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venerdì 29 aprile 2022

Recensione Narrativa: FREAKS di Tod Robbins

Autore: Tod Robbins.
Curatori: Jacopo Corazza & Gianluca Venditti.
Anno: 1919-1923.
Genere: Horror.
Editore: Edizioni Arcoiris, 2021.
Collana: La Biblioteca di Lovecraft.
Pagine: 208.
Prezzo: 13,00 euro.

A cura di Matteo Mancini

Il duo fiorentino costituito da Jacopo Corazza e Gianluca Venditti torna nelle librerie col sesto numero dell'ambiziosa La Biblioteca di Lovecraft per le Edizioni Arcoiris, una piccola realtà che si sta sempre più confermando nel panorama dell'editoria interessata al weird e al fantastico del novecento.

Nell'occasione viene proposta una trilogia di racconti di uno scrittore newyorkese celebre soprattutto per aver scritto l'opera da cui Tod Browning, regista del primo Dracula autorizzato dagli eredi Stoker (quello con Bela Lugosi), trasse ispirazione, con la collaborazione diretta dello scrittore, per il capolavoro Freaks (1932). A fungere da traino di questa iniziativa è proprio questo racconto, a cui si aggiungono due inediti in italiano.

L'AUTORE

Tod Robbins, all'anagrafe Clarence Aaron Robbins, non può certo definirsi un maestro del genere. Il suo nome, spesso, non viene menzionato nelle guide di settore. Ciò nonostante si tratta di uno specialista nell'ambito della letteratura del terrore che, a inizio novecento, ha vissuto i suoi giorni di gloria dapprima sui pulp magazine e poi a Hollywood, cercando di imitare i maestri del terrore inglesi.

Scrittore di origine ebraica non troppo prolifico, anche perché facoltoso, Robbins nacque a New York nel 1888. Attraente e dal fisico atletico, seppur non particolarmente alto, fu un vero tombeur de femmes, passando da una donna all'altra anche dopo aver contratto il primo matrimonio. Di temperamento focoso, fu un poliedrico sportivo capace di marcare, ai tempi della frequentazione della Washington and Lee University, il record universitario nel salto con l'asta e, in contemporanea, ricoprire il ruolo di capitano della squadra corse. Appassionato di poesia, scrisse testi per canzoni, mostrando una duttilità non comune. Smargiasso e non timoroso di niente, neppure del pericolo nazista che non lo indurrà alla fuga dalla Costa Azzurra ai tempi della seconda guerra mondiale, divenne protagonista di una leggenda metropolitana secondo la quale sarebbe stato anche “campione francese dei pesi leggeri”. L'episodio, risalente al periodo universitario, sarebbe dovuto a una sfida che lo scrittore accolse dopo esser stato invitato a salire sul ring da un sedicente campione di boxe durante un meeting di pugilato. Spettatore sugli spalti, Robbins colse al volo la proposta facendo tremare l'avversario, specie dopo essersi tolto la maglia e aver mostrato lo statuario addome scolpito con cura maniacale. Una visione che indusse l'avversario a rimangiarsi la parola e a ritirarsi. Si venne poi a sapere che il sedicente campione, in realtà, era un mero attore di burlesque a caccia di soldi.

La fama di Robbins si diffuse presto dall'ambito sportivo a quello delle riviste da edicola. Sorretto da un'importante dote ereditata da un nonno che aveva fatto fortuna nel settore alimentare, Robbins, tra uno scandalo sentimentale e l'altro culminati in quattro matrimoni e una serie di intrecci amorosi che coinvolsero anche una delle figlie del governatore del Massachussets e una nota tennista, scrisse senza patemi d'animo indirizzando i suoi testi ai pulp magazine. Fu abile assemblatore dei temi proposti da altri autori, ben attento a proporre quanto il pubblico andava chiedendo. Nei suoi racconti rivivono infatti i classici dell'epoca vittoriana generati da assi quali Oscar Wilde, Robert Louis Stevenson e Matthew P. Shiel. Tematiche che vengono rimodulate per esser riproposte sotto una nuova lente.

Impegnato anche nella stesura di romanzi, mosse i suoi primi passi su Munsey's Magazine, All Story Weekly, Fantastic Novels Magazine insistendo a scrivere fino al 1949, anno della sua morte.

Nel 1912 dette alle stampe i suoi primi due romanzi (ne pubblicherà una mezza dozzina), tra cui Mysterious Martin che si lascerà ricordare quale primordiale esempio di romanzo narrato dalla prospettiva di un serial killer che parla delle sue emozioni e dell'omicidio. Cinque anni dopo, nel 1917, fu la volta di The Unholy Three, il romanzo che permise a Robbins di compiere il salto di qualità e di indirizzare il prosieguo della sua carriera. Qui si notano gli ingredienti che ne contraddistingueranno la produzione, in particolare fanno la loro comparsa caratterizzazioni ed elementi che ritroveremo nel successivo Spurs. L'opera ruota attorno a tre fenomeni da baraccone (un nano, un gigante e un ventriloquo) che cessano l'attività circense per darsi alla malavita. Il libro fu un successo commerciale al punto da attirare le attenzioni di Hollywood che, nella persona di quel Tod Bowning che qualche anno dopo sarebbe diventato leggenda grazie al Dracula (1932) interpretato da Bela Lugosi, ne curò subito un adattamento cinematografico. Il film, distribuito in Italia col titolo de Il Trio Infernale, fu un inaspettato successo e spinse i produttori a mettere subito in cantiere un remake sonoro poi affidato alla direzione di Jack Conway.

La tematica freak non fu abbandonata da Robbins che insistette sull'argomento col successivo romanzo, Red of Surley (1919), e col già citato Spurs che apparve nel 1923 su Munsey's Magazine. Il nome dello scrittore divenne noto ai produttori di Hollywood. Il regista Scott Pembroke decise di ingaggiarlo per sceneggiare The Branded Man (1928) e lo stesso fece la Metro Goldwyn Mayer che con Tod Browning scommise sul racconto Spurs, con l'intento di realizzare un horror in grado di superare in truculenza il Dr. Jekyll & Mr Hyde e il Frankenstein delle concorrenti Paramount e Universal. Robbins si vide così comparato a quelli che erano stati i suoi maggiori maestri, con ambizioni commerciali addirittura superiori. Browning, allo scopo di scioccare e di superare i limiti, cercò infatti di proporre un qualcosa che non si era mai visto prima. La produzione non badò a spese. Al fianco di attori professionisti, furono messi sotto contratto individui affetti da reali malformazioni, in un'operazione che suscitò scandali e clamore nell'opinione pubblica. Il film, intitolato Freaks, uscì nel 1933, ma solo dopo aver subito pesanti tagli, in una versione che non rese giustizia allo sforzo del regista. Vietato in più di un paese (in Inghilterra fu proiettato solo negli anni sessanta), la pellicola, di anno in anno, avrebbe conquistato la veste di culto, ma allora fu un fiasco totale. Browning pagò caro questo insucceso, dovendo faticare non poco per trovare nuovi incarichi. Robbins, intanto, emigrò in Francia. Proprio in territorio transalpino, più precisamente in Costa Azzurra, finì per essere imprigionato dai nazisti e internato in un campo di concentramento. Sopravviverà, rimanendone traumatizzato e raccontando la sua esperienza in quello che sarà il suo ultimo romanzo: Close Their Eyes Tenderly (1949).

