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sabato 30 dicembre 2023

Recensione Saggi: GUIDA AL CINEMA HORROR - Dalle origini del genere agli anni settanta.

Testi: Roberto Azzara, Stefano Di Marino, Roberto Chiavini, michelino tetro..
Anno: 2021.
Genere: Critica Cinematografica.
Editore: Odoya.
Pagine: 476.
Prezzo: 25.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Saggio che completa il precedente Guida al Cinema Horror – Il New Horror dagli Anni 70 a Oggi dato alle stampe nel 2015 e (purtroppo) misteriosamente finito fuori catalogo nel giro di un paio di anni (ufficialmente perché esaurito). Nel volume oggetto di esame, infatti, viene analizzato con profondità e grande cura espositiva il genere cinematografico horror dagli albori (muto compreso) all'uscita nel 1968 de La Notte dei Morti Viventi e Rosemary's Baby. L'esposizione non è americano-centrica, ma parte dall'espressionismo tedesco per focalizzarsi sulle case di produzione inglesi, il gotico italico e quello ancora più economico spagnolo, senza tralasciare visioni sulla Francia e la Svezia e, ovviamente, su Hollywood dalle major al circuito indipendente dei vari Ed Wood ed Herschell Gordon Lewis.

Rispetto al precedente volume si nota, a mio modo di vedere in modo assai più efficace, una variazione dei criteri d'esposizione. Laddove il primo volume sposava un approccio più commerciale trattando la materia attraverso una divisione dei film per sottogeneri (demoni, fantasmi, streghe, vampiri, zombi e via dicendo) dedicando a ciascuno di essi un distinto capitolo, in quest'opera, uscita sei anni più tardi, si sceglie di procedere per case di produzione e, più in generale, per periodi temporali. Una suddivisione che permette di affrontare la materia, senza farsi prendere da voli pindarici di valenza filosofica, con un taglio, se vogliamo, più accademico, ovvero un'impostazione fondamentale per prendere cognizione dell'evoluzione del genere.

Trame, curiosità, giudizi e aneddoti si susseguono in un'esposizione chiara ed estremamente accattivante, merito anche delle numerose illustrazioni e di un'impaginazione per la quale l'Odoya è ormai marchio di garanzia assoluto.

Un volume, a dir poco magistrale, ultra consigliato per chi voglia approfondire le radici del cinema horror. Una lettura fondamentale sia per aumentare le proprie conoscenze sia, soprattutto, per reperire film che, sovente, sono alla base di quanto oggi circola nei cinema. Perfetto per un regalo. Tra le migliori guide Odoya.Vale le 25 euro.

Recensione Narrativa: SHINING IN THE DARK a cura di Hans-Ake Lilja.

Autore: AA.VV.
Curatore: Hans-Ake Lilja
Anno: 2017.
Genere:  Antologia Horror.
Editore: Independent Legions (2018).
Pagine: 200.
Prezzo: 25.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

PRESENTAZIONE

Antologia commemorativa curata dallo svedese Hans-Ake Lilja in occasione del ventennale dalla creazione del sito internet Lilja's Library – The World of Stephen King dallo stesso diretto.

Il volume esce nel 2017 per giungere l'anno successivo in Italia, grazie alla Independent Legions Publishing che acquista i diritti di distribuzione per una tiratura limitata a 800 copie. A prescindere dai contenuti, il progetto conquista fin da subito l'aura del volume da collezione. Lilja riesce infatti a ottenere da Stephen King e da Clive Barker la possibilità di proporre due loro racconti (inediti in italiano) non inseriti nelle antologie che ne hanno cadenzato la carriera. Ecco così uscire un'antologia imperdibile per i completisti dei due autori. Lilja non si “limita” a questo, ma coinvolge nel progetto altri numi tutelari del genere horror. Aderiscono infatti alla proposta, tra gli altri, Richard Chizmar, coautore di alcuni romanzi firmati a quattro mani con Stephen King (trilogia di Gwendy iniziata da La Scatola dei Bottoni di Gwendy) nonché curatore della serie antologica Shivers (trovate uno di questi volumi in italiano sul catalogo Cut-Up), il decano Ramsey Campbell, il principale autore di romanzi del terrore svedese John Lindqvist, Jack Ketchum, colui che ha rivitalizzato il filone zombie Brian Keene (autore tra gli altri di The Rising e I Vermi Conquistatori) e persino Edgar Allan Poe. A questo gruppo titolatissimo si aggiunge un poker di scrittori meno noti, tra i quali Brian James Freeman che, oltre ad aver pubblicato con la sua casa editrice (Lonely Road Books) alcuni volumi in serie limitata di Stephen King, ha aiutato il curatore nell'acquisizione dei diritti dei racconti scelti. Tredici autori per dodici racconti (uno dei quali scritto a quattro mani). Ne esce fuori una miscela che dovrebbe esser esplosiva con attese altissime per il pubblico di appassionati. Appunto, dovrebbe...


RECENSIONE PARTICOLARE (OCCHIO SPOILER), A SEGUIRE LA GENERALE

Shining in the Dark è un'antologia non unita da un forte collante, oscillando tra horror soprannaturale, omicidi e dramma del comune vivere. Lilja la costruisce secondo vie variegate. Chiede testi già scritti ma spariti nel nulla, è il caso di King e di Barker, spinge altri a rielaborare idee maturate in passato (Campbell), propone inediti che per motivi vari non sono mai usciti altrove (Chizmar), aggiunge un classico di Edgar Allan Poe - in quanto il relativo racconto è stato rimodulato dall'elaborato di King - e chiede ad altri di scrivere qualcosa di apposito per l'antologia (Lindqvist, Ketchum e Freeman). Ne viene fuori un lotto disomogeneo per generi, stili e tipologia di orrore, ma con curiosi rimandi limitati a singoli gruppi di storie. Così abbiamo il tema dell'omicidio commesso (per moventi diversi e con esiti diversi) da un uomo che si insinua nella privata dimora della vittima (Poe, King, Freeman, Ketchum e, in parte, Chizmar), quello del luna-park che offre spettacoli insidiosi per i clienti siano essi anziani o bambini (Campbell e Quingley), i drammi umani vissuti per separazioni dovute a un evento mortale mai superato dal protagonista (Keene e Chizmar) o per un male di vivere determinato dalla sofferenza (Freeman e in parte O'Nan), quello degli urban fantasy incentrati su quartieri malfamati dei centri urbani interessati da situazioni ben al di la' dei confini della realtà (Barker e Vincent). Completano il lotto un omaggio ai giochi di ruolo lovecraftiani (Lindqvist) e un racconto di critica sociale piuttosto originale nei contenuti (O'Nan).

