimmi opta per un inusuale racconto storico, calato nella Fiorenza (Firenze) medievale, tra il 1286 e il 1300, che ben avrebbe fatto la sua figura in un'antologia degli scapigliati. Il fantastico è soffuso, velatamente ghost story (ma la valutazione è rimessa al lettore), e propone un'operazione di salvataggio di due gattini finiti in una scarpata lambita dall'Arno. La narrazione, incalzante e coinvolgente, acquista valenza metaforica, quasi magica e speranzosa verso una vita sospesa nell'altrove, tra realtà e aldilà. Un gioiello.

Per il resto è la categoria fantascientifica a farla da padrona, tanto da proporre quasi l'intera totalità degli altri undici racconti cui ho fatto cenno. Il migliore, per la sua capacità di innovare sul versante del soggetto e avvolgere i lettori con uno stile semplice ma, al tempo stesso, curato e calibrato su un'ottima gestione dei tempi narrativi è: L'Intelligenza è Sopravvalutata. Il racconto porta la firma di una coppia di autori ovvero Stefano Carducci e Alessandro Fambrini. Tra i due rapisce l'attenzione la firma di Fambrini, grande esperto di narrativa fantastica di lingua tedesca, collaboratore, tra gli altri, di Odoya, Elara e Hypnos. A lui si deve lo “sdoganamento”, o comunque la riproposta in Italia, di scrittori quali Karl Hans Strobl o Hanns-Heinz Ewers, per non parlare dell'antologia Der Orchideengarten da lui curata per Hypnos. Dunque un nome cardinale nel fantastico italiano che mette al servizio della narrativa il suo talento. L'Intelligenza è Sopravvalutata è un eccellente racconto sci-fi, che strizza l'occhiolino a The Birds (il celebre Gli Uccelli, 1952, di Daphne du Maurier portato sul grande schermo da Alfred Hitchcock) cambiando la tipologia di animali oggetto dei fatti. Un esperimento scientifico, volto a incrementare le capacità intellettive degli umani, porta a modificare il linguaggio dei gatti e, di conseguenza, la loro intelligenza suscitandone un moto di ribellione. Sulla medesima lunghezza d'onda si muove il curatore Luca Ortino, altra grande firma nell'ambito della saggistica legata allo studio della narrativa fantastica, che, tuttavia, opta per la satira e la metanarrativa. Il suo Theophile Gattiger e Lo Specchio Oscuro dei Desideri è un frullato continuo di citazioni che vanno dallo Sherlock Holmes (con tanto di villain che risponde al nome di Toparty e assistente del protagonista ribattezzato Dogson, così chiamati per storpiare i vari Moriarty e Watson sostituendo alla parte iniziale dei nomi la natura animale con cui gli stessi sono stati ibridati) a The Island of Dr Moreau (“L'Isola del Dr Moreau”, 1896) fino ad Alice's Adventures in Wonderland (“Alice nel Paese delle Meraviglie”, 1865) con battute che rimandano a Shakespeare e con personaggi della vita reale (H.G. Wells e Lewis Carroll) che diventano personaggi alternativi di una storia che si diverte a mischiare il tutto con valenza metaletteraria proponendosi come folle sequel de L'Isola del Dr Moreau. Il tema, come per l'opera di Fambrini, è la contaminazione tra umani e animali nel tentativo di creare una nuova e superiore razza di esseri viventi. L'epilogo, pressoché identico a quello di Fambrini, ristabilirà la superiorità della natura sull'arroganza dell'uomo. Divertente, specie per i lettori più smaliziati, grazie al suo giocare continuamente tra grandi classici e situazioni ai limiti del comico.

Si propone quale sequel di un grande classico della letteratura anche L'Ultimo Viaggio di Gulliver di Lucillo Santoni. Testo pesante, poco narrativo e sprovvisto di quei dialoghi che avrebbero potuto alleggerirne lo sviluppo. Proposto in prima persona, parla dell'ultimo viaggio fantastico che il Gulliver di swiftiana memoria si accinge a compiere, ricordando tutte le fantastiche creature narrate in I Viaggi di Gulliver (1726). Non mi è piaciuto.

Il tema dell'ibridazione torna con Chiara Onniboni e Oscar. Ci spostiamo sull'hard science fiction in un futuro in cui gli umani hanno perso la capacità di procreare al punto da progettare, col supporto degli androidi e dei cervelli elettronici, la realizzazione di una nuova razza dominante che avrà una fisionomia non troppo dissimile a quella di un gatto. Non eccezionale a livello di coinvolgimento, ma comunque sufficientemente inquadrato.

Il dialogo tra creature robotiche intente a divenire dominanti ed esseri viventi si ripropone in Storia di una Gatta d'Astronave di M. Caterina Mortillaro, dove una gatta si trova a dover arginare il tentativo dei cervelloni elettronici di trasformare in creature robotiche tutti gli esseri umani riducendoli a creature ibride (mi ha fatto venire in mente la parte finale di Superman 3). Testo carino per i dialoghi, comunque non tra i migliori sebbene da annoverare nel gruppo delle storie da salvare. Più grezzo Nessuno Dio può Salvarci, Tranne un Gatto di Mauro Antonio Miglieruolo, che mi ha fatto ricordare un racconto di Owl Goingback. Un invasore alieno di dimensioni ciclopiche invade la Terra pronto a farne scempio, se non fosse per un gatto sboccato che, sostituendosi al suo proprietario, lo mette in fuga dopo esser stato interpretato dall'invasore grazie a un traduttore vocale di natura interstellare. Sia il racconto della Mortillaro che quello di Miglieruolo, un po' come quello di Fambrini, giocano sul concetto della comunicazione tra il gatto e le presunte creature superiori (umani, robot o invasori extraterrestri) elevando l'intelligenza felina, apparentemente inferiore, a dominante sulle altre.

Il livello torna a salire con i contributi di quattro grandi maestri della fantascienza italica: Antonio Bellomi, Adalberto Cersosimo, Franco Piccinini e Max Gobbo. Nell'ordine, i quattro sfornano (insieme a quello di Ortino) – a mio modesto modo di vedere – i migliori racconti dell'antologia, subordinati solo a quello della Gimmi e a quello della coppia Carducci-Fambrini.