In Italia, a oggi, Tod Robbins è uno scrittore pressoché sconosciuto, non avendo per anni attirato gli editori italiani. Il solo Spurs, complice la notorietà del film che ha ispirato, ha avuto nel corso degli anni un reiterato interesse. Proposto, per la prima volta nel 1981 come Freaks dalla Mondadori all'interno dell'antologia Al Cinema con il Mostro, è stato ripresentato con altri titoli in altre due antologie: Elephant Man e Altri Mostri ( come Speroni) nel 1991 e Brivido a 35 mm (come Mostri) nel 1993.

Qualche anno fa la Ctrl Alt Write si è resa protagonista di una lodevole iniziativa, mettendo sul mercato digitale una selezione di otto racconti dell'autore (Freaks! 8 Racconti). In questa graduale riscoperta si inserisce ora La Biblioteca di Lovecraft, portando a dieci i racconti presenti nella nostra lingua. Robbins ne scrisse circa un quindicina oltre che una mezza dozzina abbondante di romanzi. Fu particolarmente apprezzato negli anni trenta dall'antologista Charles Birkin che incluse molti suoi racconti in antologie collettive.

                                                                  La locandia del film di Browning

 ANALISI GENERALE

In sede di presentazione autore abbiamo detto che Tod Robbins non può essere definito un maestro del fantastico, eppure dalla lettura delle tre opere proposte dal duo Corazza-Venditti si potrebbe anche sostenere l'inverso.

Lo scrittore americano sfoggia uno stile che ricorda assai da vicino gli autori vittoriani sia per tematiche che per atmosfere, non a caso è stato detto che è uno scrittore che “scrive all'inglese”. Tuttavia sarebbe sbagliato reputarlo tale. I contenuti intrinseci dei racconti dell'americano si allontanano da quella volontà esoterica che animava, a esempio, molti scrittori britannici, spesso affiliati a organizzazioni segrete e iniziatiche, seguendo invece logiche più in linea a quella letteratura americana dei pulp magazine da cui avrebbero preso le mosse maestri quali Fritz Leiber e Richard Matheson. Il fantastico di Robbins, infatti, entra nella vita di tutti i giorni e si dirama da oggetti del comune vivere. Un ritratto diviene specchio multidimensionale che permette al soggetto immortalato di scorgere nel profondo del proprio animo senza tuttavia riconoscersi, mentre semplici giocattoli divengono veicoli di dimostrazione di futuri eventi catastrofici. Impossibile non notare la marcata ironia macabra che accompagna le storie (“persino un ladro può essere perdonato, se sa farti sorridere”) e un approccio al genere in cui, come ha correttamente sottolineato Gianluca Venditti in prefazione, non vi è alcuna morale di fondo nelle azioni orchestrate dal male. L'uomo è una marionetta in balia di forze capricciose che devono vincere l'ozio e che gli sono superiori. Esseri, dalle forme umane, che seguono logiche incomprensibili per l'uomo e che non possono essere contrastate. Ogni sforzo di fermare gli emissari del male è destinato a fallire e, in alcuni casi, a sortire effetto contrario a quello ricercato. “La verità è più strana della finzione... quello che chiamiamo mondo non è che una piccola, tranquilla zolla di terra coltivata in una landa desolata”. Robbins intende deflagrare la sicurezza offerta dalla quotidianità e, al tempo stesso, mettere in discussione la razionalità. La pazzia, un po' come in Lovecraft, diviene l'unica via per sopravvivere all'onda d'urto offerta da ciò che si cela oltre la sfera dello scibile. Ogni ricerca del senso ultimo delle cose viene frustrata. Robbins è interessato al lato oscuro dell'uomo (“abbiamo tutti due facce”), a quella malvagità che cova, talvolta insospettata e persino ricusata dallo stesso uomo che ne è portatore, nel profondo dell'Io. Un male oscuro che vive nel segno della depravazione e che aspetta solo l'occasione per essere portato allo scoperto, vuoi per una derisione o una scorrettezza di cui l'uomo diviene vittima. Ecco che, alla maniera del misterioso pittore protagonista di The Living Portrait (1919), Robbins è interessato agli assassini insospettabili e soprattutto ai loro ispiratori. I demoni di Robbins sono professionisti della manipolazione, soggetti capaci di far apparire la notizia giusta al momento giusto per ottenere il risultato voluto dall'uomo che stanno trattando o trasformare un pugno di cioccolatini in un mazzo di dollari per corrompere la volontà di chi vanno tentando. Tutti i protagonisti delle storie hanno animi distruttivi, pur volendo, nelle loro dichiarate intenzioni, arrestare gli emissari del male: l'inventore di The Living Portrait arriva a meditare di sterminare il mondo attraverso un'arma di distruzione di massa; il mercante di The Toys of Fate (1921) prova un fascino irresistibile per la morte, incarnata da un vecchio trasandato artefice di tutti i mali del mondo, tanto da non resistere dall'andare a recargli visita per contemplarne le future manovre omicida.

Ecco allora che Freaks si rivela un'ottima occasione per riscoprire un autore che avrebbe meritato altra considerazione.

ANALISI SPECIFICA

L'elegante Freaks propone tre racconti di media-breve lunghezza, anticipati da una prefazione di Gianluca Venditti e da un'overture internazionale del batterista del gruppo americano band trash metal dei Rigor Mortis, in ossequio all'abitudine dei due curatori, che operano anche nel campo della musica (Jacopo Corazza è un noto disc-jockey), di legare i racconti ai personaggi del mondo metal. Da segnalare inoltre la gustosa post-fazione del critico Walter Catalano che offre con competenza una veloce panoramica sulla tematica freak e sull'abitudine, tipicamente ottocentesca, di vederli impiegati in campo circense.

Lo stile del volume è in linea, se non superiore, alle precedenti uscite. Venditti cura molto bene sia le traduzioni che l'aspetto grafico. All'interno vengono riportate le illustrazioni dell'epoca che, nel corpo dei racconti, si sposano alla perfezione agli stessi diventando, in alcuni casi, parte integrante.

The Living Portrait (“Il Ritratto Vivente”) apre la sfilata delle storie, per la prima volta in assoluto, oltre che in lingua italiana, all'interno di un'antologia di Robbins. Pubblicato nell'aprile del 1919 su All Story Weekly, è il meno originale dei tre racconti. È fortemente debitore della produzione di punta di scrittori quali Robert Louis Stevenson, Oscar Wilde e Matthew P. Shiel che vengono rimodulati in un'ottica di maggiore presa commerciale e pulp.

Protagonista è un mad doctor, ideale anticipazione di quelli che popoleranno la cinematografia horror degli anni cinquanta-sessanta, pungolato di continuo dal ritratto che ha appeso in sala. Una raffigurazione che si muove e parla col protagonista, sebbene questo sia l'unico ad accorgersene. È un Robbins in vena di citazioni. Gli echi di The Picture of Dorian Gray (1890) di Oscar Wilde e di The Strange Case of Dr. Jekyll & Mr Hide (1886) di Robert Louis Stevenson arrivano forti, tenuti uniti, quale ragione di tutto, da un flebile e non troppo sviluppato sotto tema, sull'esempio di The Lost Valley (1910) di Algernon Blackwood, della “ragazza in due”.