Tutto parte, nella costruzione del volume, dal racconto The Blue Air Compressor (“Il Compressore ad Aria Blu”) di Stephen King, una storia metaletteraria di cattivo gusto pubblicata nel 1971 su una rivista universitaria del Maine e successivamente riproposta, sembra dopo alcune revisioni, nel 1981 sulla rivista Heavy Metal. Il fatto che non si tratti di un racconto antologizzato nelle raccolte ufficiali del “Re” la dice lunga sulla qualità del testo, di certo non tra i migliori dell'autore (Rocky Wood, nel volume Le Opere Segrete del Re, lo definisce una storia “pretenziosa, dichiaratamente derivativa e per nulla rappresentativa dello stile di King”). Il soggetto ruota attorno a un brutale omicidio, messo in atto da uno scrittore ai danni della padrona di casa. Infastidito dall'ilarità con la quale la donna ne schernisce le abilità ribaltando il proposito iniziale di dileggio dello scrittore (che gioca sull'obesita' della donna), l'uomo la stordisce con un bastone per poi ucciderla collocandole in bocca un tubo di un compressore, cosi' da dimostrarle, contrariametne da quanto lei affermato, di averla fatta grassa come nessun altro potrebbe fare. La parte finale, con l'attività di occultamento del cadavere e l'intervento della polizia, guarda con toni beffardi sia al racconto The Tell-Tale Heart (“Il Cuore Rivelatore”) di Edgar Allan Poe sia alla psicanalisi di Sigmund Freud, entrambi chiaramente citati e messi in ridicolo. L'epilogo sulla carta a vantaggio del killer viene tuttavia riprestinato da un infausto destino che culmina col suicidio del protagonista (dovuto, in parte, all'incapacità dello stesso di diventare uno scrittore di successo) a dimostrazione che lo stesso abbia effettivamente perso la testa. Da segnalare i curiosi interventi nella storia di Stephen King che interrompe la narrazione rivolgendosi direttamente e a proprio nome al lettore (una soluzione che decenni dopo sarà ripresa dal film austriaco Funny Games), presentando commenti e osservazioni sul soggetto e sulle fonti di ispirazione (fumetto della E.C.). Un testo sperimentale e metaletterario che sembra uscito a fini didattici nel corso di un laboratorio di scrittura. Pur se debole nell'intreccio, è una primizia per i cultori dello scrittore che solo qua possono recuperare il racconto.

Lilja parte da questo testo per costruire un'antologia che poi, improvvisamente, si distaccherà dalla genetica iniziale incentrata su un orrore prettamente terreno. Il curatore decide infatti di riproporre il pluri-antolocizzato The Tell-Tale Heart (“Il Cuore Rivelatore”, 1843). Si tratta di una decisione che sembra voler ricordare il racconto a chi non lo dovesse aver mai letto. Il testo di Poe (tradotto da Elisabetta Colombo) è nettamente il migliore dell'antologia, riuscendo ad annichilire gli altri, a dimostrazione di una freschezza e di una modernità non intaccata dal decorrere dei secoli. Un distillato di tensione e angoscia, che sonda la follia criminale facendo emergere un senso di colpa che la mente non riesce a gestire, forse perché consumata da un substrato etico che ne corrode i nervi e determina percezioni allucinate. Un capolavoro assoluto incluso nel progetto col ruolo di bonus track. La storia vede un assassino, in veste di narratore, raccontare l'omicidio che lo ha portato all'arresto, al fine di dimostrare la propria sanità mentale e di dimostrare, in contemporanea, l'interferenza di un qualcosa di diabolico che caratterizzava la vittima, a lungo spiata mentre dormiva nella propria camera. Un mistero ultraterreno che ha indotto l'uomo a confessare i misfatti, martellato da un battere di cuore che non aveva possibilità di manifestarsi viste le modalità di smaltimento del cadavere. Su tali coordinate, oltre King, si muovono Brian James Freeman, Jack Ketchum (e P.D. Cacek) e, in parte, Brian Keene e soprattutto Richard Chizmar.

Il racconto di Freeman, L'Amore di una Madre (che il curatore si dimentica di inserire nella pagina dedicata ai titoli originali), è un giallo con colpo di scena finale, costruito in verità in modo un po' truffaldino dall'autore (o dal traduttore) attraverso l'utilizzo di una serie di pronomi che fuorviano il lettore. Testo semplice (nato dalla domanda: "a cosa porta l'amore di un figlio per una madre?"), gestito con maestria al fine di indurre il lettore a pensare che il killer stia agendo per un certo fine, scoprendo poi all'epilogo di aver interpretato male i fatti indicati in premessa. Al centro vi è la necessità di un figlio di alleviare i dolori di una madre consumata dal cancro e bisognosa di cure e del sostegno di una clinica specializzata che, tuttavia, non dispone di posti letto per ospitarla. Niente di eccezionale, ma magistrale esercizio di stile. Nella sua semplicità, è tra i racconti più riusciti del lotto.