Dei quattro ho preferito il melanconico Pluto, Il Gatto dei Due Mondi di Antonio Bellomi, peraltro già letto nell'antologia Con lo Sguardo Rivolto alle Stelle. Finto racconto di fantascienza, in cui si immagina (non si spiega come) la caduta sulla Terra di un gattino extraterrestre destinato a crescere e vivere presso la villa di una nobildonna. Metafora della vita di un gatto randagio divenuto, di punto in bianco, domestico. Bellomi propone la vita iniziale in un habitat pieno di pericoli e, al tempo stesso, di giochi e svago (che verrà sempre ricordato con nostalgia dal gatto divenuto adulto) improvvisamente sostituito da una vita più tranquilla nel cortile di una villa, dove il mangiare è sempre presente e dove si deve solo lottare per l'affermazione del ruolo di gatto alpha. Dall'infanzia il gattino cresce, diviene adulto e impara a dominare il territorio, tra amori e progressivo sopraggiungere della vecchiaia e dei suoi acciacchi. Romantico e delicato. Bella la parte finale col passaggio di consegne al nuovo che avanza. Bellomi regala, nella sua semplicità, un grazioso gioiellino.

Il testo di Cersosimo, Ombre sui Tetti, piace per il suo ricostruire un lontano passato (gli anni cinquanta) con tutto il corollario di giochi adolescenziali e ingenuità paesana, tra propensione al credere all'impossibile e passatempo ormai estinti nella società moderna. Anche qua la melanconia è palpabile, ma più defilata. La storia infatti propone, innestata sul tema centrale della vicenda, un'invasione spaziale sul modello Chupacabras, con un alieno che si nutre di gatti e alimenta dicerie e leggende popolari su Ufo, cattle mutilations e creature criptozoologiche.

Un altro extraterrestre che precipita sulla terra è quello al centro dei fatti de Il Periodo Felino di Max Gobbo. Altro racconto molto ben strutturato e caratterizzato, forse il più interessante nel tratteggiare i personaggi coinvolti. Protagonista è un pittore caduto nella depressione dopo la morte della moglie, al punto da trovare ristoro nei fumi dell'alcool e nell'ozio. L'arrivo di un gatto extraterrestre lo indurrà di nuovo a dipingere, in preda a un ipnosi di cui solo alla fine riuscirà a comprenderne la ragione. Bel mix tra realismo e fantascienza. Non un capolavoro, ma un racconto onesto e coinvolgente, dall'ottimo ritmo. Interessante.

Si va invece sulla fantascienza da graphic novel con Missione Compiuta di Franco Piccinini. Qua l'ispirazione sono Venom, simbionte alieno nemesi di Spiderman, e la pellicola Il Tocco del Male di Gregory Hoblit (si veda l'inizio e la fine del film, dove peraltro protagonista è proprio un gatto). Abbiamo infatti una creatura aliena, dalla fisionomia vermiforme, capace di sopravvivere in habitat non propri penetrando nei corpi di altri esseri viventi. L'obiettivo dell'alieno è riconquistare la via dello spazio, ma per farlo ha bisogno dell'aiuto dell'uomo. Troppo didascalico in alcuni passaggi, per la scelta di narrare dalla prospettiva dell'alieno che stende un rapporto a futura memoria per il suo comandante. Diverte e, soprattutto, ha la struttura di un racconto degno della golden age.

Un altro maestro del genere, qua assai meno ispirato, è Donato Altomare che propone un horror metaforico che sembra rinviare alla situazione del gatto costretto a subire le decisione degli umani di vaccinarlo e sottoporlo a interventi chirurgici. Numero 21 infatti è un vero e proprio horror psicotico e allusivo, che cerca di far vivere sulla pelle di un uomo lo shock e lo stress da cattura che vive un felino artigliato da un braccio umano. Un po' confusionario, a mio modesto avviso.

Omaggia Howard P. Lovecraft l'altro curatore (rispetto a Ortino) dell'antologia ovvero Marina Alberghini, firma assai legata al mondo felino. L'Alieno e il Gatto Sognante attinge dal mito per giustificare, da un'ottica felina, il talento visionario di Howard P. Lovecraft. Dietro ai parti stellari dello scrittore di Providence vi sarebbe stato un gatto (idea seguita anche dal racconto di Gobbo per giustificare l'estro artistico). Piace il taglio melanconico che parla di uno scrittore solitario e del suo rapporto di amicizia con un gatto randagio (figure peraltro sovrapponibili). Ogni giorno, l'uomo passa a trovare un randagino che, da par suo, gli conferisce un dono che durerà finché la morte non interverrà a separarli.

Ma la morte è davvero un evento definitivo? Noemi Israel, seguendo la via della fiaba con gatti parlanti e coleotteri psicopompi, immagina la possibilità per un gatto di ritornare dalla sua padrona, fuggendo dall'aldilà felino nel suo Il Viale dei Gatti Perduti. Si assiste a un percorso inverso col più convincente - sebbene meno fantasioso - La Vita Nova di Donatella Mascia, che mi ha ricordato il mio Il Mio Amico Micromachine. Racconto di spiccata impronta animalista con un finale stereotipato che giunge a termine di una costruzione affascinante. Cosa succede dopo la morte? Viaggio nell'indefinito di un uomo che rivive mentalmente i fatti salienti della propria vita, vorticando in un nero impenetrabile finché i suoi tre gatti storici non vengono a introdurlo nell'aldilà.

Tra horror e fantasy si colloca il più elaborato Il Risveglio di Simona Busto, che si muove tra spiriti maligni e benigni in lotta per accaparrarsi i favori di un giovane adolescente che non ha ancora preso cognizione dei suoi poteri da stregone e pertanto non ha ancora scelto per quale fazione schierarsi. La figura del gatto diviene marginale, un veicolo attraverso il quale manifestarsi agli umani.


Questo il meglio dell'antologia che, per il resto, propone storie spacciate per racconti sebbene, in realtà, si tratti di elaborati carenti sul versante della struttura. Tra queste la migliore è senz'altro Zigghi l'Extraterrestre di Maria Paola Canozzi, uno spunto memorialistico (forse attinente a un ricordo passato della scrittrice) in cui si parla dell'amicizia, inizialmente osteggiata dai genitori, tra un gatto e un ragazzino e dal successivo abbandono per lo scadere delle delle vacanze estive.