Centrali la traccia del ritratto vivente e quella del mad doctor vittima di uno sdoppiamento di personalità che porta lo stesso a contrapporre l'anima buona a quella cattiva. Uno scontro dalle conseguenze finali inevitabili per l'incapacità del protagonista di distruggere la sua vera anima rappresentata dal ritratto. A differenza di Wilde o del William Wilson di Poe, gli attacchi al quadro non uccidono l'uomo ma lo addormentano, liberando la parte bestiale che lo anima.

Lo stile è quello del racconto narrato a fatti conclusi per bocca stessa del protagonista, un inventore di farmaci e primordiali armi batteriologiche (“il velo porpora” che rimanda a The Purple Cloud di Matthew Shiel, avendo la funzione di estinguere la razza umana nella forma di un gas che aleggia sopra le città) finito in manicomio criminale perché ritenuto un omicida. L'uomo cercherà di difendersi dalle accuse raccontando, in prima persona, una storia che va oltre le esperienze comuni. Avvicinato da un pittore (forse il diavolo in persona) interessato a dipingere volti di assassini, finirà vittima di un incubo avente come fonte di ogni delirio il ritratto che gli è stato consegnato.

Accecato dagli atteggiamenti del socio, responsabile di avergli rubato la donna nonché l'invenzione medica oggetto di prolungati studi, finirà preda di allucinazioni e continui dialoghi con il ritratto. Quest'ultimo, che dichiarerà di rappresentare i pensieri dell'uomo, cercherà di convincere il protagonista a uccidere il padre e poi l'ex socio, liberandosi dalla cornice solo a seguito dei tentativi dell'altro di distruggerlo. A ogni tentativo, infatti, l'anima, precedentemente imprigionata nel dipinto, uscirà dallo stesso e commetterà gli assassinii muovendosi con le fattezze dell'uomo, nel frattempo caduto in balia di un torpore improvviso. Un modo quest'ultimo utile a Robbins per rappresentare lo spegnimento della parte razionale e l'emersione della parte inconscia, quella che incarna la reale natura dell'uomo, non essendo influenzata dalla paura delle conseguenze dei gesti e pertanto libera da condizionamenti esterni.


Più interessante il secondo racconto, un altro inedito in Italia, pubblicato in origine su Munsey's Magazine nel gennaio del 1921. Intitolato The Toys of Fate (“I Giocattoli del Destino”), è un elaborato che anticipa romanzi quali Needful Things (“Cose Preziose”, 1991) di Stephen King. Ancora una volta, Robbins porta in superficie l'animo macabro del protagonista, un commerciante di giocattoli che, per mettere in scena la parodia degli eventi del giorno prima, tiene nella vetrina del suo negozio la riproduzione del paese (Prestonville) in cui vive. Il plastico, realizzato in cartone, riproduce tutti i cittadini della città e diviene campo di battaglia per gli scherzi letali orchestrati dal Gaunt di turno. Ogni intervento effettuato sul plastico si traduce in qualcosa che si verificherà nella cittadina. Morte e distruzione seguiranno. Burattinaio del gioco è un cliente del protagonista che dichiara di chiamarsi Signor Fato e che rivela al protagonista che è molto più interessante dedicarsi al futuro che alla messa in scena del passato. L'uomo entra all'interno del negozio senza nascondere la propria natura soprannaturale, citando episodi persino biblici (dichiara di aver conosciuto Giuda Iscariota). Ancora una volta il racconto viene narrato dal protagonista a fatti conclusi, sebbene qua la struttura sia quella della storia nella storia. Robbins predispone un doppio finale che vedrà la storia narrata (da un passeggero di un treno al suo dirimpettaio) traslarsi sulla linea temporale di narrazione dei fatti. Non mutano comunque le conclusioni raggiunte dal primo racconto. Il male non può essere combattuto né, tanto meno, vinto. Ogni tentativo di arginarlo è vano, utile solo a rallegrarne gli emissari. Tutto parte dal narcisismo del protagonista che offre la materia prima affinché il diavolo (o chi per lui) giostri i suoi giochi per vincere la noia. Interessante la caratterizzazione dell'antagonista: un vecchio claudicante dalla folta barba impiastrata da zuppa e mollica. Brillante fino alla fine, The Toys of Fate, nella sua semplicità, è un piccolo gioiello capace di tenere viva l'attenzione per tutto il suo corso.


L'antologia è chiusa dal racconto più noto di Robbins, uscito nel 1923 ancora su Munsey's Magazine. Venditti decide di intitolarlo con il più noto “Freaks” evitando di utilizzare la traduzione letterale dall'originario Spurs (“Speroni”). Dei tre, è il racconto più breve, ma anche il più personale. Robbins chiude la pratica in appena trenta pagine, muovendosi in chiave ironica e crudele riscrivendo le coordinate del sottogenere “la bella e la bestia”. Protagonista è un ometto di settanta centimetri che lavora nel mondo del circo e che si innamora perdutamente di un'aitante cavallerizza dal fascino e dalla bellezza irresistibile. Deriso da tutti per le sue limitate capacità fisiche, riesce a conquistare il cuore dell'amata grazie a una cospicua eredità piuttosto che per il lato romantico e la poetica della sua dichiarazione d'amore. Come già avvenuto in The Toys of Fate è la sete del denaro a condannare la vittima degli eventi, di nuovo incapace di sovvertire l'azione degli emissari del male (nella fattispecie un cane e il suo padrone). Le ambizioni manipolatorie della donna vengono infatti disattese dall'arguzia dissacrante dell'amante. Il nano riesce a domarla, facendole rivivere giorno dopo giorno lo scherno di cui era stato vittima e traducendo in realtà le battute dalla stessa proferite in compagnia degli amici durante il pranzo di nozze. Racconto crudele e, al tempo stesso, sarcastico, dove non esistono personaggi positivi e dove il mostro di turno (non certo per le doti fisiche) viene visto con simpatia dai lettori a causa degli atteggiamenti denigratori (e ben peggiori) delle supposte persone “belle e normali”.


CONCLUSIONI

Pur essendo uno dei numeri meno venduti della collana, Freaks mantiene alto lo standard de La Biblioteca di Lovecraft. Lettura veloce e di pronta soluzione, capace di combinare il sarcasmo con l'orrore soprannaturale di matrice fantastica piuttosto che esoterica. Visto il prezzo allettante, appena tredici euro, vale sicuramente l'acquisto.

 
L'autore TOD ROBBINS.
 
Un artista può essere se stesso solo quando è circondato dalle opere della propria arte... È scorretto giudicare l'opera di un uomo finché il lavoro non è terminato. I risultati soddisfacenti spesso si nascondono nell'ultimo tocco del maestro.”
 

martedì 26 aprile 2022

Recensione Saggi: GUIDA ALLA LETTERATURA HORROR a cura di Gian Filippo Pizzo.

