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sabato 30 dicembre 2023

Recensione Narrativa: SHINING IN THE DARK a cura di Hans-Ake Lilja.

Autore: AA.VV.
Curatore: Hans-Ake Lilja
Anno: 2017.
Genere:  Antologia Horror.
Editore: Independent Legions (2018).
Pagine: 200.
Prezzo: 25.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

PRESENTAZIONE

Antologia commemorativa curata dallo svedese Hans-Ake Lilja in occasione del ventennale dalla creazione del sito internet Lilja's Library – The World of Stephen King dallo stesso diretto.

Il volume esce nel 2017 per giungere l'anno successivo in Italia, grazie alla Independent Legions Publishing che acquista i diritti di distribuzione per una tiratura limitata a 800 copie. A prescindere dai contenuti, il progetto conquista fin da subito l'aura del volume da collezione. Lilja riesce infatti a ottenere da Stephen King e da Clive Barker la possibilità di proporre due loro racconti (inediti in italiano) non inseriti nelle antologie che ne hanno cadenzato la carriera. Ecco così uscire un'antologia imperdibile per i completisti dei due autori. Lilja non si “limita” a questo, ma coinvolge nel progetto altri numi tutelari del genere horror. Aderiscono infatti alla proposta, tra gli altri, Richard Chizmar, coautore di alcuni romanzi firmati a quattro mani con Stephen King (trilogia di Gwendy iniziata da La Scatola dei Bottoni di Gwendy) nonché curatore della serie antologica Shivers (trovate uno di questi volumi in italiano sul catalogo Cut-Up), il decano Ramsey Campbell, il principale autore di romanzi del terrore svedese John Lindqvist, Jack Ketchum, colui che ha rivitalizzato il filone zombie Brian Keene (autore tra gli altri di The Rising e I Vermi Conquistatori) e persino Edgar Allan Poe. A questo gruppo titolatissimo si aggiunge un poker di scrittori meno noti, tra i quali Brian James Freeman che, oltre ad aver pubblicato con la sua casa editrice (Lonely Road Books) alcuni volumi in serie limitata di Stephen King, ha aiutato il curatore nell'acquisizione dei diritti dei racconti scelti. Tredici autori per dodici racconti (uno dei quali scritto a quattro mani). Ne esce fuori una miscela che dovrebbe esser esplosiva con attese altissime per il pubblico di appassionati. Appunto, dovrebbe...


RECENSIONE PARTICOLARE (OCCHIO SPOILER), A SEGUIRE LA GENERALE

Shining in the Dark è un'antologia non unita da un forte collante, oscillando tra horror soprannaturale, omicidi e dramma del comune vivere. Lilja la costruisce secondo vie variegate. Chiede testi già scritti ma spariti nel nulla, è il caso di King e di Barker, spinge altri a rielaborare idee maturate in passato (Campbell), propone inediti che per motivi vari non sono mai usciti altrove (Chizmar), aggiunge un classico di Edgar Allan Poe - in quanto il relativo racconto è stato rimodulato dall'elaborato di King - e chiede ad altri di scrivere qualcosa di apposito per l'antologia (Lindqvist, Ketchum e Freeman). Ne viene fuori un lotto disomogeneo per generi, stili e tipologia di orrore, ma con curiosi rimandi limitati a singoli gruppi di storie. Così abbiamo il tema dell'omicidio commesso (per moventi diversi e con esiti diversi) da un uomo che si insinua nella privata dimora della vittima (Poe, King, Freeman, Ketchum e, in parte, Chizmar), quello del luna-park che offre spettacoli insidiosi per i clienti siano essi anziani o bambini (Campbell e Quingley), i drammi umani vissuti per separazioni dovute a un evento mortale mai superato dal protagonista (Keene e Chizmar) o per un male di vivere determinato dalla sofferenza (Freeman e in parte O'Nan), quello degli urban fantasy incentrati su quartieri malfamati dei centri urbani interessati da situazioni ben al di la' dei confini della realtà (Barker e Vincent). Completano il lotto un omaggio ai giochi di ruolo lovecraftiani (Lindqvist) e un racconto di critica sociale piuttosto originale nei contenuti (O'Nan).