Modesto, per il suo essere poco narrativo (sembra il resoconto di un'esperienza lavorativa legata alla terapia infantile eseguita con gli animali) Il Pinguino di Giacomo di Sonia Campa, che utilizza un episodio avvenuto all'interno di un centro per ragazzini autistici per proporre una riflessione sul mistero dei gatti quali animali proiettati su un'altra dimensione.

Poco narrativo è altresì Mitsy, La Gatta Arrivata dal Cielo di Elisabetta Grilli dove il lutto per la perdita di un gatto di famiglia funge da trampolino per la successiva e combattuta scelta di ospitarne uno nuovo. Dolly, da Dove? di Maria Fausta Pansera è un altro “finto” racconto, assai breve, che parla di adozione di gatti anziani e cerca di tramutarsi in opera creativa con un colpo di scena finale. Un po' poco.

Si limita a proporre uno spaccato di vita comune Notturno di Lea Blanc, in cui una gatta consola una ragazza abbandonata dal fidanzato senza dare poi seguito alla vicenda. Ugo il Gatto che Vola di Nicoletta Nuzzo è una sorta di spiegazione di una poesia dedicata a un gatto ispiratore.


CONCLUSIONI

Tra alti e bassi, Gatti dall'Altrove è un'antologia che propone una buona metà di racconti interessanti, con un paio di perle e una dozzina di buoni racconti. Incerta la costruzione e la scelta dei testi, che passano dalla prevalente fantascienza a un fantastico, non di rado, di presa fiabesca fino a passare a pseudo racconti che mascherano dietro una buona tecnica narrativa la mancanza di uno spunto veramente creativo. Si poteva far meglio, ma non lamentiamoci: ben vengano simili proposte editoriali.

La co-curatrice Marina Alberghini.

"La questione o il problema è che il gatto è un alieno. Nel senso etimologico del termine, un alienus, cioè un estraneo, meglio uno straniero."


sabato 9 novembre 2024

Recensione Narrativa: CABAL di Clive Barker

Autore: Clive Barker.
Titolo originale: Cabal.
Anno: 1985.
Genere:  Horror / Dark Fantasy.
Editore: Bompiani (1990).
Pagine: 446.
Prezzo: Fuori catalogo.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Pietra miliare del new horror o, se vogliamo, dell'extreme horror, che fa di Clive Barker, fin da subito, un fenomeno spinto da critica e colleghi di settore che non tardano a presentarlo quale nuovo Stephen King sebbene i due siano molto diversi.

La Bompiani decide di proporre il romanzo, uscito in Inghilterra nel 1988, associandolo a quattro racconti inediti, scritti tre anni prima, che saranno poi riproposti nelle antologie Libri di Sangue 3 (1997) e Monsters (2002). Oltre quattrocentoquaranta pagine per un volume che, non venendo più stampato dal 1994, finirà presto tra gli oggetti di desiderio dei collezionisti.

Cabal esce per la prima volta in Italia nel 1990 (avrà tre sole edizioni), quando nella nostra penisola di Clive Barker sono già uscite le antologie Infernalia ed Ectoplasm, oltre ai romanzi Gioco Dannato e Il Mondo in un Tappeto. È ancora un Barker non particolarmente conosciuto dal pubblico italiano che lo ha apprezzato per due delle sei antologie che comporranno il memorabile ciclo dei “libri di sangue”. Eppure i quattro racconti proposti a corredo di Cabal sono quelli conclusivi della serie. A ingolosire la Bompiani è l'uscita, proprio nel 1990, del film Cabal diretto dallo stesso Clive Barker. Lo scrittore/regista di Liverpool, pur se alle prime armi, è già considerato un maestro del genere, per le sue storie refrattarie a ogni compromesso, estremamente sanguinolente e visionarie ma soprattutto caratterizzate da un malato rapporto sadomaso che tende a sovrapporre il dolore fisico al piacere carnale. Emblema di tutto questo è il film che precede Cabal ovvero Hellraiser (1987), trasposizione cinematografica della novella Hellbound Heart (1986) che in Italia giungerà “solo” nel 1991 col titolo Schiavi dell'Inferno.

In Cabal (in particolar modo nel film) si assiste di nuovo alla predilezione dell'autore verso l'onirismo e un immaginario personalizzato che tende a delineare un vero e proprio pantheon infernale. Più votato al dark fantasy rispetto a Hellraiser, la storia prende le mosse dallo slasher per sviluppare un soggetto intriso di romanticismo (può essere anche letto come una storia d'amore) che guarda ai diversi e ai mostri da una prospettiva alternativa. Un'ottica quest'ultima particolarmente caldeggiata nel periodo (si pensi alla filosofia del nascente Dylan Dog). I veri cattivi non sono i demoni o gli “alieni”, ma coloro che dovrebbero garantire l'aiuto al prossimo (poliziotti e psichiatri). I diversi sono incompresi, individui costretti alla ghettizzazione e infine all'eliminazione fisica defraudati dai diritti come lo possono essere i morti. Barker è brutale nel gestire i suoi personaggi “umani”, delineati alla stregua di serial killer degni di uno slasher di fine anni settanta o di veri e propri redneck sul modello di quelli ammirati nella versione originale di Night of the Living Dead (1968) di George A. Romero (si veda la scena alla stazione di polizia, in cui il protagonista fugge per tornare a Midian inseguito da una folla inferocita). Il soggetto tuttavia è meno originale di quanto potrebbe apparire a un primo esame. Barker si appoggia ai grandi archetipi del genere (la luce che polverizza i notturni, il morso che rende dannati, le metamorfosi corporee da umano a bestia) che mette al servizio delle sue straordinarie doti visionarie. Indimenticabili infatti le scenografie di Midian, la città fantasma che accoglie i diversi e in cui ha sede uno dei cimiteri più affascinanti della narrativa horror che rimanda a racconti come La Città Vampira di Feval. Sono queste le parti del romanzo che spiccano in una storia che, per il resto, fatica a mantenere un adeguato ritmo passando di continuo da slasher a dark fantasy. Al tema soprannaturale, infatti, si associa quello assai meno interessante di un serial killer che si diverte a trucidare il prossimo, calzando una maschera e brandendo una lama.