Chizmar e Keene, per diverse vie, rappresentano l'impossibilità dei relativi protagonisti di continuare a vivere a causa del senso di colpa che li consuma. Se ne il testo di Poe il senso di colpa va a braccetto con una crisi di nervi e un'alterazione psico-fisica del killer, in questi due racconti è qualcosa di molto più profondo a generare tormento. Keene, solitamente commerciale, affonda nella sfera emotiva, con un racconto struggente (peraltro inserito anche nell'antologia I Figli del Buio della Independent Legions). Il suo An End to All Things (“La Fine di Ogni Cosa”, 2016) parla di un padre di famiglia che, ogni mattina, si affaccia sul lago che si distende davanti alla sua abitazione, in attesa di un evento catastrofico che ponga fine all'umanità. La morte del figlio e il suicidio della moglie, infatti, gli hanno tolto ogni prospettiva esistenziale, soprattutto perché l'uomo incolpa sé stesso di quanto avvenuto (una distrazione fatale). Una storia lontana dalla letteratura dell'orrore, che converge verso contenuti altamente drammatici, dimenticando per una volta le incurisoni nel pulp politicamente scorretto e iperbolico che caratterizzano la narrativa di Keene. Un testo che colpisce le corde emotive, ma che certo non ci si attenderebbe di leggere in un'antologia horror. Atmosfere molto più dark con Chizmar, dove si mutua la volontà del protagonista di porre termine alla propria vita per la morte di un proprio caro. Questa volta dietro al gesto si cela un omicidio avvenuto quindici anni prima. Cemetery Dance parla infatti del suicidio di un uomo che ha perduto la donna di cui era innamorato a termine, probabilmente, di uno stupro mai scoperto e di cui non sa darsi pace. Grande costruzione delle atmosfere, decisamente necrofile, con un'ambientazione cimiteriale e un innegabile piglio macabro che fanno guadagnare punti a un soggetto altrimenti banale. Piace molto lo stile, con più di una strizzatina d'occhio a Poe, non solo scenografica (penso a Berenice) ma anche sul versante della caratterizzazione psicologica di un protagonista mentalmente malato. Per dichiarazione dell'autore, si tratta di una delle sue prime storie tanto da essere stato il secondo racconto che sia riuscito a vendere (sebbene poi la storia non sia mai stata pubblicata, poiché tutte le riviste che la compravano finivano col fallire prima).

Alcuni elementi ritornano nel racconto di Jack Ketchum e Patricia D. Cacek The Net (“La Rete”), che riprende l'idea della follia, nella fattispecie rappresentata dall'incapacità di gestire gli scatti d'ira di un protagonista che, non a caso, possiede un gatto che si chiama Cujo (come il cane idrofobo del famoso romanzo di King). Altri due elementi ritornanti sono (come nel racconto di King) la presenza di un aspirante scrittore che fa leggere una sua storia a colei che diventerà la sua vittima (ottenendo in questo caso elogi) e l'interrogatorio finale condotto dalla polizia che riuscirà a ottenere una confessione. Ketchum (e la collega) struttura la storia come un collage, fatto dalle email scambiate tra killer e vittima, dalle pagine di diario e dai verbali di interrogatorio, che consente agli inquirenti di ricostruire quanto avvenuto. Il tema è quello degli incontri amorosi in chat, dove le persone che si trincerano dietro ai nickname non sempre sono sincere. Un racconto molto scorrevole, che paga un epilogo un po' stanco e rivisto che si sviluppa e si chiude senza grandi colpi di scena (finale telefonato). Data la firma di Ketchum è un testo, pur se non banale (perché avvenimenti del genere succedono davvero nella vita di tutti i giorni), impersonale e dunque deludente.


Questi sei racconti oltre a costituire la metà dell'antologia ne rappresentano l'anima, essendo le storie aventi una matrice comune. Potremmo aggiungervi altri due racconti che, in modo diverso, trattano comunuqe un orrore di natura terrestre. Più assimilabile è The Novel of the Olocaust (“Il Racconto dell'Olocausto”) di Stewart O'Nan, una metafora sulla perdita di profondità della società quotidiana, incapace di valutare i contenuti facendo degli stessi, a prescindere dalla materia trattata, un'occasione di show e di spettacolo (la forma). Così un sopravvissuto alla shoah è chiamato a presentare il suo romanzo memorialistico all'interno di uno studio televisivo, tra balletti e ilarità, distorcendo la realtà storica per incontrare i favori del pubblico, così da rendere piacevole la più grande tragedia del novecento (e nel frattempo farci soldi). Interessante il messaggio di fondo, ma avulso dal genere. Drawn to the Flame (“Attratto dal Fuoco”) di Kevin Quigley è molto più di genere e commerciale ma, al tempo stesso, assai più banale e inflazionato. Dei ragazzini di dieci anni, contravvenendo agli ordini dei genitori, si recano presso uno speciale luna-park di cui hanno visto la pubblicità alla tv. Avvicinati da una sorta di pagliaccio, si ritroveranno rinchiusi all'interno di una casa abbandonata piena di insidie e popolata da falene. Azione allo stato puro, per quello che è il racconto più lungo dei dodici (cinquanta pagine scarse). Quingley trasmette su carta un suo incubo personale ovvero quello delle falene che provocano la morte penetrando negli orifizi. L'azione, l'immanenza del buio, il mistero dietro le porte da dischiudere, tra trappole, scale che crollano, e un villain, alquanto codardo, che scruta tutto dalle telecamere proferendo frasi in rima per influenzare le condotte dei ragazzini, sono gli ingredienti del testo. Soggetto ultra collaudato, che evoca certe storie di Patricia Highsmith. Intrattiene ma non scuote, peraltro infarcito di bug che non vengono risolti (come si spiega l'esistenza di una casa degli orrori infarcita di scheletri, peraltro pubblicizzata in tv, senza che nessuno la denunci alla polizia?).

Otto racconti, dunque, che rappresentano la parte meno interessante dell'antologia. Eccettuato l'elaborato di Poe e, in misura assai più ridotta, quello di Freeman, sono storie che faticano a farsi ricordare. King delude offrendo quello che, probabilmente, è il peggior racconto dell'antologia, pur se intriso di una comicità macabra che arriva dal mondo dei comics. Ketchum crea aspettative che non spiazzano, pur proponendo un personaggio che alterna momenti di grande partecipazione emotiva e di tristezza (per la morte del proprio gatto) a scatti d'ira che non si fermano neppure al cospetto di una ragazzina che, nella sua ingenuità, sogna l'amore della vita. Keene si orienta sul dramma umano ricordando certi racconti inseriti ne Il Bazar dei Brutti Sogni (2016) di King, storie (penso a Tuono Estivo) da cui è stato palesemente influenzato accantonando però il sense of wonder, i colpi di scena e il senso del fantastico che le contraddistingueva. Chizmar compie un ottimo esercizio di stile, proponendo un suicidio all'interno di un cimitero senza però costruire una trama solida. O'Nan prova la via alternativa e lo fa con un idea di fondo molto interessante non però sfruttata in modo accattivante. Quigley va sul sicuro, sacrificando l'originalità a beneficio dei dejà vù cinematografici.

L'antologia si salva per la sua parte minoritaria quella in cui entra il gioco la componente fantastica. Si tratta di quattro racconti molto diversi dal resto del lotto. Di questi, tre sono da considerarsi, a mio modesto modo di vedere, ai primi tre posti (tralasciando Poe) di un'ideale classifica dell'antologia.