Tutto parte, nella costruzione del volume, dal racconto The Blue Air Compressor (“Il Compressore ad Aria Blu”) di Stephen King, una storia metaletteraria di cattivo gusto pubblicata nel 1971 su una rivista universitaria del Maine e successivamente riproposta, sembra dopo alcune revisioni, nel 1981 sulla rivista Heavy Metal. Il fatto che non si tratti di un racconto antologizzato nelle raccolte ufficiali del “Re” la dice lunga sulla qualità del testo, di certo non tra i migliori dell'autore (Rocky Wood, nel volume Le Opere Segrete del Re, lo definisce una storia “pretenziosa, dichiaratamente derivativa e per nulla rappresentativa dello stile di King”). Il soggetto ruota attorno a un brutale omicidio, messo in atto da uno scrittore ai danni della padrona di casa. Infastidito dall'ilarità con la quale la donna ne schernisce le abilità ribaltando il proposito iniziale di dileggio dello scrittore (che gioca sull'obesita' della donna), l'uomo la stordisce con un bastone per poi ucciderla collocandole in bocca un tubo di un compressore, cosi' da dimostrarle, contrariametne da quanto lei affermato, di averla fatta grassa come nessun altro potrebbe fare. La parte finale, con l'attività di occultamento del cadavere e l'intervento della polizia, guarda con toni beffardi sia al racconto The Tell-Tale Heart (“Il Cuore Rivelatore”) di Edgar Allan Poe sia alla psicanalisi di Sigmund Freud, entrambi chiaramente citati e messi in ridicolo. L'epilogo sulla carta a vantaggio del killer viene tuttavia riprestinato da un infausto destino che culmina col suicidio del protagonista (dovuto, in parte, all'incapacità dello stesso di diventare uno scrittore di successo) a dimostrazione che lo stesso abbia effettivamente perso la testa. Da segnalare i curiosi interventi nella storia di Stephen King che interrompe la narrazione rivolgendosi direttamente e a proprio nome al lettore (una soluzione che decenni dopo sarà ripresa dal film austriaco Funny Games), presentando commenti e osservazioni sul soggetto e sulle fonti di ispirazione (fumetto della E.C.). Un testo sperimentale e metaletterario che sembra uscito a fini didattici nel corso di un laboratorio di scrittura. Pur se debole nell'intreccio, è una primizia per i cultori dello scrittore che solo qua possono recuperare il racconto.

Lilja parte da questo testo per costruire un'antologia che poi, improvvisamente, si distaccherà dalla genetica iniziale incentrata su un orrore prettamente terreno. Il curatore decide infatti di riproporre il pluri-antolocizzato The Tell-Tale Heart (“Il Cuore Rivelatore”, 1843). Si tratta di una decisione che sembra voler ricordare il racconto a chi non lo dovesse aver mai letto. Il testo di Poe (tradotto da Elisabetta Colombo) è nettamente il migliore dell'antologia, riuscendo ad annichilire gli altri, a dimostrazione di una freschezza e di una modernità non intaccata dal decorrere dei secoli. Un distillato di tensione e angoscia, che sonda la follia criminale facendo emergere un senso di colpa che la mente non riesce a gestire, forse perché consumata da un substrato etico che ne corrode i nervi e determina percezioni allucinate. Un capolavoro assoluto incluso nel progetto col ruolo di bonus track. La storia vede un assassino, in veste di narratore, raccontare l'omicidio che lo ha portato all'arresto, al fine di dimostrare la propria sanità mentale e di dimostrare, in contemporanea, l'interferenza di un qualcosa di diabolico che caratterizzava la vittima, a lungo spiata mentre dormiva nella propria camera. Un mistero ultraterreno che ha indotto l'uomo a confessare i misfatti, martellato da un battere di cuore che non aveva possibilità di manifestarsi viste le modalità di smaltimento del cadavere. Su tali coordinate, oltre King, si muovono Brian James Freeman, Jack Ketchum (e P.D. Cacek) e, in parte, Brian Keene e soprattutto Richard Chizmar.