Meno dettagliato rispetto al film (in cui si svilupperanno i “notturni” in modo da renderli unici e diversi tra loro), sono comunque da sottolineare alcuni personaggi “altri” quali il Baphomet dantesco diviso in più parti che funge da divinità che domina nelle cripte dell'immaginifica necropoli (eccezionalmente resa dal film) e che fungerà da base, decenni dopo, per la delineazione dell'inferno di The Scarlet Gospels. Torna, come per Hellraiser, il tema delle creature altre, i Notturni ovvero la razza della notte (Night Breed). Laddove però i cenobiti sono creature dannate, perverse, legate a un rapporto distorto tra il piacere e il dolore, i Notturni sono i diversi (bambini compresi), sono coloro che non si riconoscono nei canoni della società e che per questo vengono perseguitati da chi avrebbe il compito di capirli e difenderli. Non a caso i veri mostri sono lo psichiatra killer, i poliziotti reazionari e un prete che veste mutandine di pizzo. Non c'è pace per i diversi, neppure se vivono isolati nei sotterranei di una necropoli fuori dal mondo. Devono morire poiché “come può essere sbagliato ammazzare i morti perché se ne restino morti?

Barker riscrive così le coordinate dell'horror della tradizione, prendendo spunto da licantropi e vampiri (il morso di un Notturno trasforma il contagiato in uno di loro, fornendo una vita ulteriore che, tuttavia, può conoscere la morte definitiva). Esseri che vengono ridotti in cenere dalla luce e che non vedono di buon occhio i religiosi né gli umani. Barker da il meglio di sé nella descrizione di Midian, la città fantasma in cui si trova un fastoso ma decadente cimitero, e nel pirotecnico finale. Non tutto però, a mio avviso, gira bene. I fatti narrati sono ridotti. Al centro della narrazione vi è il tentativo di uno psichiatra folle (nel film interpretato nientemeno che da David Cronenberg, mitico regista di cult quali Videodrome e La Mosca) di addossare i propri omicidi a un capro espiatorio ovvero un paziente ossessionato da strane visioni. Tutto qua, con una metafora che sovrappone i “mostri” ai diversi invertendo il rapporto tra male e bene, con l'intenzione – riuscita – di far apparire per veri mostri i cosiddetti “normali”. L'amore funge da benzina trainante della storia, portando a un epilogo romantico che ribalta il Dracula di Bram Stoker (da cui arriva l'idea del collegamento psichico tra la protagonista femminile e la creatura della notte). Buono, ma non proprio il top dell'autore. 

Locandina del film.

Se Cabal appare, a suo modo, "autoriale" i quattro racconti che lo seguono sono derivativi e, pur se validi e apprezzabili, appaiono alla stregua di sperimentazioni in cui l'autore prova a contaminare con l'horror generi e contesti ambientali molto diversi tra loro.

Il tema della morte e, più in particolare, delle cripte contenenti cadaveri torna col più classico The Life of Death (“La Vita della Morte”). Come in Cabal abbiamo la fascinazione della protagonista, una donna che ha subito un delicato intervento all'utero, per le sepolture che si unisce alla presenza di un serial killer, questa volta “in bianco” (strangola) rispetto al sanguinoso e macellaio assassino di Cabal. Racconto meno barkeriano, ma non sprovvisto di fascino, dotato di un gusto più raffinato. L'idea alla base (un virus pestilenziale che si libera dai sepolcri) ricorda molto il romanzo Plague Pit (“La Valle degli Appestati”, 1981) uscito in Italia nel 1984 sulla collana Urania. Spettacolare e densa di fascino la scena in cui la protagonista penetra nella cripta ricolma di cadaveri. Barker riesce in poche frasi a trasmettere l'angoscia della morte imminente.


Una strana epidemia falcia un trio di personaggi in How Spoilers Bleed (“Il Sangue dei Predatori”), dove all'horror si accompagna il senso dell'avventura. Barker sposta la storia in un'inconsueta scenografia amazzonica. Siamo in Brasile, nel cuore della giungla, dove un terzetto di avidi europei ha acquistato un pezzo di giungla da far fruttare come miniera petrolifera. Prima di fare affari, però, c'è da scacciare la popolazione indigena. Classico racconto di denuncia contro la crudeltà del capitalismo che, in nome del progresso e dei soldi, calpesta tradizioni e popoli. Barker guarda allo sterminio dei pellerossa (alcool, malattie, violenza e cecità delle autorità corrotte) e si muove dalle parti di Thinner (“L'Occhio del Male”, 1984) di Stephen King uscito proprio l'anno prima della stesura del racconto. Fulcro di tutto è una maledizione indios scagliata dal vecchio del villaggio, scosso per l'uccisione gratuita di un ragazzino locale. Se nella storia di King il colpito perdeva progressivamente peso, qua si sviluppa una strana e grandguignolesca malattia che spacca la carne e induce a una subitanea putrefazione dei tessuti. Notevole la parte all'interno di un ospedale, così come si rivelano molto curate le ambientazioni fatiscenti e costantemente battute da umidità e calura. Bello, seppure impersonale. E' il mio preferito di tutta l'antologia.


Piace meno Twilight at the Towers (“Torri all'Imbrunire”) in cui l'autore tenta di combinare la spy story alla tradizione horror classica. Licantropi e agenti segreti si muovono nella Berlino contesa tra occidentali e comunisti. Doppi giochi, spie comuniste, presunte morti e strani disegni che si muovono sotto l'apparenza delle cose per una storia che non riesce a decollare. Buona la parte finale tra nebbie e mutazioni corporee in cui il gusto per l'orrido non latita a manifestarsi. Meno interessante degli altri racconti.