Tra tutti spicca per costruzione, quadratura e chiaro omaggio kinghiano The Keeper's Companion (“Il Custode”) dello svedese John Lindqvist, scrittore noto anche in Italia per una serie di romanzi quali Lasciami Entrare (2006) e L'Estate dei Morti Viventi (2008). Non a caso, Lilja gli riserva l'onere di chiudere l'antologia che ha una costruzione qualitativa curiosamente in crescendo. Lindqvist confeziona un racconto medio-lungo che guarda a Lovecraft, al primo Robert Bloch e ai rituali di invocazione demoniaca. Il contesto è quello adolescenziale, tra bullismo, primi innamoramenti e superamento della pubertà. Un'impostazione che ricorda molto Christine, The Body e It con tanto di “perdente” che diviene dominante. Il finale a sorpresa attribuisce ulteriori punti in favore. Certo, non è un capolavoro, ma un discreto racconto che si sviluppa con i giusti tempi e delinea un malsano processo di formazione dall'infausto epilogo. Manca l'orrore angosciante che caratterizzava le storie di Lovecraft, ma l'omaggio al mondo dei giochi di ruolo (Il Richiamo di Cthulu) e ai vampiri stellari è più che gradito e piacerà ai puristi.


Non delude neppure Ramsey Campbell che offre una storia che ben rappresenta la sua capacità di destreggiarsi in contesti degradati e ammantati da atmosfere soprannaturali. The Companion (“Il Compagno”) è una malinconica storia sulla solitudine e sulla giovinezza sfumata per il naturale decorrere del tempo. Un uomo, in prossimità della pensione, si diletta a passare le vacanze visitando luna-park. Questa sua passione lo condurrà in uno strano luna-park frequentato da individui che gli ricordano la madre e il padre. L'uomo si muove all'interno dell'area come se si trovasse effettivamente in un contesto reale, sebbene alcuni aspetti suggeriscano al lettore la possibilità che si tratti di un incubo anticipatorio della morte. Il protagonista scambia infatti parole solo con un volto che gli parla da una cornice e compie giri sulle giostre. È un chiaro rimando alla perduta infanzia, un danzare che, attraverso la scoperta di un secondo luna-park, quello vecchio e abbandonato, porterà il protagonista a compiere un viaggio su un treno fantasma che lo proietterà, senza elettricità e senza comandi, in una casa degli orrori. Eccezionali l'atmosfera nonché i tratti cupi e ectoplasmatici che raggiungono l'apice all'epilogo. Si contende con Lindqvist il ruolo di miglior racconto.


Inferiore, a mio modesto modo di vedere, ma comunque impressionante Pidgin and Theresa del “folle” ed extreme Clive Barker. È forse l'unico dei dodici racconti a varcare i confini del proibito e del politicamente corretto. Dominano momenti surreali degni del miglior repertorio dell'autore a cui fa da contrappunto una scarsa chiarezza espositiva. La storia è confusa (ci sono bug), con degli inneschi e degli sviluppi che restano oscuri. Un benefattore viene condotto alla santità da un angelo poi costretto a rivedere la propria decisione e a ricacciare il suo protetto dal paradiso (posto tutt'altro che idilliaco), a seguito di certe dichiarazioni dello stesso. Nel frattempo gli animali domestici del protagonista, una tartaruga e un pappagallo, per effetto dell'apparizione angelica si sono trasformati in uomini che mantengono il loro gusto animale e vanno in giro per le vie vestiti in modo grottesco. Una controindicazione che l'angelo non può tollerare e a cui è chiamato a ovviare. Tra uomini che si riducono (stile film di Brian Yuzna) in montagne di escrementi e onde di fuoco che fluttuano su una Londra assai poco abituata ai miracoli, si arriva a un epilogo all'insegna del disgusto all'interno di una Chiesa. Spicca il sotto-testo blasfemo, ultra ironico e dissacrante, con una certa derisione delle intercessioni divine. Non certo un racconto top, eppure con un suo perché e una componente artistica (e blasfema) che non si dimentica e lo porta sul nostro ideale podio.


Piace meno Aeliana di Bev Vincent, una storia ben preparata e con un epilogo che ha un suo perché, ma che tuttavia non colpisce come dovrebbe per il suo riproporre la canonica domanda su chi siano i veri mostri. Vincent presenta una sorta di orrore licantropico dove il “mostro” non è il licantropo necrofago (peraltro rappresentato da una bimba mutaforma), ma il serial killer umano che scarica cadaveri nei quartieri malfamati della città. Molto buona la gestione delle scenografie degradate, il senso del ritmo e il taglio visionario di un autore di stampo cinematografico che mostra indubbie qualità di messa in scena. Sottolineatura marcata per il senso materno della poliziotta chiamata a condurre le indagini sugli omicidi del killer, con rimandi a Dracula (interconnessione mentale col licantropo e successiva richiesta di esser tramutati in creature immortali), ma poche altre innovazioni. Lo stesso autore confessa che il racconto, scartato dal relativo curatore, era stato confezionato per un'antologia tematica.

 La versione italiana.

Copertina realizzata dall'ottimo Vincent Chong.

 RECENSIONE GENERALE E CONCLUSIONE

Shining in the Dark è un'antologia che sarebbe dovuta andare esaurita nel giro di un anno. Pubblicato in appena 800 copie, è un volume che tutti i completisti di Stephen King (e Clive Barker) dovrebbero recuperare. Lilja ha infatti dotato il suo progetto di ben due forze trainanti, rappresentate dai due autori più venduti sul mercato horror. Ciò nonostante, in circa cinque anni, sono state vendute appena 550 copie, tanto che all'inizio del sesto anno dalla pubblicazione è ancora possibile acquistare copie numerate sul sito della Independent Legions. Una situazione questa che scoraggia tutti gli scrittori interessati al genere, parlo di quelli italiani, perché la dice lunga su quale sia il ristretto mercato di riferimento e quanti siano i lettori veramente interessati alla materia. Al di là delle opinioni sul contenuto, il volume della Independent Legions propone il gotha del settore. Vedere dunque ancora disponibile Shining in the Dark, personalmente, mi genera un profondo sconforto.