Curatore: Gian Filippo Pizzo.
Testi: Gian Filippo Pizzo, Walter Catalano, Roberto Chiavini, michelino tetro..
Anno: 2014.
Genere: Critica e divulgazione letteraria.
Editore: Odoya (2014.
Pagine: 480.
Prezzo: 22.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Dopo Guida alla Letteratura di Fantascienza (2013), Guida alla Letteratura Horror (2014) è una delle primissime opere divulgative scritte a più mani e pubblicate negli ultimi nove anni dalle edizioni Odoya di Bologna. Si tratta di testi spassosissimi e fondamentali per gli appassionati, decisamente accattivanti sotto un profilo visivo per le raffigurazioni e foto interne di cui non si lesina certo l'impiego.

Il volume in questione, curato dal compianto Gian Filippo Pizzo (con la collaborazione dei critici e studiosi Walter Catalano, Michele Tetro e Roberto Chiavini), migliora di gran lunga l'impostazione del precedente volume dedicato alla fantascienza (con curatela Carlo Bordoni) per la scelta di strutturare il libro attorno agli scrittori, anziché alle tematiche proprie del genere (comunque presenti grazie a una serie di box dedicati ai sottogeneri quali vampiri, licantropi, zombi, streghe, mummie, narrativa pulp, horror italiano e di altre nazioni e via dicendo). Dunque al centro dell'analisi ci sono gli scrittori, affrontati uno dietro l'altro in una sfilata in cui sono presenti pressoché tutti, con note biografiche, produzione narrativa, foto delle copertine dei libri e critica. Il testo infatti ha una concezione enciclopedica e muove i passi seguendo l'ordine alfabetico e il cognome dei più importanti maestri del terrore dagli albori a oggi.

Il limite del progetto, articolato sulla media distanza (meno di cinquecento pagine, diluite da disegni e foto), è quello di limitarsi a una panoramica, seppur piuttosto completa, concentrata soprattutto sui volumi editi sul mercato italiano. Inoltre, sebbene non siano ancora passati dieci anni dall'uscita del volume, sarebbe opportuno procedere alla pubblicazione di un aggiornamento, visto che in questi anni sono arrivati sul mercato molti scrittori qua completamente ignorati (uno tra tutti Tim Curran, sdoganato dalla defunta Dunwich Edizioni), basti ricordare celebrità (a proposito del gruppo autore dell'album Il Grande Incubo) quali Alessandro Manzetti ed Ed Wood (autore dell'antologia Splatter, vera e propria antesignana del genere hardcore horror) che qua, a dispetto della loro importanza internazionale (si pensi che Ed Wood è al centro di un film diretto da Tim Burton), non sono neppure menzionati nell'indice dei nomi. Per misurare però il valore dell'opera è utile effettuare un paragone con la successiva Guida ai 150 Migliori Libri Horror edita da Cut Up nel 2021 e scritta dallo stesso Manzetti. Mentre il volume dell'Odoya si propone sinteticamente di offrire un quadro completo con critiche e tematiche affrontate dai vari scrittori e dai vari sottogeneri, Manzetti, che parte dall'ottimo spunto di concentrare l'attenzione sul genere partendo dal 1986 per giungere a oggi (periodo meno considerato dalle guide e dai volumi critici), si limita a proporre un veloce catalogo con descrizioni inadeguate (quattro righe di critica a volume e breve indicazione della sinossi) per la caratura del progetto (pur offrendo la possibilità, ai lettori, di documentarsi su autori meno conosciuti) nonstante gli sforzi della casa editrice di rendere accattivante il volume (plauso alle Cut Up).

In conclusione Guida alla Letteratura Horror è la migliore guida in assoluto presente sul mercato italiano per quanto concerne lo studio del genere in forma schematica e di facile lettura, decisamente superiore anche al Dizionario dell'Orrore (2004) scritto dieci anni prima da Gianni Pilo (superiore anch'esso al volume di Manzetti). Acquisto più che consigliato, così come per le altre Guide della casa editrice, prima tra tutte la Guida alla Letteratura Esoterica (2016) curata da Claudio Asciuti che resta la migliore del catalogo.

lunedì 18 aprile 2022

Recensione Narrativa: L'ULTIMO UOMO di Mary Shelley.

Autore: Mary Shelley.
Titolo Originale: The Last Man.
Anno: 1826.
Genere: Fantascienza / Drammatico.
Editore: Jouvence (2020).
Pagine: 592.
Prezzo: 19.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

UN INSUCCESSO COMMERCIALE

The Last Man è un classico di Mary Shelley, la celebre autrice di Frankenstein, rimasto per anni introvabile persino in Inghilterra pur se uscito con grandi auspici. Non a caso Mary Shelley lo ha sempre definito la sua migliore opera. Pubblicato a Londra, il 23 gennaio del 1826, dopo un interesse addirittura internazionale (pubblicato lo stesso anno a Parigi e nel 1833 a Filadelfia), motivato dai successi marcati sia dal romanzo che dall'adattamento teatrale del Frankenstein, The Last Man è caduto vittima di un'eclissi durata circa centoquaranta anni. Si pensi che in Italia, pur essendo libero da diritti di autore, è arrivato solo nel 1996 grazie all'impegno delle Edizioni Danilo che hanno avuto il merito di anticipare, di un anno, la Mondadori. Romanzo imponente, circa seicento pagine, scritto con uno stile poetico e ridondante, è stato stroncato dalla critica coeva che lo definì “il prodotto di un'immaginazione malata e di gusto assolutamente corrotto” (The Monthly Review) o “un elaborato pezzo di cupa follia” (The London Magazine). Opinioni che contribuirono, non poco, a decretarne il totale insuccesso, sia di critica che economico. Invenduto sugli scaffali ed evidente motivo di imbarazzo per la Shelley, quasi al punto da impedirle di ripresentarsi sul mercato. Al fine di accedere a successive proposte editoriali, la Shelley si trovò costretta, a ogni sua nuova proposta, ad assicurare agli editori di aver scritto un nuovo libro “con migliori possibilità di successo rispetto a The Last Man”.

Tuttavia, come ben sanno coloro che si interessano di critica letteraria e cinematografica, il tempo è la giusta misura di ogni cosa. Rispolverato in Inghilterra nel 1965, dopo le fortune della narrativa post apocalittica sulla scia di romanzi quali I Am Legend (“Io Sono Leggenda”, 1954) e film come L'Ultimo Uomo della Terra (1964), The Last Man ha avuto modo di ottenere apprezzamenti ed elogi prima di allora mai sospettati da alcun amante del genere, così da vivere nuova vita. La cosa non deve sorprendere. Pur se estremamente denso e infarcito di riferimenti autobiografici caricati di una drammaticità fin troppo manifesta, è innegabile il contenuto innovatore e antesignano tanto da farne un precursore del sottogenere apocalittico e post apocalittico.


GLI ANTENATI DEL GENERE

In realtà la Shelley non ha inventato nulla, per quanto concerne il contesto e l'idea di realizzare un'opera sulla fine del mondo. Molti sono i precursori che dimostrano un certo interesse, nel primo ventennio dell'ottocento, alla tematica.