Si torna sulle coordinate care a Clive Barker con The Last Illusion (“L'Ultima Illusione”), un misto tra un noir e un horror visionario alla Hellraiser che ben rappresenta il talento pittorico dell'autore, ancora una volta interessato al collegamento tra realtà e inferno. Clive Barker utilizzerà lo spunto alla base del racconto per la realizzazione del film, assai più affascinante e strutturato, Lord of Illusions (“Il Signore delle Illusioni”, 1995) che approfondirà l'idea iniziale delineando una trama diversa e di gran lunga più qualitativa. Qui appare per la prima volta il detective Harry D'Amour, che ritroveremo nel romanzo Everville (1994) e soprattutto, contrapposto a Pinhead, in The Scarlet Gospels (“I Vangeli di Sangue”, 2015). Barker lo caratterizza strizzando l'occhiolino all'hard boiled. D'Amour non brilla per doti intellettive (non a caso diviene una sorta di zimbello nelle mani dei vari personaggi); scordatevi un personaggio alla Sherlock Holmes o un detective dell'occulto in stile John Silence. D'Amour non conosce il paranormale, né mostra talenti particolari. È uno squattrinato sensibile al fascino femminile e all'alcool, che accetta casi di bassa manovalanza investigativa. Nonostante quanto vada a dire in giro, è un mediocre. Addirittura è un pessimo tiratore, la sua calibro 38 centra bersagli solo quando lui smette di mirare affidandosi al puro iistinto. È comunque un uomo d'azione, ingaggiato soprattutto da mariti traditi, che ha avuto già a che fare con l'occulto rimanendone, in parte, traumatizzato. Ed è proprio questo il campo d'azione su cui si muove il racconto. Viene ingaggiato da una giovane donna per vegliare la salma del marito, morto in circostanze sospette. Sembrerebbe un lavoretto facile, ma non sarà così. Visioni, allucinazioni e strani personaggi entrano presto nella vicenda che diviene un vero e proprio duello tra il nostro e le forze infernali che intenderebbero sottrarre le spoglie mortali del defunto (un mago che si è preso gioco degli inferi). Barker riprende, da un lato, il tema del patto diabolico di faustiana memoria e, dall'altro, il rapporto tra magia e illusionismo per scrivere un racconto che proietta i demoni infernali (qua addirittura sotto mentite spoglie) nella quotidianità di una New York notturna. Niente di ciò che si vede è reale. “Quando si ha a che fare con gli Abissi, è meglio non credere mai ai propri occhi. Nell'attimo in cui ti fidi di quello che registrano i tuoi sensi, nell'attimo in cui ti convinci che la tigre è davvero una tigre, sei almeno per metà perduto”. Questo il tema principale di una storia ricca di allucinazioni (bella la parte con la tigre o il finale con una vera e propria legione infernale che suono bizzarri strumenti musicali), apparizioni demoniache e soprannaturale. La magia diviene l'arte per distorcere la realtà grazie all'interferenza del maligno. “La magia è un modo per distrarsi dalle questioni importanti. È retorica. Melodramma” poiché nulla di ciò che il Prince delle Menzogne offre al genere umano può avere valore anche se minimo.

Nonostante la trama si sviluppi in un arco temporale di poche ore, The Last Illusion è il racconto più memorabile tra le quattro storie selezionate per fare da corredo a Cabal. Harry D'Amour si trova a vivere una notte all'insegna dell'assurdo. Insieme a un bizzarro collaboratore (un demone che ricorda i personaggi dei Visitors per la sua seconda pelle celata sotto le sembianze umane) deve difendere il cadavere di un noto illusionista per evitare che il corpo finisca nelle mani dei demoni. Ne vedrà di tutti i colori.

Eccoci dunque al termine dell'antologia. Il volume della Bompiani è senz'altro un libro da recuperare per tutti i collezionisti, sebbene sia meno potente rispetto ad altre opere di Clive Barker. Solo The Last Illusion e Cabal rappresentanto a pieno l'arte del "nostro" che, per il resto, si destreggia nel genere allontanandosi dai temi classici della sua produzione. Leitmotiv del volume sono il fascino della morte (in quattro storie su cinque è la morte la vera protagonista, persino umanizzata in uno dei racconti), la scomparsa collettiva di un'intera popolazione (i notturni sterminati in Cabal, gli indios contaminati in Il Sangue dei Predatori, i malati isolati nelle cripte in La Vita dela Morte, o i licantropi braccati dagli umani in Torri all'Imbrunire) e la difesa dei diversi destinati comunque a subire i soprusi dei più forti alla fine vincenti (pessimismo di fondo).  A ogni modo, consigliato.

La locandina del film ispirato dal racconto L'ULTIMA ILLUSIONE

 "Una tribù perde il suo territorio e con esso se ne va anche il desiderio di continuare a esistere. Smettono di badare a se stessi, le donne non restano più incinte, i giovani si mettono a bere, i vecchi si lasciano morire di fame. Nel giro di un paio di anni qui non ci sarà più nessuno."

 

martedì 5 novembre 2024

Recensione Narrativa: ANCORA VIVI a cura di Gabriele Lattanzio e Alessio Valsecchi.

Autore: AA.VV. a cura di Gabriele Lattanzio e Alessio Valsecchi.
Anno: 2024.
Genere: Horror.
Editore: Indipendente.
Pagine: 200.
Prezzo: 16.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

Antologia made in Italy curata da due "volpi" dell'underground italiano: Gabriele Lattanzio e Alessio Valsecchi, fondatore del mitico sito latelanera oltre che direttore di collana delle Edizioni XII.

I due curatori pescano direttamente nell'underground, sebbene la selezione non lo dia affatto a vedere. Dieci autori, pluri-premiati nel circuito dei concorsi letterari, presentati in gran spolvero, grazie all'ottimo editing di Daniele Bassanese. Tra tutti brillano i nomi della vincitrice del recente Urania Short 2024 Martina Scalzerle, della finalista al medesimo premio (ma in anno diverso) Paola Viezzi, del vincitore del Masters of Horror indetto dalla Universal Pictures Samuele Fabbrizzi, e dell'ottimo e graffiante Simone Corà (vecchia conoscenza di settore e pubblicato da editori quali Acheron Books, Nero Press e Edizioni XII).