Premesso quanto sopra, possiamo definire Shining in the Dark un'antologia horror adatta a tutti gli appassionati, non troppo orientata sul versante truculento. Non risulta forse riuscitissima l'intenzione di omaggiare Stephen King, tanto che giusto un paio di storie si possono definire kinghiane (Lindqvist e Keene). Il livello qualitativo dei racconti non è eccellente quanto lo sono gli stili, la fruibilità e la scorrevolezza dei racconti. Resta comunque un'antologia da collezione, che sa intrattenere e regalare buone atmosfere. Edgar Allan Poe a parte (capolavoro, ma lo conoscevamo), tre sono i racconti, a mio modo di vedere, veramente buoni. Parlo degli scritti di Lindqvist (per la costruzione), Campbell (per l'atmosfera) e Barker (per la capacità di rompere gli schemi tradizionali). Dietro questi vi è l'elaborato di Freeman, che non colpisce per la storia narrata quanto piuttosto per come è stata proposta (decisivo il finale, il migliore dell'antologia). Si aggirano sulla sufficienza molti degli altri, soprattutto Chizmar e Vincent (per le atmosfere), Quigley (per l'intrattenimento) e Ketchum (per le aspettative poi disattese). Lasciano perplessi, non che siano brutte storie, Keene e O'Nan che interpretano, nell'occasione, l'orrore (che c'è) da un punto di vista realistico senza alcuna concessione al genere. Delude anche King, inutile girarci intorno, con una storia dimenticata e rispolverata su pressione reiterata (probabilmente) del curatore. Un racconto che incarna lo spirito dei comics horror degli anni sessanta, portandosi avanti con furbizia e tentativi sperimentali che trovano la loro ragion d'essere in virtù di un soggetto molto debole tutto giocato sulle prospettive di veduta e sulla frase “non mi hai fatto grassa a sufficienza”. 

Vale l'acquisto? Si. 

 

 
Il curatore Hans-Ake Lilja
in vena di Revival.
 
"Qualunque autore vi dica che non ha mai plagiato qualcun altro è un bugiardo. Un bravo scrittore parte con brutte idee e cose improbabili, e le modella fino a renderle metafore viventi della condizione umana."

lunedì 25 dicembre 2023

Recensione Narrativa: TROFEO di Emanuela Cocco.

Autore: Emanuela Cocco.
Anno: 2023.
Genere: Horror / Serial Killer.
Editore: Zona 42.
Pagine: 88.
Prezzo: 9,40 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.  

Esercizio di stile a firma Emanuela Cocco che propone, da un punto di vista originale quanto inverosimile e dunque fantastico, la follia di uno stupratore e assassino seriale (a cui piace penetrare le bocche), puntando tutto sulla sfera emotiva e morbosa della vicenda. Un proposito dunque sperimentale e ardito, parzialmente riuscito grazie a un background di esperienze non proprio secondario. Narratrice completa, capace di destreggiarsi in ogni forma di scrittura (ha collaborato, tra gli altri, alla stesura di sceneggiati tv andati in onda sulle reti Mediaset), tanto da ricevere incarichi di docente e relatrice, l'autrice filtra gli accadimenti criminosi dalla prospettiva (immaginifica) di una gonna e di una serie di altri trofei che il killer ha sottratto alle sue vittime per protrarre nel tempo le fantasie perverse che ha sperimentato. Niente di nuovo, dunque, nei contenuti, se non fosse per il punto di vista decisamente bizzarro e per uno stile narrativo a tratti lirico e lezioso. La Cocco dimostra di possedere un'invidiabile tecnica e una grande proprietà di linguaggio ma, al tempo stesso, tende a cadere in un ridonante bombardamento di medesimi concetti che vedono una gonna, una ciocca di capelli e un gingillo relazionarsi tra loro come fossero personaggi di un cartone animato a tinte macabre (non me ne volete).

Pur brillante da un punto di vista di costruzione dei periodi e coraggioso nelle scelte adottate, Trofeo è una novella che, alla lunga, tende ad annoiare (quantomeno ha annoiato questo recensore) per una componente stilistica nettamente preponderante rispetto ai contenuti. In altre parole si ha la sensazione di leggere una storia intrisa di uno stile autocelebrativo che poco aggiunge, se non cercare di penetrare nella follia di una mente che non si discosta dai prototipi presentati nei manuali di criminologia. Non so se sia un caso, ma si percepisce qualche rimando alla storia di Ed Kemper, sia per la fissazione per le teste sia per come vengono sotterrate nell'area attigua alla casa (le teste guardano la casa).

Le controindicazioni del progetto si amplificano per la prospettiva di sviluppo che piega ogni verosimiglianza, chiedendo al lettore di scendere a patti sospendendo le normali logiche di funzionamento del mondo per immergersi nella vicenda narrata. Così ecco che una gonna stralciata, intrisa di sangue, terra e sperma, diviene capace di provare sentimenti, di ricordare quando è stata acquistata e, grazie all'assorbimento del sangue di chi l'ha indossata, addirittura acquisire la memoria della vittima (!?). Insomma, come capite, c'è molta poetica dietro a tale gestione della storia. Su tale base si sviluppa un soggetto che propone la follia di un uomo mostrato nell'atto di compiere brutalità, peraltro non filtrate da quella sensibilità che di solito accompagna i racconti delle scrittrici. Quando arrivano i momenti delle torture e degli omicidi, la Cocco diviene volutamente brutale e priva di filtri. Il registro linguistico lezioso e assai curato lascia spazio a termini rozzi e volgari (a modesto avviso di questo recensore) determinando un netto contrasto tipico di certi sottogeneri narrativi (penso all'hardcore horror o all'hard-boiled contemporaneo). Alla fine ne esce fuori una novella che tratta questioni commerciali in modo anti-commerciale, cercando un'innovazione alquanto discutibile e spesso criticata nelle scuole di scrittura ovvero animare ciò che non può essere animato. In Trofeo tutto quanto entra in relazione con gli uomini diviene entità umanizzata capace di sentimenti, opinioni e persino di comunicare con i propri simili. Ingredienti che potranno entusiasmare qualche addetto ai lavori e più di un critico, ma che assai difficilmente potranno far presa sul grande pubblico (pensate a un romanzo scritto da una medesima prospettiva). Per onestà intellettuale, giova sottolineare come la novella sia stata accolta con entusiasmo e grandi lodi dall'iniziale pubblico di lettori. Consigliata a chi voglia rompere con le storie convenzionali. A ogni modo, disturbante.