Il racconto di Freeman, L'Amore di una Madre (che il curatore si dimentica di inserire nella pagina dedicata ai titoli originali), è un giallo con colpo di scena finale, costruito in verità in modo un po' truffaldino dall'autore (o dal traduttore) attraverso l'utilizzo di una serie di pronomi che fuorviano il lettore. Testo semplice (nato dalla domanda: "a cosa porta l'amore di un figlio per una madre?"), gestito con maestria al fine di indurre il lettore a pensare che il killer stia agendo per un certo fine, scoprendo poi all'epilogo di aver interpretato male i fatti indicati in premessa. Al centro vi è la necessità di un figlio di alleviare i dolori di una madre consumata dal cancro e bisognosa di cure e del sostegno di una clinica specializzata che, tuttavia, non dispone di posti letto per ospitarla. Niente di eccezionale, ma magistrale esercizio di stile. Nella sua semplicità, è tra i racconti più riusciti del lotto.

Chizmar e Keene, per diverse vie, rappresentano l'impossibilità dei relativi protagonisti di continuare a vivere a causa del senso di colpa che li consuma. Se ne il testo di Poe il senso di colpa va a braccetto con una crisi di nervi e un'alterazione psico-fisica del killer, in questi due racconti è qualcosa di molto più profondo a generare tormento. Keene, solitamente commerciale, affonda nella sfera emotiva, con un racconto struggente (peraltro inserito anche nell'antologia I Figli del Buio della Independent Legions). Il suo An End to All Things (“La Fine di Ogni Cosa”, 2016) parla di un padre di famiglia che, ogni mattina, si affaccia sul lago che si distende davanti alla sua abitazione, in attesa di un evento catastrofico che ponga fine all'umanità. La morte del figlio e il suicidio della moglie, infatti, gli hanno tolto ogni prospettiva esistenziale, soprattutto perché l'uomo incolpa sé stesso di quanto avvenuto (una distrazione fatale). Una storia lontana dalla letteratura dell'orrore, che converge verso contenuti altamente drammatici, dimenticando per una volta le incurisoni nel pulp politicamente scorretto e iperbolico che caratterizzano la narrativa di Keene. Un testo che colpisce le corde emotive, ma che certo non ci si attenderebbe di leggere in un'antologia horror. Atmosfere molto più dark con Chizmar, dove si mutua la volontà del protagonista di porre termine alla propria vita per la morte di un proprio caro. Questa volta dietro al gesto si cela un omicidio avvenuto quindici anni prima. Cemetery Dance parla infatti del suicidio di un uomo che ha perduto la donna di cui era innamorato a termine, probabilmente, di uno stupro mai scoperto e di cui non sa darsi pace. Grande costruzione delle atmosfere, decisamente necrofile, con un'ambientazione cimiteriale e un innegabile piglio macabro che fanno guadagnare punti a un soggetto altrimenti banale. Piace molto lo stile, con più di una strizzatina d'occhio a Poe, non solo scenografica (penso a Berenice) ma anche sul versante della caratterizzazione psicologica di un protagonista mentalmente malato. Per dichiarazione dell'autore, si tratta di una delle sue prime storie tanto da essere stato il secondo racconto che sia riuscito a vendere (sebbene poi la storia non sia mai stata pubblicata, poiché tutte le riviste che la compravano finivano col fallire prima).

Alcuni elementi ritornano nel racconto di Jack Ketchum e Patricia D. Cacek The Net (“La Rete”), che riprende l'idea della follia, nella fattispecie rappresentata dall'incapacità di gestire gli scatti d'ira di un protagonista che, non a caso, possiede un gatto che si chiama Cujo (come il cane idrofobo del famoso romanzo di King). Altri due elementi ritornanti sono (come nel racconto di King) la presenza di un aspirante scrittore che fa leggere una sua storia a colei che diventerà la sua vittima (ottenendo in questo caso elogi) e l'interrogatorio finale condotto dalla polizia che riuscirà a ottenere una confessione. Ketchum (e la collega) struttura la storia come un collage, fatto dalle email scambiate tra killer e vittima, dalle pagine di diario e dai verbali di interrogatorio, che consente agli inquirenti di ricostruire quanto avvenuto. Il tema è quello degli incontri amorosi in chat, dove le persone che si trincerano dietro ai nickname non sempre sono sincere. Un racconto molto scorrevole, che paga un epilogo un po' stanco e rivisto che si sviluppa e si chiude senza grandi colpi di scena (finale telefonato). Data la firma di Ketchum è un testo, pur se non banale (perché avvenimenti del genere succedono davvero nella vita di tutti i giorni), impersonale e dunque deludente.