Punto di forza dell'opera sono l'eleganza del lessico e la forma. I racconti sono tutti scritti in modo molto qualitativo e professionale con stili, a parte qualche eccezione, non troppo dissimili. Anche il livello dei soggetti è molto omogeneo. Se si fosse in un concorso, non sarebbe di certo facile stilare una classifica di merito. Il tema comune è quello della reincarnazione, sebbene gli sviluppi siano assai meno prevedibili di quanto si potrebbe pensare. Solo di rado il tema è trattato in modo “ascetico” (Matteo Mancini, Alessandro Agnese), assai più spesso, invece, si ricorre all'idea della reincarnazione quale via per mettere a segno vendette dirette (Andrea Costantini, Simone Corà, Martina Scalzerle) o indirette (Paola Viezzi), sconfinando per tale via nella ghost story o nel racconto di possessione. Dominano i contenuti drammatici, del tutto prevalenti sul sense of wonder e sul pulp, sovente con riferimenti ai disagi e alle problematiche che riempiono le pagine della cronaca nera (violenze in famiglia, femminicidi, pedofilia e via dicendo). Ne viene fuori un volume meno orientato sul fantastico da intrattenimento e molto più concentrato su un orrore “terreno” respirato tutti i giorni.

RECENSIONE NEL DETTAGLIO

Tra i racconti più squisitamente horror brillano Moquette di Simone Corà e La Grande Occasione di Paola Viezzi che, insieme a Cetra di Andrea Costantini, sono in assoluto i miei preferiti. Attenzione, però: non li definirei i migliori dell'antologia, perché qua, ve lo ripeto, la scelta è molto soggettiva, tanto che, a esempio, il racconto di Corà potrebbe benissimo passare dall'essere considerato il migliore (per via della sua verve scatenata e fantasiosa) al finire per essere reputato il peggiore (per il suo essere disancorato dagli schemi classici). Moquette infatti è il racconto più surreale del lotto, con evidenti omaggi a Stephen King (per l'aver trasformato un oggetto inanimato come una moquette in un mostro posseduto), Clive Barker (per la folle impostazione body horror alla Cronenberg) e Peter Blatty (ferite corporee su cui compaiono parole un po' come la famosa scritta “Help” sul corpo di Regan ne L'Esorcista). Divertente e grandguignolesco, mira a divertire avendo come background una revenge story in salsa ghost story. Pur se meno maturo di altri racconti dell'antologia, a mio avviso è una perla.

Cetra di Andrea Costantini (scrittore pubblicato da Nero Press) ha in comune con Moquette l'impostazione revenge (un leitmotiv dell'intera antologia). Cambia però lo stile e la scelta di pacatezza nello sviluppo. Se Corà sceglie vie assai più difficili da gestire (dove è facile cadere nel ridicolo) e giochi tutto sull'azione (ritmo serratissimo), Costantini opta per una struttura molto classica e predilige una gestione dei tempi molto più ragionata. Tornano a galla i giochi di infanzia anni cinquanta, caratterizzati da una crudeltà che riesce a colpire allo stomaco il lettore (specie se amante degli animali) senza bisogno di truculenze e di sangue. Impostato su un doppio binario parallelo, tra presente e passato, la storia si sviluppa con un'impostazione gialla che svela a poco a poco la propria sostanza fino a un epilogo obbligato. Non guastano i vaghi rimandi a Il Gatto Nero di Poe (penso alla macchia sul collo del gatto e al cappio). Bello, ma classico.

A metà strada tra Corà e Costantini, si muove Paola Viezzi con La Grande Occasione. Tornano gli echi di Clive Barker (penso a Hellraiser) e di Stephen King (Cose Preziose), sebbene al servizio di un racconto che miscela giallo, dramma e onirismo. La storia ha un abbrivio lanciato per rivelare progressivamente l'antefatto che sta alla base delle condotte disperate del protagonista. Siamo nell'ambito di quelle storie weird in cui il protagonista finisce per entrare in un negozio di antiquariato dove è possibile comprare di tutto. Il "nostro" finisce per acquistare una strana scatola, contenente pillole che garantiscono di accedere a una data vita futura. Finale piuttosto intricato e non così prevedibile (ribaltamento dei ruoli dei personaggi), in cui viene inserito il momento visionario e onirico più bello dell'intera antologia. Bella storia.


Crepaccio di Matteo Mancini (il sottoscritto) è un racconto che affronta la tematica da un punto di vista classico (ovvero il loop che porta le anime a reincarnarsi di continuo nel ciclo della vita) per virarla su un piano ascetico/religioso che abbatte il materialismo in favore di uno spiritualismo da intendersi quale chiave di decriptazione del "vero" senso della vita. Penso di poter dire che sia il racconto più visionario dell'intera antologia e uno dei pochi (insieme al racconto della Viezzi) che cerca di mostrare la vita che sta oltre al nostro piano dell'esistenza. Potrebbe risultare fastidiosa la struttura frammentaria che accompagna la traccia principale, ovvero la scalata da parte di un alpinista di una parete rocciosa che acquisisce rilevanza metaforica.

Momenti comuni a Crepaccio si trovano in E Marmellata Sia di Alessandro Agnese. Nonostante il titolo, forse poco accattivante, si tratta di un inusuale ed eccellente weird war (curioso che anche in Crepaccio vi siano scene molto simili). Le scene di guerra sono spettacolari e predominano sulla tematica dell'antologia che appare nella parte terminale del racconto, in cui il morto torna nel circolo della vita da neonato. La sensazione (sicuramente non corrispondente alla realtà) che si ha leggendo la storia è quella di un racconto adattato in un secondo momento alla tematica richiesta dai curatori.


Abusi sessuali adolescenziali sono al centro de La Confessione di Luca Bettega e de Gli Amici della Campagna di Samuele Fabbrizzi. Bettega (firma Delos Digital) segue una via mainstream predisponendo una prison story dalle atmosfere kinghiane (penso al racconto che avvia la raccolta Stagioni Diverse). Notevole la prima parte all'interno di un carcere, che non si conferma appieno nella parte più horror (peraltro sfumata). Come nel racconto della Viezzi si assiste a un passaggio dell'anima del protagonista da un corpo all'altro, ma laddove la scrittrice friulana sposava la via revenge qua si sceglie una via pessimista in cui sembra impossibile sfuggire ai disegni di un destino destinato a ripetersi.