Una delle principali ispirazioni arriva dal romanzo Le Demier Homme (1805), del prete cattolico francese Jean Baptiste Cousin, tradotto in Inghilterra nel 1806. Da quest'opera Mary Shelley riprende l'idea della profezia decriptata, all'interno di una grotta, dagli uomini del presente e vertente sul destino finale dell'umanità. Caricata di un evidente spirito religioso, l'opera di Cousin mostra le vicende dell'ultimo uomo della terra che vaga in cerca di compagnia. A differenza del romanzo della Shelley, che si chiude nell'indeterminatezza più assoluta, il protagonista di Cousin incontra l'ultima donna ma l'ammonimento di Dio lo porterà a rinunciare all'accoppiamento, poiché la natura della razza umana è maligna ed è opportuno riscattare l'episodio della cacciata dall'Eden così da vincere le tentazioni della carne e ascendere al cielo.

Scenari apocalittici erano altresì ravvisabili nelle poesie Darkness (1816) di Lord Byron, in cui si immaginava un'umanità spazzata via dal progressivo spegnimento del sole, e The Last Man (1822) di Thomas Campbell, oltre che nella ballata di Thomas Hood, ancora una volta intitolata The Last Man (1826), incentrata, alla stessa maniera del romanzo della Shelley, sullo strazio dell'unico uomo sopravvissuto a un'epidemia di peste, dopo che gli ultimi due superstiti hanno deciso di fronteggiarsi l'uno contro l'altro.

LA STRUTTURA

Mary Shelley articola il romanzo in tre parti, le cui prime due incentrate sulle caratterizzazioni dei personaggi e su aspetti di fanta-politica che, probabilmente, ispireranno autori quali Bram Stoker e romanzi come The Lady of the Shroud (“La Dama del Sudario”, 1909). In questa parte l'opera si incentra sul valore centrale dell'Inghilterra quale forza internazionale capace di tutelare e promuovere l'indipendenza degli altri stati europei (nella fattispecie la Grecia) contro il pericolo turco (ottomano). Un ruolo che, nella realtà, sarà sottratto all'Inghilterra dagli Stati Uniti (qua rappresentati quali gretti e pericolosi). Protagonisti sono i rappresentanti inglesi, vicini alla corona d'Inghilterra (nel frattempo sostituita da una Repubblica), che conducono una guerra a Costantinopoli caratterizzata da tecniche e armamenti tipicamente ottocenteschi. Centrali divengono i rapporti sentimentali, le storie di amore dove le donne (a differenza dei romanzi di Stoker) restano ai margini, infelici, al fianco di uomini che, seppur eroici e rappresentanti dei grandi ideali della società borghese dell'ottocento, antepongono l'interesse collettivo a quello familiare (da questo approccio, metaforicamente, si diffonderà la peste nel mondo). Un alto senso della drammaticità accompagna questa parte, trasformandosi in una teatralità degna di un romance (si veda il suicidio della vedova che preferisce morire piuttosto che vivere nel dolore per la perdita del marito). Anche questo racconto fa parte dell'artificio costituito da una serie di scritti profetici, rinvenuti nella grotta della Sibilla (a Napoli) da una turista inglese (probabilmente la stessa Mary Shelley, in quell'anno presente sul posto in compagnia del marito Percy), che introducono a quello che sarà il vero tema del romanzo: la fine del mondo.

Solo in quest'ultima parte, la terza, dopo circa duecentocinquanta pagine, si entra nel cuore della vicenda. Dal 2073 la storia si snoda per ventisette anni, fino al 2100, tra Grecia, Turchia, Inghilterra, Francia, Svizzera e Italia. Proprio in questo si ravvede uno dei principali difetti della struttura scelta dall'autrice. A differenza di un autore come Jules Verne, la Shelley non ha alcun proposito o spunto di anticipazione, forse perché la fantascienza come noi oggi la conosciamo non era ancora presente. La visione di una società del futuro nella scrittrice inglese è totalmente assente. Non vi è alcun tentativo di immaginare le nuove tecnologie, i nuovi usi e la vita del futuro. Tutto il romanzo è imperniato da un'atmosfera tipicamente coeva alla Shelley. I personaggi si muovono appiedati o in sella a cavalli, navigano su imbarcazioni che affondano nell'Adriatico (nella traduzione italiana definito “oceano”), si parla di Roma come città afflitta dalla malaria e i combattimenti sono assalti alla baionetta.

Aspetti, forse, digeribili a un lettore dell'ottocento, ma totalmente “scaduti” al lettore del duemila (ma anche a quello del primo novecento) in quanto incompatibili alla società del futuro.

ROMANZO AUTOBIOGRAFICO

Tra gli aspetti più interessanti del romanzo vi sono i contenuti fortemente autobiografici di cui lo stesso si fa portatore.

Mary Shelley trasla nell'opera le esperienze della sua vita e forse anche per questo arriverà a definire The Last Man il suo romanzo preferito. Ne è un esempio il naufragio a largo di Ravenna dove perdono la vita due dei tre superstiti di tutta l'umanità. Il dolore, la disperazione e l'alta tragicità dell'episodio sono ben rese dalla Shelley che perse in tal modo il marito Percy, naufragato a largo di Livorno.

Mary Shelley amplifica tutto questo caratterizzando i suoi personaggi sul modello degli affetti a lei più cari, quali Percy Shelley, Lord Byron e altri effettivamente conosciuti. “Posso ben descrivere i sentimenti di quell'essere solitario, dato che io stessa mi sento come l'ultima sopravvissuta di un'amata specie, tutti i miei compagni sono morti prima di me” scrive nei suoi diari l'autrice. “Gli anni migliori della mia vita erano trascorsi con lui. Tutto quello che io avevo posseduto, ricchezze, felicità, conoscenza, virtù lo dovevo a lui. Con la sua persona, il suo intelletto e le sue qualità eccezionali, aveva dato alla mia vita uno splendore che senza di lui non avrei mai conosciuto.” dice uno dei protagonisti del romanzo, rappresentando la stessa autrice che pensa al marito.

Il dolore e il senso di solitudine che giostrava le sorti del Frankenstein tornano all'ennesima potenza in questo romanzo, quasi a voler sottolineare il disagio di Mary Shelley nel non essere più capace di provare un nuovo grande amore. Il protagonista vede morire la propria donna e i propri figli (sorte in comune con l'autrice), oltre che l'amico del cuore (nientemeno che l'erede alla corona d'Inghilterra) e tutto il resto del mondo. Si ritrova pertanto a vagare per l'Italia e altri luoghi cari a Mary Shelley, contemplando opere d'arte e libri raccolti nelle tante biblioteche e librerie rimaste incustodite. Tutto questo però non basta.

Nel vedere gli animali che vivono come se niente fosse successo, dal momento che la tragedia riguarda solo la razza umana, il protagonista dice: “Soltanto io non ho un compagno a cui esprimere i miei molteplici pensieri... Sono soltanto io a essere solo io...Essi non hanno forse delle creature che gli sono simili? Non ha ciascuno di loro il proprio compagno?” Ecco che il rimando autocitazionista a Frankenstein è palese e lo è ancor più nella scena in cui il protagonista, sul finire dell'opera, si vede riflesso in uno specchio non riconoscendosi più. Al suo cospetto ha una sorta di mostro, uno spauracchio della gloriosa civiltà perduta. L'uomo è ormai divenuto leggenda allo stesso modo dei dinosauri, un qualcosa di mostruoso in un mondo che vive meglio senza la sua presenza ingombrante. Animali e vegetazione prendono possesso delle grandi città, utilizzando le case quali nidi o rifugi, mentre il protagonista vaga tracciando con vernice dei segnali che possano indicare ad altri eventuali superstiti un segnale di vita. “Un tempo l'uomo era il beniamino del creatore...Dov'erano la sofferenza e il male? Non nell'aria calma o nell'oceano tumultuoso, non nei boschi o nei fertili campi, né tra gli uccelli che facevano risuonare nei boschi le loro canzoni, né tra gli animali che nel pieno dell'abbondanza si crogiolavano al sole.