 
L'autrice Emanuela Cocco.

domenica 24 dicembre 2023

Recensione Saggi: MONSTER MASTERS di Alessandro Manzetti.

Autore: Alessandro Manzetti.
Anno: 2015.
Genere:  Interviste / Antologia Horror.
Editore: Cut-Up.
Pagine: 360.
Prezzo: 16.00 euro (Serie Limitata di 199 copie).

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Primo degli attuali quattro saggi pubblicati da Alessandro Manzetti, Monster Masters ovvero “Padroni di Mostri” è prevalentemente una raccolta di interviste ai grandi maestri del genere che porta con sé le stigmate dell'opera saggistica successiva del suo autore. Fin da questa prima opera, pubblicata da Cut-Up nel 2015, saltano agli occhi tutte le caratteristiche tipiche dei volumi di Alessandro Manzetti nell'ambito del suo impegno divulgativo relativo alla narrativa horror. Interviste (circa una trentina), quattro racconti per la prima volta pubblicati in italiano, classifiche (nella fattispecie dei 66 migliori libri horror mai scritti), estratti da altri testi (proposto un intero capitolo del saggio Le Opere Fantasma di Stephen King scritto da Rocky Wood) e soprattutto un approccio internazionale alla materia. A differenza di tutti gli altri divulgatori presenti sul mercato editoriale italiano, Manzetti, fin da questo volume (farà altrettanto con i successivi Guida ai 150 Migliori Libri Horror, Squisite Diavolerie e Horror Guru), tratta gli argomenti con un'apertura totale sul genere, poco interessandosi del fatto che gli autori e i libri citati siano stati o meno distribuiti in Italia. Il punto di riferimento è la narrativa del terrore anglo-americana. Ne esce fuori un libro, per l'epoca della pubblicazione, innovativo e mai letto fino ad allora che segnerà le coordinate per la nascitura Molotov, rivista periodica della Independent Legions Publishing che avrebbe visto la sua prima uscita nel giugno del 2020.

Il pezzo forte del volume, che come abbiamo premesso è molto variegato, sono le interviste realizzate dallo stesso Manzetti (ne ritroveremo altre nel successivo Horror Guru). Concepite in due format distinti, uno dei quali identico per tutti gli intervistati e l'altro personalizzato e incentrato sulla produzione specifica dello scrittore di volta in volta incontrato, vediamo sfilare nomi luminari quali Ramsey Campbell, Joe Lansdale, Peter Straub, Graham Masterton, Brian Keene e Jack Ketchum a cui si associano emergenti e altri nomi non noti sul mercato italiano, ma comunque mattatori ai Bram Stoker Awards. Ne esce fuori un materiale molto ghiotto per i super appassionati del genere che troveranno chicche che faranno al caso loro, con indicazione di trame, aneddoti, spunti memorialistici, consigli e curiosità.

Non meno interessante, ma già pubblicato altrove, il capitolo sulla narrativa fantasma di Stephen King. Una rassegna discorsiva dei titoli dei racconti e/o dei romanzi che non hanno mai visto la luce, con tanto di indicazione della trama o degli elementi essenziali che erano alla base degli stessi.


Discorso a parte per i quattro racconti, tutti introdotti da un'elaborata analisi di Manzetti (solitamente assai più conciso), che occupano centosedici delle trecentosessanta pagine totali, quindi poco meno di un terzo del libro. Si tratta di racconti inediti di pregevole fattura, sebbene almeno tre di essi siano fortemente derivativi. Spicca soprattutto The Voice of the Beach (“La Voce della Spiaggia”, 1982) di Ramsey Campbell. Più autoriale e contorto degli altri tre racconti, riesce a evocare un orrore onirico di presa cosmica che sfrutta la capacità di Campbell di generare un malatissimo sense of wonder. Ambientato ai margini di una spiaggia su cui nessuno sembra voler mettere piede e su cui si manifestano strane ombre, viene sviluppato lentamente in vista di un orrore che è prettamente allusivo e sfumato dagli stati d'alterazione dei due protagonisti. Fortissima la componente lovecraftiana, sebbene Campbell decida di seguire la strada psicologica piuttosto che una concreta ed esplicita. Tutto giostra sull'attesa della materializzazione di un essere che si identifica nella spiaggia stessa. Fondamentali le descrizioni ambientali.


Gli altri tre racconti si rivelano meno autoriali e, al contempo, meno originali. Graham Masterton, col criticatissimo Eric the Pie (“Sei Quello che Mangi”, 1991), sviluppa un soggetto che sembra esser stato ispirato dalla vicenda di Renfield, personaggio all'apparenza marginale del Dracula di Bram Stoker. Seguiamo infatti le vicende di un ragazzino, che poi diventerà adulto, ossessionato dalla frase della madre “sei quello che mangi” al punto da diventare uno zoofago alla stessa maniera del Renfield del citato romanzo. Testo brutale ed eccessivo (ci sono violenze, persino uno stupro, a danno di animali che si sarebbero potute omettere), antesignano dell'attuale hardcore horror. Un racconto salito agli onori delle cronache per esser costato all'epoca della sua uscita il ritiro di tutti i numeri della rivista su cui era stato pubblicato per oltraggio e oscenità.


Richard Laymon con Into the Pit (“Nella Fossa”, 1999), forse il meno interessante per contenuti (non certo per stile evocativo), va sul sicuro proponendo un racconto in terra di Egitto che tratta, in un certo senso, la tematica del sepolto vivo. Un giovane studioso viene infatti gettato in un pozzo dal padre di due sensuali gemelle, che lo hanno adescato con i loro giochi erotici, e sepolto in compagnia di una serie di scheletri in diverso grado di decomposizione. Il buio, squarciato da capi di vestiario incendiati col ricorso di fiammiferi, la disperazione e la presenza delle spoglie mortali di altri soggetti finiti nelle grinfie del killer porteranno il protagonista a delirare fino a sentirsi artigliare dagli scheletri stessi. Il lettore resta col dubbio che quanto descritto sia davvero accaduto o sia frutto della perdita di senno del protagonista.