Appare più di “genere” il racconto di Fabbrizzi, peraltro l'unico in cui il tema della reincarnazione è meramente ed erroneamente supposto da un manipolo di pazzi. Interessante, come avviene peraltro in altri racconti (tra cui quello della Viezzi o quello di Ferrari o della Scalzerle), la gestione dei personaggi che inizialmente vengono percepiti dal lettore alla stregua di disperati che hanno perso una persona cara salvo poi rivelarsi in un'altra e meno gratificante ottica. Fabbrizzi omaggia Jack Ketchum in favore di un realismo che rifugge dal fantastico. Gli Amici della Campagna, infatti, non è una storia soprannaturale, ma un body horror in odore torture con accenni hardcore horror. Finale liberatorio e un po' argentiano. Racconto irriverente e velatamente blasfemo, che gioca senza cadere in fallo con i rituali religiosi.

Molto più fine è Una Vita per una Vita dell'ultima vincitrice dell'Urania Short Martina Scalzerle. Taglio drammatico al servizio di una ghost story in salsa revenge presentata in modo da capovolgere le sensazioni iniziali. Dapprima il lettore ha la certezza di essere alle prese con un uomo abbattuto per la recente morte della moglie ma, a poco a poco, finisce per lo scoprire un'altra realtà. Si ripropone anche qua il tema dell'anima che trasla nel corpo di un'altra persona bypassando la nascita. Molto romanticismo (top in questo del lotto), ucciso da un epilogo revenge  più incline a una storia di possessione che a una sulla reincarnazione intesa nell'ottica della metempsicosi (simile in questo anche Simone Corà).

È una storia di possessione anche L'Invite Francais di Edoardo Barea, che ricorre (stranamente l'unico a farlo) all'ipnosi regressiva per delineare una storia di sdoppiamento della personalità ancorata a una pregressa esistenza che chiama in causa il serial killer, davvero esistito, Barbablù. Poco chiaro se si tratti una possessione in qualche modo diabolica (il racconto è molto vicino a questo sottogenere) o una storia che propone l'idea della presenza di più anime in lotta tra loro all'interno di un medesimo corpo. Non manca il grandguignol.


Voodoo di Gualtiero Ferrari è invece la storia più black humor dell'antologia, costruita su un'ironia british che rende il racconto cattivissimo (il più cattivo del lotto). Anche qua, più che di reincarnazione, si parla di altro ovvero del ritorno dalla morte per il tramite dei rituali voodoo e della possibilità di rubare il copo ai vivi (dunque possessione). Siamo pertanto dalle parti del racconto soprannaturale in salsa weird e pulp. Protagonista è un marito disposto a tutto pur di far ritornare la moglie dall'aldilà. Interessante la scena della vittima sacrificale sotterrata viva con un cadavere, al fine di consentire la traslazione dell'anima del morto (idea simile a quella utilizzata dalla Scalzerle, ma esecuzione grandguignol). Tutto piuttosto classico, fino all'imprevedibile e beffardo finale che da avvio a un sadico e inatteso loop in barba alla tematica sulla violenza sulle donne. Henry Whitehead avrebbe gradito.


In conclusione Ancora Vivi è un'antologia, penso di poter dire, sopra le aspettative, che brilla per la cura dei testi e l'eleganza espositiva degli autori. Ottimo l'editing e valida la scelta operata dai curatori. Da sotolineare l'impostazione più “italica” rispetto a un horror dalle atmosfere gotiche o weird, che qua vengono subordinate – dalla maggiore parte degli autori – a una predilezione per il racconto drammatico in salsa macabra calato nella realtà quotidiana. Onoratissimo di farne parte.

Uno dei due curatori: ALESSIO VALSECCHI.

domenica 3 novembre 2024

Recensione Narrativa: WEIRD 1 di AA.VV.

Autore: AA.VV..
Anno: 2024.
Genere: Fantastico - Weird.
Editore: Dagon Press.
Pagine: 188.
Prezzo: 12.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

Atteso primo numero della serie antologica Weird – Il Fantastico e lo Strano in Letteratura che Pietro Guarriello, dominus della Dagon Press, propone a inizio 2024 al fine di cavalcare il momento felice del genere weird salito in Italia sulla cresta dell'onda, negli ultimi anni, grazie alle proposte editoriali di Hypnos, Providence Press, Biblioteca di Lovecraft, Agenzia Alcatraz e non da ultima della stessa Dagon Press. Un'offerta senza precedenti nel panorama editoriale italiano, specie se si considerano anche altre case editrici più orientate al cosiddetto modern weird (La Nuova Carne, la fallita Dunwich Edizioni, Independent Legions e via dicendo).

Sette racconti, due dei quali di contemporanei scrittori dell'underground italico (lodevolissima questa idea), per una forbice temporale che va dal 1830 al 2024. Piace soprattutto l'idea di lanciare autori autoctoni (spesso più motivati e in forma rispetto alle prove dei più celebri colleghi recuperate dall'oblio), così come è valido il tentativo di "scoprire" testi inediti di scrittori del tempo che fu non particolarmente inflazionati nelle traduzioni italiane se non, addirittura, semisconosciuti.

In questo primo numero dominano le atmosfere ambientali. Guarriello sembra aver condotto la sua selezione focalizzandosi sulle atmosfere scenografiche, solitamente di luoghi isolati, inaccessibili o flagellati da condizioni ambientali proibitive che mettono a repentaglio la vita dei viandanti travolti dagli eventi. Ben quattro racconti, oltre la metà del totale, rientrano in questo sottofilone. Tra tutti, non so quanto sia un bene per la selezione operata, brilla Il Sepolcro di Ghar'strag (2024) di Emiliano Caruso, un sword & sorcery intriso di sense of wonder caratterizzato da una graduale e lenta discesa in un incubo dalla forma di un'isola di pietre dispersa nell'oceano. Di gran lunga il miglior racconto del lotto. Un vero e proprio gioiello che tiene incollato alla pagina il lettore e lo meraviglia, come dovrebbero fare i racconti weird. Memorabile tutta la parte della barca dei vichinghi che penetra all'interno di un banco di nebbia su cui galleggiano velieri e navi abbandonate da chi, da quell'isola, non è più riuscito a scappare. Prova sontuosa per un autore il cui nome è da appuntare sull'agenda.