Trapela l'amore per l'Italia, ci sono citazioni dirette a città come Pisa in cui l'autrice ha vissuto, ben esemplificate da frasi quali “Roma: incomparabile monumento del mondo”. Ancora una volta, come era in uso alla letteratura gotica di inizio ottocento, il fantastico fa tappa in Italia e sulle sponde del Mediterraneo, visti (contrariamente a quanto si è soliti pensare) quali luoghi prediletti per queste storie, un po' come già fatto da Horace Walpole, Matthew G. Lewis, Ann Radcliffe e John Polidori.

 

LA MALATTIA

A differenza di altri autori, tipo Albert Camus (“La Peste”), la Shelley non analizza nei particolari la malattia. Si sa poco o nulla di questa. Si parla di peste, ma i dettagli sono assenti. Sappiamo che la mortalità è ben superiore a quella della malattia conosciuta, visto che da questa non è possibile guarire e la mortalità è del 100%. Solo il protagonista ne viene colpito e misteriosamente riesce a vincerla. Tutti gli altri, colti da intensa febbre, muoiono dopo alcuni giorni di agonia. I vettori di trasmissione sono sconosciuti, ma tali da investire l'intero mondo sebbene gli spostamenti avvengano molto lentamente (aerei, mezzi meccanici motorizzati e vaporetti sembrano non esistere). Domina ancora l'idea del miasma contagioso. “L'aria è avvelenata, ogni essere umano inala la morte” si legge, suggerendo l'idea che farà fortuna con The Purple Cloud (“La Nube Purpurea”, 1901) di Matthew P. Shiel. Viene menzionata una leggenda metropolitana, dal retrogusto weird e fantastico che evidenzia lo spiccato estro visionario dell'autrice e che sembrerebbe suggerire un ruolo magico o trascendente alla base dell'arrivo della peste. “Si diceva che, prima di mezzogiorno, il 21 di giugno si fosse levato un sole nero; un orbe dalle dimensioni di quell'astro, ma scuro, ben definito, i cui raggi erano delle ombre, si era levato da occidente (moto dunque contrario rispetto al sole); nel giro di circa un'ora aveva raggiunto il meridiano ed eclissato il luminoso genitore del giorno. La notte era caduta su ogni paese, la notte improvvisa, oscura totale. Erano spuntate le stelle, che sparsero il loro vano scintillio sulla terra vedova della luce. Ma presto l'orbe oscuro era passato oltre il sole e aveva indugiato in basso, a est, nella volta celeste. Mentre discendeva, i suoi foschi raggi avevano incrociato quelli brillanti del sole e li avevano affievoliti o distorti. Le ombre delle cose avevano assunto forme strane e spettrali. Gli animali selvaggi nei boschi si erano spaventati di fronte alle ombre sconosciute che si proiettavano a terra. Erano fuggiti senza sapere dove, e gli abitanti delle città erano stati presi dal più profondo terrore, dallo sconvolgimento che spinse i leoni nelle strade civili. Uccelli e aquile dalle ali potenti, improvvisamente accecati, erano caduti sulle piazze dei mercati, civette e pipistrelli erano usciti fuori a dare il benvenuto alla notte precoce. A poco a poco il corpo pauroso sprofondò dietro l'orizzonte, e fino all'ultimo proiettò i suoi raggi di tenebra nell'aria altrimenti radiosa. Questa era dunque la storia giuntaci dall'Asia, dall'estremità orientale dell'Europa...”

Pur non approfondendo la questione, la Shelley dimostra di conoscere la tematica peste, poiché cita Daniel Defoe (“A Journal of the Plague Year”) e utilizza la guerra quale condizione che agevola la diffusione del male. In quest'ultimo aspetto però è da ravvisare un utilizzo della peste in chiave metaforica quale “male che porterà alla fine dell'uomo” ovvero l'egoismo e l'ambizione alla scalata sociale, atteggiamenti (alla base della guerra) che portano all'inevitabile subordinamento della famiglia (reputata sacra dalla Shelley e centrale) a un ruolo secondario, sacrificata in favore di battaglie, politica e grandi ideali sociali. Se ne percepisce il disagio dell'autrice, un rammarico per la sua condizione di vita e, probabilmente, una critica a Percy Shelley (per altri versi esaltato per le virtù intellettuali, così come sono esaltati i protagonisti del romanzo).

A migliaia morirono senza esser compianti, perché al cadavere ancora caldo giaceva disteso, reso muto dalla morte, chi quel morto piangeva” si legge.

Come raccontato da Manzoni, anche qua le autorità, sulle prime, cercano di dissimulare i sintomi, lasciano i negozi aperti e garantiscono gli spostamenti dei viaggiatori, perché il denaro è il primo aspetto che si cerca di tutelare. Alla fine però l'isolamento diviene inevitabile ma, prima di questo, si assiste a un fenomeno incontrollato di migrazione in Inghilterra (visione profetica) da parte dei cittadini degli stati del sud Europa flagellati per primi dal morbo. Gli accordi di Boris Johnson con il Ruanda non fanno parte della profezia ed ecco concretizzarsi il fallimento delle banche e dei mercanti, i primi a pagare i sintomi commerciali dovuti al blocco delle esportazioni e importazioni. Il senso del dovere viene meno. Si smette di lavorare e di studiare, ma non di abbandonarsi alla dissolutezza e ai divertimenti. Chi si ammala viene abbandonato a sé stesso, lasciato indietro nei trasferimenti proprio come avverrà ai contaminati di The Scarlet Plague (“La Peste Scarlatta”) di Jack London.

Campi ricoperti di erbacce, città desolate, cavalli senza cavaliere che si avvicinavano selvaggi erano ormai diventati abituali ai miei occhi; anzi, visioni molto peggiori, di morti che non erano stati seppelliti, e di corpi umani sparpagliati ai bordi delle strade...” In tutto questo, l'uomo non riuscirà a frenare il suo impulso teso a conquistare una posizione di dominio sull'altro. Pur ridotti a poche migliaia, ovviamene inglesi che poi si spostano in una Francia ormai ricoperta di cadaveri abbandonati sulle strade, gli ultimi superstiti finiranno col dividersi in due grandi gruppi uno dei quali gestito da un sedicente profeta intenzionato a muovere guerra contro l'altro. Un'idea che rispecchia la filosofia di Thomas Hobbes (teoria dell'homo homini lupus) e che anticipa la base su cui Stephen King stenderà il suo The Stand (“L'Ombra dello Scorpione”).