Più elaborato, ma comunque non del tutto originale, We Now Pause for Station Identification (“Radio Zombie”, 2005) di Gary Braunbeck, che propone un'apocalisse zombi filtrata dalla trasmissione radiofonica di un cronista rimasto isolato in un palazzo. Braunbeck dichiara di essersi ispirato a Brian Keene (“The Rising”), ma in realtà deve molto a Tigh Little Stitches in a Dead Man's Back (“Piccoli Punti Stretti nella Schiena di un Morto”, 1986) di Joe Lansdale, da cui arriva l'idea del morto vivente da cui germoglia una vegetazione aliena pronta a conquistare il mondo. Punto di forza del testo, che ha il merito (non da poco) di anticipare L'Estate dei Morti Viventi (2008) dello svedese John A. Lindqvist, è l'idea di giostrare il tema facendo tornare i morti viventi presso le loro abitazioni e i loro cari. Braunbeck riprende da Romero l'idea del pensiero radicato nella mente dei ritornanti (nel film caratterizzato dal desiderio di comprare), rendendolo tuttavia cosciente e liberando gli zombi dall'impulso di cibarsi di carne umana. Un novità, quest'ultima, che non scongiurerà la piaga epidemica (chi tocca gli zombi vede marcire i propri arti). Non di secondaria importanza sono i risvolti filosofici, ripresi in seguito anche da Simon Clark (“Quando Giaci Urlando nella Tomba”), autore famoso soprattutto per La Notte dei Trifidi (incentrato su una vegetazione aggressiva che cerca di conquistare il mondo), in base ai quali il ritorno dei morti viventi dimostrerebbe l'inesistenza del paradiso (e del diavolo) in quanto l'anima dei deceduti è rimasta imprigionata nelle tombe insieme agli stessi, togliendo di fatto di senso all'esistenza. Aspetti che elevano di qualità il racconto, facendo di esso un punto di riferimento per altri autori.


Monster Masters diviene così un'ottima occasione per fare la conoscenza con gli autori del genere horror contemporaneo, cercando di guardare al di là del sipario e apprendendo cosa si nasconda dietro la genesi di un testo. È inoltre un'occasione per conoscere un mondo non ancora sufficientemente divulgato in Italia. Grazie ai suoi legami con gli Stati Uniti, Manzetti presenta ai lettori, attraverso la voce diretta dei singoli scrittori, nomi non sempre conosciuti al grande pubblico delle nostre latitudini. Il capitolo sulle opere fantasma di Stephen King e i quattro racconti inediti costituiscono quel quid che certo non guasta. Probabilmente, Monster Masters è il volume più riuscito dei quattro saggi di Manzetti. Sontuose la veste grafica e le illustrazioni di Vincent Chong (personalmente più commerciali e apprezzabili di quelle più astratte di Cardoselli). Consigliato agli studiosi del genere e a chi non si accontenta della lettura dei racconti, ma vuol conoscere il dietro le quinte dei medesimi.

lunedì 18 dicembre 2023

Recensione Narrativa: IL RE DEI BASTARDI di Brian Keene & Steven L. Shrewsbury.

Autore: Brian Keene & Steven L. Shrewsbury.
Titolo Originale: King of the Bastards.
Anno: 2015.
Genere: Sword & Sorcery.
Editore: Lettere Elettriche (2022).
Pagine: 211.
Prezzo: 5.90 euro (kindle).

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Romanzo breve scritto a quattro mani dal prolifico Brian Keene, apprezzato in Italia soprattutto per gli horror legati alla serie zombie The Rising e alla lovecraftiana saga de I Vermi Conquistatori, e dall'assai meno conosciuto Steven L. Shrewsbury, un vero e proprio specialista di dark fantasy, extreme horror e weird western. King of the Bastards, importato in Italia nel 2022 dalle Lettere Elettriche con la supervisione di Cristiano Saccoccia, appartiene più al mondo di Shrewsbury che a quello di Keene. Scritto nel 2015 per la Apex Publications (medesimo editore della saga, inedita in italiano, di Keene intitolata The Lost Level), è l'episodio pilota delle avventure dell'ex Re di Albion Rogan, un eroe antidiluviano che si ispira chiaramente al Conan di Robert Ervin Howard. Al momento sono tre i romanzi della serie, proseguita da Throne of the Bastards (2017) e Curse of the Bastards (2022). Non a caso la struttura del romanzo è episodica e si presenta, un po' come avviene in The Scarlet Plague (“La Peste Scarlatta”) di Jack London, nella forma di un racconto narrato da un padre ai figli che, in un mondo dai tratti apocalittici (Keene strizza velatamente l'occhio alla sua serie de I Vermi), scopriranno di essere i nipotini proprio dell'eroe della storia. Il plot è molto semplice e propone per protagonista un guerriero barbaro ormai di età avanzata, ma ancora virile e duro da uccidere. A differenza di altri personaggi, penso anche al Kane di Karl E. Wagner, viene meno l'aura mitologica ed epica, a favore di caratterizzazioni tipiche di un vero e proprio tamarro, che non disdegna la battuta volgare e il dileggio degli avversari. Avaro di sentimenti, è un soggetto in apparenza egoista (in realtà tiene alla famiglia) al punto da rinnegare il sentimento dell'amore. Interrogato dalle varie amanti che bramano di saltargli addosso per misurarne il vigore erotico (cosa che puntualmente finirà col sorprenderle), rifugge da qualsiasi sentimentalismo in favore di un approccio materialista (non a caso disdegna anche i maghi) sostenendo che per lui l'amore è un tallone di Achille da cui ogni uomo di valore farebbe bene a liberarsi, così da non essere costretto a subire ritorsioni di sorta.