Si passa dalle ambientazioni glaciali e granitiche de Il Sepolcro di Ghar'strag al deserto arabico di Ithran the Demoniac (“Il Demone del Deserto”, 1830) dell'inglese William Howitt. Costante è l'inferno scenografico, qua curiosamente ribaltato rispetto a quello tratteggiato da Caruso. La sabbia al posto dell'oceano, il caldo in luogo del freddo, costanti rimangono la fame, la sete, la condanna a morte per l'impossibilità di compiere un viaggio di ritorno da un contesto ambientale dominato dalle pietre. Meno spettacolare del racconto di Caruso, Howitt sostituisce al mito del guerriero caduto a cui si deve dare degna sepoltura quello del profeta ebreo maledetto per aver ceduto ai richiami della carne e, per questo, costretto a errare per il deserto alla stregua di una belva feroce (il capro espiatorio di tutti i peccati di Israele). Bello lo stile, con struttura quasi tutta orientata a ritroso – in flashback - per ricostruire la vicenda di un uomo agonizzante sulle pietre battute dal sole arabo. Non decolla mai, però.

Sulla stessa lunghezza d'onda, ma assai meno affascinante, è When the Rains Came (“Quando le Piogge Arrivarono”, 1964) dell'autore più conosciuto del lotto: Frank Belknap Long. Il corrispondente di Lovecraft rielabora, in chiave fantascientifica, la parabola del diluvio universale ma la sposta in un mondo alieno. Siamo in un pianeta dove un astronauta è precipitato con la sua navicella spaziale. Ancora una volta abbiamo l'impossibilità della via di ritorno e lo scatenarsi di una situazione ambientale, dovuta alla pioggia battente, che rende il contesto scenografico infernale. Il protagonista, infatti, si trova costretto a scalare un'alta montagna per sfuggire dall'allagamento che tutto distrugge. Il superamento della prova lo porterà a essere recuperato da creature provenienti dall'universo.

Costruito sul fascino ambientale, nella fattispecie le foreste russe, è anche Bezin Lug (“Il Prato di Bez”, 1852) di Ivan S. Turgenev. È una storia stile i racconti di caccia di Robert W. Chambers, penso a The Demoiselle d'Ys (racconto minore inserito nella raccolta The King in Yellow, 1895) o al più incisivo The Maker of Moons (“Il Fabbricante di Lune”, 1896), che ha il merito di anticiparli e il limite di non decollare mai. Turgenev propone l'avventura di un cacciatore che, in compagnia della sua cagna, si perde nel bosco e si trova a dover trascorrere la notte davanti al focolare con quattro ragazzetti che si raccontano storie più o meno fantastiche (per lo più ghost stories o storie criptozoologiche) in pieno spazio aperto. Ottimo lo stile evocativo, all'insegna del vorrei ma non posso. Il lettore ha la sensazione che, da un momento all'altro, possa succedere qualcosa di fantastico e terrificante, ma alla fine resta deluso. Struttura frammentata, racconti troncati che passano continuamente di “palo in frasca” (vaga idea della struttura a episodi tenuti uniti dalla storia pilota). Certo, l'ambientazione e la gestione dei tempi sono interessanti, tanto che qualcuno lo ha definito un antesignano del folk horror, tuttavia manca l'affondo decisivo per rendere la storia un qualcosa da ricordare.

La butta in una satira burlonesca Frank R. Stockton con A Story of Seven Devils (“La Storia dei Sette Demoni”, 1885), un racconto che di weird ha davvero poco. Viene meno persino il fascino delle ambientazioni. Tema centrale è la libera interpretazione da parte di un bislacco pastore protestante (che neppure sa leggere) della Bibbia. Infastidito dalla moglie che lo comanda a bacchetta, il pastore afferma durante un suo sermone che ogni donna è posseduta da sette demoni. Una sortita che getta in subbuglio l'intera comunità femminile che minaccerà di cacciarlo se non riuscirà a trovare una giustificazione scritta alla sua affermazione. Probabilmente divertente per l'epoca, si dimentica presto ultimata la lettura.

Delude anche The Renegade ("Il Rinnegato", 1964) di John Metcalfe, un racconto senza mordente e senza sense of wonder, che Pietro Guarriello pesca da una selezione di August Derleth. Al centro del narrato c'è la morte di uno zio, da cui la protagonista spera di spillare quattrini, che preferirà destinare gran parte della sua eredità in favore della tutela dei rinoceronti. Anche qua il racconto non decolla mai, si allude a un caso di strana licantropia con traslazione dell'anima di un morto nel corpo di un rinoceronte intrappolato in uno zoo. Curioso che Pietro Guarriello, in quarta di copertina, parli di ippopotami mannari (evidentemente pure lui assai poco colpito dal testo che ha scelto di proporre).

Sceglie la via della tecnica linguistica Paolo Sista con Madre delle Ceneri, un personale omaggio al De Profundis di Thomas De Quincey e, molto più marginalmente, alla trilogia delle madri di Dario Argento. Lo stile è moderno, a tratti politicamente scorretto per assumere, alla distanza, terminologie ricercate che ne caratterizzano la matrice autoriale. Paradossalmente è preferibile (perché più accessibile al lettore comune) la prima parte del racconto, di mera preparazione rispetto al soprannaturale che irrompe nella seconda parte. Al di là di ciò, Madre delle Ceneri è il racconto più weird dell'intero lotto per il suo richiamare scenari apocalittici alla Hodgson dove il tempo è sospeso e l'eletto/dannato attende – suo malgrado - la fine del mondo assoggettato a una maledizione da cui non può liberarsi.

CONCLUSIONE

Devo essere sincero: mi attendevo qualcosa di più. Al di là del racconto di Caruso e, per certi versi, quello di Sista, le scelte operate da Guarriello – specie se si considera che si tratta di un volume pilota (dunque da lanciare sul mercato alla massima potenza) – non sembrano essere state tra le più accattivanti. Racconti così e così (Howitt, Turgenev), altri deludenti (Long e Metcalfe) se non persino trascurabili (Stockton). Paradossalmente spiccano i due italiani che, sulla carta, sarebbero dovuti essere quelli più in difficoltà col parallelo offerto dai più "grandi" colleghi del passato. Si poteva fare meglio. Per fortuna il pubblico ha risposto bene tanto che, al momento, la collana è giunta al suo quarto numero. A presto per le prossime recensioni.

Emiliano F. Caruso
è l'autore del miglior racconto dell'antologia.