Questi sei racconti oltre a costituire la metà dell'antologia ne rappresentano l'anima, essendo le storie aventi una matrice comune. Potremmo aggiungervi altri due racconti che, in modo diverso, trattano comunuqe un orrore di natura terrestre. Più assimilabile è The Novel of the Olocaust (“Il Racconto dell'Olocausto”) di Stewart O'Nan, una metafora sulla perdita di profondità della società quotidiana, incapace di valutare i contenuti facendo degli stessi, a prescindere dalla materia trattata, un'occasione di show e di spettacolo (la forma). Così un sopravvissuto alla shoah è chiamato a presentare il suo romanzo memorialistico all'interno di uno studio televisivo, tra balletti e ilarità, distorcendo la realtà storica per incontrare i favori del pubblico, così da rendere piacevole la più grande tragedia del novecento (e nel frattempo farci soldi). Interessante il messaggio di fondo, ma avulso dal genere. Drawn to the Flame (“Attratto dal Fuoco”) di Kevin Quigley è molto più di genere e commerciale ma, al tempo stesso, assai più banale e inflazionato. Dei ragazzini di dieci anni, contravvenendo agli ordini dei genitori, si recano presso uno speciale luna-park di cui hanno visto la pubblicità alla tv. Avvicinati da una sorta di pagliaccio, si ritroveranno rinchiusi all'interno di una casa abbandonata piena di insidie e popolata da falene. Azione allo stato puro, per quello che è il racconto più lungo dei dodici (cinquanta pagine scarse). Quingley trasmette su carta un suo incubo personale ovvero quello delle falene che provocano la morte penetrando negli orifizi. L'azione, l'immanenza del buio, il mistero dietro le porte da dischiudere, tra trappole, scale che crollano, e un villain, alquanto codardo, che scruta tutto dalle telecamere proferendo frasi in rima per influenzare le condotte dei ragazzini, sono gli ingredienti del testo. Soggetto ultra collaudato, che evoca certe storie di Patricia Highsmith. Intrattiene ma non scuote, peraltro infarcito di bug che non vengono risolti (come si spiega l'esistenza di una casa degli orrori infarcita di scheletri, peraltro pubblicizzata in tv, senza che nessuno la denunci alla polizia?).

Otto racconti, dunque, che rappresentano la parte meno interessante dell'antologia. Eccettuato l'elaborato di Poe e, in misura assai più ridotta, quello di Freeman, sono storie che faticano a farsi ricordare. King delude offrendo quello che, probabilmente, è il peggior racconto dell'antologia, pur se intriso di una comicità macabra che arriva dal mondo dei comics. Ketchum crea aspettative che non spiazzano, pur proponendo un personaggio che alterna momenti di grande partecipazione emotiva e di tristezza (per la morte del proprio gatto) a scatti d'ira che non si fermano neppure al cospetto di una ragazzina che, nella sua ingenuità, sogna l'amore della vita. Keene si orienta sul dramma umano ricordando certi racconti inseriti ne Il Bazar dei Brutti Sogni (2016) di King, storie (penso a Tuono Estivo) da cui è stato palesemente influenzato accantonando però il sense of wonder, i colpi di scena e il senso del fantastico che le contraddistingueva. Chizmar compie un ottimo esercizio di stile, proponendo un suicidio all'interno di un cimitero senza però costruire una trama solida. O'Nan prova la via alternativa e lo fa con un idea di fondo molto interessante non però sfruttata in modo accattivante. Quigley va sul sicuro, sacrificando l'originalità a beneficio dei dejà vù cinematografici.

L'antologia si salva per la sua parte minoritaria quella in cui entra il gioco la componente fantastica. Si tratta di quattro racconti molto diversi dal resto del lotto. Di questi, tre sono da considerarsi, a mio modesto modo di vedere, ai primi tre posti (tralasciando Poe) di un'ideale classifica dell'antologia.