Eloquente, per tratteggiarne il profilo, come si presenti a chi ancora non sa chi sia. “Io sono Rogan. Il mio nome significa Maledetto Bastardo con un'erezione perenne. Questo è Javan, e il suo nome significa servo di un bastardo coperto di sangue con il cazzo duro.” Ecco il tono dei dialoghi del personaggio che, curiosamente, viene inserito in un contesto più classicheggiante. I due autori sembrano infatti volersi inserire nell'alveo dello sword & sorcery ma, al contempo, di volerlo parodiare introducendo un villain proveniente dal futuro (viaggia per mezzo di una sorta di macchina del tempo) e un eroe che, tanto per intenderci, ha tratti dell'Attila di Castellano & Pipolo. Stanco della vita di palazzo, Rogan ha abdicato il trono di Albion in favore del figlio per poter così andarsene in giro in cerca di avventure. La prima particolarità che salta agli occhi è la sua età avanzata. E' un sessantenne che si definisce “un vecchio che cerca di ritrovare se stesso da giovane.” L'attrazione per lo spasso e la convinzione di aver lasciato il proprio regno in mani sicure hanno un ruolo centrale nella vicenda. Dapprima alle prese con piovre giganti e poi con una banda di pirati africani che gli sterminano l'intero equipaggio lasciando il nostro nella sola compagnia del nipote, Rogan apprende che uno dei suoi tanti figli illegittimi, di origini africane, ha assaltato Albion violando le donne locali e massacrando coloro che non si sono chinati al suo cospetto. Ha così inizio un'odissea totalmente virata al pulp e all'eccesso, quasi tutta ambientata su un'isola (forte compressione delle ambientazioni). I propositi di tornare indietro del nostro, infatti, cozzano con i danni subiti dall'imbarcazione. Naufragato su un'isola popolata da una tribù di combattenti soggiogati da un mago e da una divinità pagana, Rogan si trova costretto a prestare il proprio aiuto agli indigeni così da ottenere dagli stessi l'impegno a riparargli il veliero. Prende così piede la scalata a una montagna sacra sul cui vertice avranno luogo una serie di combattimenti tra amazzoni, zombi (menzionato anche Damballah), mostri antropomorfi, creature ectoplasmatiche, uomini scimmia, satiri, divinità, uccelli leggendari, orsi, tigri dai denti a sciabola e chi più ne ha più ne metta, con Rogan che metterà a frutto la sua conoscenza dell'acciaio (sconosciuto ai locali) finendo addirittura per sparare con un fucile a pompa recuperato da uno dei tanti guerrieri collezionati sotto formaldeide dal villain (!?).

Keene e Shrewsbury optano per uno stile tutt'altro che aulico. Le descrizioni non mirano al sense of wonder, ma sono essenziali e strumentali a introdurre gli scontri e l'azione. Il lirismo è accantonato a favore di un lessico da hard boiled, con tanto di pupe e antieroe. Ampio spazio è dedicato agli scontri fisici e alle varie mosse dei personaggi. Colpi di spada, frecce scoccate, amputazioni, crani spaccati, calci volanti, oggetti scagliati contro l'avversario e persino la presa dei testicoli e del pene oscillante di una divinità pagana materializzatasi al cospetto del protagonista. A colpire l'attenzione del lettore è soprattutto il tentativo da parte degli autori di ammodernare il genere non tanto dal punto di vista dei contenuti, ma nello stile e nei dialoghi. Keene e Shrewsbury dissacrano, se vogliamo, il genere. Non so se vi sia stato un qualche ruolo del traduttore oppure se il lessico utilizzato sia quello degli autori, ciò che si percepisce è la sensazione di un qualcosa di avulso dai toni del sword & sorcery classico. Rogan, infatti, si esprime da coatto di Trastevere (mi viene in mente la colonna sonora di un poliziesco di Tomas Milian intitolata E nun ce Vojo Stà di Alberto Griso) e lo fa senza che coloro che ha intorno facciano una piega. “Puoi chiamarmi guardiano” gli dice una sorta di sciamano a cui lui risponde “Si, e io porto il marchio di Caino sul culo!

In un altro passaggio, dopo aver sentito come il capo tribù renda omaggio agli avversari caduti, Rogan risponde: “Sai cosa faccio io con lo stomaco dei miei nemici? Li apro e mi accovaccio sopra di loro. Poi ci cago dentro.” O ancora espressioni come: “Muoviamoci, ne ho le palle piene di questo villaggio.” La ragione di fondo è quella di voler rendere simpatico il personaggio, in realtà pomposo come pochi altri, tuttavia, a mio modesto avviso, tale scelta banalizza la storia rodendo l'epicità che dovrebbe contraddistinguerla per portarla dalle parti della farsa. D'altro canto non manca l'azione, pressoché onnipresente, con un frullatone di contenuti che rendono molto alta la componente grandguignolesca e orrorifica. Rogan è truce, brutale, privo di emozioni (se non per i parenti più prossimi). Arriva a prendere a morsi il cuore di uno sfidante che non credeva nelle sue abilità. Quando il nipote, che lo segue come uno scudiero e che è abile a scoccare dardi con l'arco, gli chiede se sia amaro, lui gli risponde che avrebbe bisogno di essere speziato (!?).

 
 
Copertina originale.

Siamo comunque lontani dall'extreme horror e, al tempo stesso, dalla tradizione dark fantasy. Premesso questo non mancano omaggi al weird. Sia Lovecraft (citato Dagon) che Lord Dunsany vengono ricordati dall'idea di un Dio che ha distrutto un universo precedente rispetto all'attuale non riuscendo a eliminare alcune divinità originali che ora possono interferire, da un altrove, con le vicende umane. Queste ultime sono i cosiddetti “Tredici”, tra i quali Croatoan contro il quale dovrà misurarsi Rogan. Tra i momenti apicali del romanzo vi è il rituale attraverso il quale gli sciamani entrano in relazione col mondo degli spiriti. Li vediamo infatti farsi elevare per mezzo di catene conficcate sul petto, per mezzo di uncini infilzati nella carne, in modo da restare sospesi a mezz'aria. Gli autori omaggiano per tale via pellicole estreme come Ichi The Killer (2001) di Takashi Miike e, prima ancora, The Cell (2000) dell'indiano Tarsem Singh dove, un po' come avverrà per lo sciamano del romanzo, la protagonista entrerà nella testa degli altri al fine di fermare l'antagonista di turno.


Il Re dei Bastardi è dunque un sword & sorcery addolcito dalla black comedy e dal weird delle origini. Un mix di generi che piacerà agli appassionati del pulp, soprattutto per effetto di dialoghi e di un protagonista che richiamano il mondo degli hard boiled, ma che rischia di indisporre i puristi. Lo stile manca di “magia”, non è in grado di evocare atmosfere affascinanti o inquietanti. I momenti soprannaturali sono molteplici, tuttavia vengono esorcizzati piuttosto che esaltati. Tutto è orientato a dissacrare l'epicità e al tempo stesso a tenere alta l'azione portando in scena tutto quanto si possa immaginare e persino oltre. Chi potrebbe mai concepire un fucile a pompa in epoca antidiluviana? Ecco, Keene e Shrewsbury sono quell'uno per cento del sondaggio.

 

I due autori. Keene a sinistra, Shrewsbury a destra.

Annegheremo tutti in un diluvio quando gli dei decideranno di lavare la macchia malvagia che è la magia dalla terra.”