Impossibile poi non pensare a I Am Legend di Richard Matheson nella parte finale in cui il protagonista si muove con un cane al seguito oppure passeggia per le vie di Roma come farà il protagonista del film L'Ultimo Uomo della Terra (1964) di Ubaldo Ragona. L'epilogo, indeterminato e disperato, resta in sospeso, aperto a un destino che potrebbe essere anche ristoratore (il sole, del resto, continua a splendere nel cielo). Il protagonista sale a bordo di un'imbarcazione e si dirige verso l'Atlantico, alla disperata ricerca di una compagna. L'idea che possa trovarla, però, è difficile da ipotizzare, dal momento che i superstiti americani, prima di morire, si sono spostati in massa in Irlanda e poi in Inghilterra con un atteggiamento che ricorda molto quello dei pionieri del far west contro le popolazioni native (traspare un'immagine degli americani quali guerrafondai), trovando però pane per i loro denti.

CONCLUSIONI

The Last Man è un'opera assai voluminosa che avrebbe beneficiato di una revisione tesa ad alleggerirne la massa e a snellire la disperazione. La Shelley si fa prendere dalla propria condizione sentimentale, dall'impulso di esprimere e tentare di esorcizzare con la scrittura il suo dolore. Purtroppo questa impostazione rende in molte parti il testo assai pesante e ridondante, difficile da digerire per il suo insistere sulle sensazioni del protagonista e sugli aspetti legati al distacco dai propri cari, ma anche per sulla disperazione e sul pessimismo cosmico. Ne viene a risentirne il ritmo, completamente piegato dall'esigenza di abbondare nelle caratterizzazioni dei personaggi con pagine e pagine che ingessano il prosieguo della storia.

La Shelley dichiara apertamente lo spunto che è alla base della stesura del romanzo, confessando di essersi fatta prendere la mano. “All'inizio pensai di parlare solo della peste, della morte e, alla fine, dell'abbandono; ma mi soffermai con tenero affetto sui miei primi anni, e ricordai con sacro ardore le virtù dei miei compagni.

Ciò premesso, il testo è fondamentale per lo studio dell'autrice e per il successivo sviluppo del genere apocalittico e post apocalittico, un branca della fantascienza (e dell'horror) che deve molto a questa opera. Per l'epoca in cui è stato scritto, The Last Man ha tutte le caratteristiche che avrebbero potuto decretarne un grosso successo. Ha scontato il suo essere, per certi versi, troppo moderno (rispetto all'uscita) e, per altri, troppo vecchio per essere apprezzato dal grande pubblico di oggi. Il suo non esser stato concepito quale romanzo di anticipazione infatti, è un difetto troppo evidente. Diviene così una sorta di memento mori teso a evidenziare quali siano le cose da perseguire durante la vita e, al tempo stesso, riflettere sulla condizione dell'uomo, in un'ottica pacifista e orientata alla contemplazione del bello e alla ricerca dell'amore. Romanticismo e dramma trasudano da ogni pagina, aiutate da uno stile ampolloso tendente al poetico più smodato. A ogni modo e seppure a quasi due secoli dalla sua stesura è diventato un classico anche in Italia, raccolto, tra gli altri, nella collana I Primi Maestri del Fantastico.

 
L'autrice MARY SHELLEY
 
 
"La morte non è morte, e l'umanità non è estinta, ma semplicemente passata ad altre forme che non si assoggettano alla nostra percezione. La morte è una grande porta, una strada maestra per la vita: affrettiamoci dunque a passare, cessiamo di esistere in questa condizione di morte in vita e affrontiamo la fine per poter vivere!"

domenica 10 aprile 2022

Recensione Narrativa: LA PESTE SCARLATTA di Jack London.

Autore: Jack London.
Titolo Originale: The Scarlet Plague.
Anno: 1912.
Genere: Fantascienza.
Editore: Adelphi (2009).
Pagine: 94.
Prezzo: 9.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Novella minore firmata da John “Jack” London, antesignana di un sottogenere, quello post-apocalittico, che avrebbe fatto fortuna qualche anno dopo ma che già era presente grazie a opere quali The Purple Cloud (“La Nube Purpurea”, 1901) di Matthew P. Shiel e The Poison Belt (“La Nube Avvelenata”, 1913) di Arthur C. Doyle, uscito un anno dopo al qui presente The Scarlet Plague.

Noto soprattutto in veste di scrittore di classici per ragazzi, quali i più volte rappresentati al cinema The Call of the Wild (“Il Richiamo della Foresta”, 1904) e White Fang (“Zanna Bianca”, 1906), Jack London è stato un personaggio a dir poco controverso. Irruento, litigioso e genio assoluto, al punto da diventare lo scrittore più popolare e meglio pagato del primo quindicennio del secolo scorso (dopo però esser stato respinto più volte dagli editori), ma anche sregolato in tutto ciò che faceva, con una smodata passione per viaggi, alcool e antidolorifici (morfina).

Nacque a San Francisco, in California, nel gennaio del 1876. Figlio illegittimo di un astrologo ambulante (e di una spiritista), riversò nella vita l'ardore dovuto alle carenze affettive che lo portarono a dire di non aver mai avuto un'infanzia. Sviluppò per questo una personalità ribelle, un impulso che cercò di placare spingendosi sempre verso l'azione più estrema. Aderì agli ideali socialisti, tenne comizi pubblici e riprese gli studi dopo una prima esperienza burrascosa. Studioso de Il Capitale di Marx e, al tempo stesso, di Nietzsche, ma soprattutto avventuriero giramondo legato a un ideale mascolino da antesignano di Robert Ervin Howard, convinto dal messaggio darwiniano legato all'ineluttabilità della legge del più forte. London concepiva la vita come una guerra da combattere giorno dopo giorno, una lotta in cui era vietato distrarsi, perché il rischio di perdere cibo e libertà era dietro l'angolo.

Un mix di idee che lo portò a essere apprezzato sia dai regimi fascisti che da quelli del blocco comunista (ma non dai coevi critici americani). Cresciuto in un ambiente problematico, tra risse e furti, si fece le ossa nel mondo della malavita cittadina stringendo amicizie con soggetti equivoci. Ladro, capobanda di bulli di periferia, più volte arrestato per vagabondaggio, fu pugile, cercatore d'oro, marinaio, cacciatore di foche, fuochista, giornalista e inviato internazionale di guerra (seguì il conflitto russo-giapponese in Corea, finendo arrestato per tre volte). Vorace lettore di Robert L. Stevenson e Rudyard Kipling, da lui definiti quali modelli di riferimento, perfezionò le proprie idee leggendo anche filosofi del calibro di Herbert Spencer. Fu estremamente prolifico e poliedrico. Spaziò dall'avventura (suo genere di elezione) alla letteratura dell'orrore con concessioni alla fantascienza e al genere sportivo, sempre attento a dedicarsi a ciò che gli avrebbe garantito i maggior introiti. Infatti, non nascose mai di pubblicare per soldi. Dette alle stampe circa cinquanta libri, molti dei quali degli autentici gioielli, quali il censurato (e acclamato in Unione Sovietica) romanzo di previsione sociale The Iron Heel (“Il Tallone di Ferro”, 1925), l'autobiografico tristemente profetico Martin Eden (1925) e il fantastico The Star Rover (“Il Vagabondo delle Stelle”, 1915), oltre al racconto orrorifico The Red One.