Tra tutti spicca per costruzione, quadratura e chiaro omaggio kinghiano The Keeper's Companion (“Il Custode”) dello svedese John Lindqvist, scrittore noto anche in Italia per una serie di romanzi quali Lasciami Entrare (2006) e L'Estate dei Morti Viventi (2008). Non a caso, Lilja gli riserva l'onere di chiudere l'antologia che ha una costruzione qualitativa curiosamente in crescendo. Lindqvist confeziona un racconto medio-lungo che guarda a Lovecraft, al primo Robert Bloch e ai rituali di invocazione demoniaca. Il contesto è quello adolescenziale, tra bullismo, primi innamoramenti e superamento della pubertà. Un'impostazione che ricorda molto Christine, The Body e It con tanto di “perdente” che diviene dominante. Il finale a sorpresa attribuisce ulteriori punti in favore. Certo, non è un capolavoro, ma un discreto racconto che si sviluppa con i giusti tempi e delinea un malsano processo di formazione dall'infausto epilogo. Manca l'orrore angosciante che caratterizzava le storie di Lovecraft, ma l'omaggio al mondo dei giochi di ruolo (Il Richiamo di Cthulu) e ai vampiri stellari è più che gradito e piacerà ai puristi.


Non delude neppure Ramsey Campbell che offre una storia che ben rappresenta la sua capacità di destreggiarsi in contesti degradati e ammantati da atmosfere soprannaturali. The Companion (“Il Compagno”) è una malinconica storia sulla solitudine e sulla giovinezza sfumata per il naturale decorrere del tempo. Un uomo, in prossimità della pensione, si diletta a passare le vacanze visitando luna-park. Questa sua passione lo condurrà in uno strano luna-park frequentato da individui che gli ricordano la madre e il padre. L'uomo si muove all'interno dell'area come se si trovasse effettivamente in un contesto reale, sebbene alcuni aspetti suggeriscano al lettore la possibilità che si tratti di un incubo anticipatorio della morte. Il protagonista scambia infatti parole solo con un volto che gli parla da una cornice e compie giri sulle giostre. È un chiaro rimando alla perduta infanzia, un danzare che, attraverso la scoperta di un secondo luna-park, quello vecchio e abbandonato, porterà il protagonista a compiere un viaggio su un treno fantasma che lo proietterà, senza elettricità e senza comandi, in una casa degli orrori. Eccezionali l'atmosfera nonché i tratti cupi e ectoplasmatici che raggiungono l'apice all'epilogo. Si contende con Lindqvist il ruolo di miglior racconto.


Inferiore, a mio modesto modo di vedere, ma comunque impressionante Pidgin and Theresa del “folle” ed extreme Clive Barker. È forse l'unico dei dodici racconti a varcare i confini del proibito e del politicamente corretto. Dominano momenti surreali degni del miglior repertorio dell'autore a cui fa da contrappunto una scarsa chiarezza espositiva. La storia è confusa (ci sono bug), con degli inneschi e degli sviluppi che restano oscuri. Un benefattore viene condotto alla santità da un angelo poi costretto a rivedere la propria decisione e a ricacciare il suo protetto dal paradiso (posto tutt'altro che idilliaco), a seguito di certe dichiarazioni dello stesso. Nel frattempo gli animali domestici del protagonista, una tartaruga e un pappagallo, per effetto dell'apparizione angelica si sono trasformati in uomini che mantengono il loro gusto animale e vanno in giro per le vie vestiti in modo grottesco. Una controindicazione che l'angelo non può tollerare e a cui è chiamato a ovviare. Tra uomini che si riducono (stile film di Brian Yuzna) in montagne di escrementi e onde di fuoco che fluttuano su una Londra assai poco abituata ai miracoli, si arriva a un epilogo all'insegna del disgusto all'interno di una Chiesa. Spicca il sotto-testo blasfemo, ultra ironico e dissacrante, con una certa derisione delle intercessioni divine. Non certo un racconto top, eppure con un suo perché e una componente artistica (e blasfema) che non si dimentica e lo porta sul nostro ideale podio.


Piace meno Aeliana di Bev Vincent, una storia ben preparata e con un epilogo che ha un suo perché, ma che tuttavia non colpisce come dovrebbe per il suo riproporre la canonica domanda su chi siano i veri mostri. Vincent presenta una sorta di orrore licantropico dove il “mostro” non è il licantropo necrofago (peraltro rappresentato da una bimba mutaforma), ma il serial killer umano che scarica cadaveri nei quartieri malfamati della città. Molto buona la gestione delle scenografie degradate, il senso del ritmo e il taglio visionario di un autore di stampo cinematografico che mostra indubbie qualità di messa in scena. Sottolineatura marcata per il senso materno della poliziotta chiamata a condurre le indagini sugli omicidi del killer, con rimandi a Dracula (interconnessione mentale col licantropo e successiva richiesta di esser tramutati in creature immortali), ma poche altre innovazioni. Lo stesso autore confessa che il racconto, scartato dal relativo curatore, era stato confezionato per un'antologia tematica.

 La versione italiana.

Copertina realizzata dall'ottimo Vincent Chong.

 RECENSIONE GENERALE E CONCLUSIONE

Shining in the Dark è un'antologia che sarebbe dovuta andare esaurita nel giro di un anno. Pubblicato in appena 800 copie, è un volume che tutti i completisti di Stephen King (e Clive Barker) dovrebbero recuperare. Lilja ha infatti dotato il suo progetto di ben due forze trainanti, rappresentate dai due autori più venduti sul mercato horror. Ciò nonostante, in circa cinque anni, sono state vendute appena 550 copie, tanto che all'inizio del sesto anno dalla pubblicazione è ancora possibile acquistare copie numerate sul sito della Independent Legions. Una situazione questa che scoraggia tutti gli scrittori interessati al genere, parlo di quelli italiani, perché la dice lunga su quale sia il ristretto mercato di riferimento e quanti siano i lettori veramente interessati alla materia. Al di là delle opinioni sul contenuto, il volume della Independent Legions propone il gotha del settore. Vedere dunque ancora disponibile Shining in the Dark, personalmente, mi genera un profondo sconforto.

Premesso quanto sopra, possiamo definire Shining in the Dark un'antologia horror adatta a tutti gli appassionati, non troppo orientata sul versante truculento. Non risulta forse riuscitissima l'intenzione di omaggiare Stephen King, tanto che giusto un paio di storie si possono definire kinghiane (Lindqvist e Keene). Il livello qualitativo dei racconti non è eccellente quanto lo sono gli stili, la fruibilità e la scorrevolezza dei racconti. Resta comunque un'antologia da collezione, che sa intrattenere e regalare buone atmosfere. Edgar Allan Poe a parte (capolavoro, ma lo conoscevamo), tre sono i racconti, a mio modo di vedere, veramente buoni. Parlo degli scritti di Lindqvist (per la costruzione), Campbell (per l'atmosfera) e Barker (per la capacità di rompere gli schemi tradizionali). Dietro questi vi è l'elaborato di Freeman, che non colpisce per la storia narrata quanto piuttosto per come è stata proposta (decisivo il finale, il migliore dell'antologia). Si aggirano sulla sufficienza molti degli altri, soprattutto Chizmar e Vincent (per le atmosfere), Quigley (per l'intrattenimento) e Ketchum (per le aspettative poi disattese). Lasciano perplessi, non che siano brutte storie, Keene e O'Nan che interpretano, nell'occasione, l'orrore (che c'è) da un punto di vista realistico senza alcuna concessione al genere. Delude anche King, inutile girarci intorno, con una storia dimenticata e rispolverata su pressione reiterata (probabilmente) del curatore. Un racconto che incarna lo spirito dei comics horror degli anni sessanta, portandosi avanti con furbizia e tentativi sperimentali che trovano la loro ragion d'essere in virtù di un soggetto molto debole tutto giocato sulle prospettive di veduta e sulla frase “non mi hai fatto grassa a sufficienza”. 

Vale l'acquisto? Si. 

 

 
Il curatore Hans-Ake Lilja
in vena di Revival.
 
"Qualunque autore vi dica che non ha mai plagiato qualcun altro è un bugiardo. Un bravo scrittore parte con brutte idee e cose improbabili, e le modella fino a renderle metafore viventi della condizione umana."

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