Morì giovanissimo, a soli quarant'anni, stroncato da un mix di antidolorifici. La sua produzione ispirò fior fiori di maestri, quali Hemingway e Kerouac, fino a Stephen King e al “nostro” Lamberto Bava.

 
Ispirato da The Purple Cloud, The Scarlet Plague è uno dei primi esempi di post-apocalittico. London utilizza l'artificio letterario del flashback per narrare, dal 2073, una storia verificatesi nel 2013 nella “sua” San Francisco. Siamo dunque nell'ambito della letteratura fantascientifica, posto che London pubblica la novella nel 1912.

Nonostante il titolo, il tema della narrazione si concentra non tanto sulla “peste scarlatta”, bensì sulle reazioni degli uomini, messi al cospetto di una pandemia che riduce la popolazione mondiale da 8 miliardi di persone (dato profeticamente azzeccato da London) a 400.000 abitanti, e in seconda battuta sulla successiva regressione della società umana ai primordi della civiltà (con tanto di pellicce di animali utilizzate quali vesti e clave). London, in questo, fungerà da evidente modello di riferimento per Stephen King e il suo The Stand (“L'Ombra dello Scorpione”, 1978), che può considerarsi, a tutti gli effetti, un figlioccio di questa novella.

Poco è dato sapere del misterioso morbo che falcia il mondo del futuro. In una San Francisco ben messa in scena e governata da un'oligarchia di sette famiglie schiaviste e ultracapitaliste ("Consiglio dei magnati dell'industria"), tra auto volanti e dirigibili, il male consuma in meno di un'ora le vittime, mostrando la propria azione sotto la forma di uno scarlatto che prende a contaminare il biancore degli infetti. London, in questo, sembra richiamare il capolavoro di Edgar A. Poe The Masque of the Red Death (“La Maschera della Morte Rossa”, 1842). Chi siano i vettori di trasmissione resta un mistero assoluto (nessun riferimento ai topi, per esempio). Sappiamo solo che la malattia resta in incubazione per qualche giorno e che non è possibile combatterla con nessuna cura. Le reazioni degli uomini sono le più bestiali ed egoiste che si possa immaginare. La follia regna sovrana. Le autorità perdono il controllo della situazione, mentre gli epidemologici periscono uno dietro l'altro nel tentativo di confezionare vaccini. Tutto va allo sbando. London sembra non tenere conto delle lezioni offerte da autori quali Daniel Defoe (“The Journal of the Plague Year”, 1722) e Alessandro Manzoni, entrambi interessati a un approccio realistico della questione. Celebri infatti le pagine da loro lasciate che infondo una qualche speranza nel mostrare come, al cospetto della peste che flagellò Londra (1665) e Milano (1630), le autorità riuscirono a limitare i danni. Con London razziatori e vandali entrano subito in azione, appiccando incendi che, in poche settimane, spazzano via, forse più della peste stessa, la progredita società umana. L'elemento del fuoco purificatore, in parte ripreso proprio da Defoe (che parlò degli incendi di Londra del 1666 che posero fine alla peste), comparirà, seppur in misura ridotta, anche ne La Peste (1948) di Albert Camus e in The Road (titolo che ricorda un libro di viaggi dello stesso London) di McCarthy.

In London ogni forma di solidarietà viene accantonata. Chi si ammala è cacciato dalle comuni e abbandonato a sé stesso. Lasciato ai margini dei gruppi di superstiti che, per le vie, cercano auto e cibo, armati fino ai denti per difendersi dai predoni e dai cani randagi, vedendo nelle campagne la via di fuga. Il protagonista, il narratore stesso, si ritroverà presto solo, alla ricerca di simili sparsi sul territorio. Passerà tre anni prima di incontrare un altro uomo. L'indice di sopravvivenza è di uno su un milione.

London racconta tutto questo nella forma del “racconto orale” e per bocca di un ottantenne, un tempo professore di lettere e ora deriso dai nipoti regrediti al rango di selvaggi. Il mondo come noi lo conosciamo è sparito. La natura ha ripreso possesso della Terra ed è cresciuta rigogliosa laddove un tempo sorgevano le città. La peste, ma sarebbe meglio definirla epidemia pandemica, ha ribaltato i ruoli e permesso ai più forti fisicamente di prevalere sugli altri. Lo spirito socialista di London trapela nelle parti in cui parla dei magnati ormai cancellati o costretti a fungere da schiavi di chi, qualche anno prima, ben poco avrebbe potuto nei loro confronti. E' il tema del "ribaltamento" schiavo-padrone. I soldi, nel nuovo mondo, non contano più niente. La donna torna a essere serva dell'uomo, tra violenze e umiliazioni che la degradano al rango di fattrice. Si arriva persino a promettere in sposa bimbe di età adolescenziale, il tutto per rimpolpare la popolazione.

London non dimentica l'avventura e l'interesse per gli animali. Lupi e puma dominano incontrastati, mentre cavalli e cani scorrazzano liberi e inselvatichiti da decenni di totale abbandono. Le razze ideate dall'uomo sono scomparse in favore di ibridi ben più adatti al nuovo ambiente. Le influenze darwiniane sono palpabilissime e fanno di The Scarlet Plague una novella tipica della narrativa londoniana, seppur diversa per i suoi contenuti fantascientifici.

Il messaggio finale è all'insegna del pessimismo. A differenza di Manzoni, London afferma che non c'è giustizia nel mondo, poiché i buoni vengono uccisi mentre i crudeli sono risparmiati dalla peste. Seppur spazzata e ridotta a uno sparuto manipolo di superstiti, la razza umana è destinata a moltiplicarsi in vista di una nuova battaglia che produrrà nuovi milioni di morti. In uno slancio filosofico che ricorda Eraclito, London dichiara che nel perenne mutamento che contraddistingue la vita dell'uomo sussistono solo “forza” e “materia” e che queste producono tre tipi eterni di persone: il prete, il re e il soldato (chi prega, chi comanda  e chi lotta). Gli altri individui sono destinati a subire queste tre figure in un'ottica hobbesiana in cui l'uomo divora il suo simile, quale pedina di un ciclo destinato a ripetersi, poco importando la cultura e gli insegnamenti lasciati nel corso della storia dai più saggi. La natura umana, allora, è destinata a restare immutata e si connatura di una valenza maligna. La civiltà è vista, quindi, quale violenza dell'uomo sull'uomo, una realtà in cui i più sono destinati a soffrire a vantaggio di pochi, vale a dire di un elite di eletti che governano e tirano i fili del grande gioco della società. Tutto si estingue, eppure tutto tornerà come prima. Questo il messaggio finale lasciato da London che ricorda lo sfogo di Rod Steiger quando, in Giù la Testa di Sergio Leone, parla delle rivoluzioni.

Da segnalare, per gli amanti del genere, la novella Il Terzo Giorno (2020) di Lamberto Bava, anch'essa molto legata a questo lavoro di London.

 
L'autore JACK LONDON 

La polvere da sparo tornerà. Niente potrà impedirlo... la stessa vecchia storia si ripeterà. L'uomo si moltiplicherà e gli uomini si combatteranno. La polvere da sparo permetterà agli uomini di uccidere milioni di uomini, e solo a questo prezzo si svilupperà, un giorno, ancora lontanissimo, una nuova civiltà.”