Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

domenica 29 luglio 2018

Recensioni Narrativa: CROMANTICA di Gianfranco Manfredi.



Autore: Gianfranco Manfredi.
Anno: 1985.
Genere: Thriller Esoterico.
Editore: Marco Tropea Editore.
Pagine: 271.
Prezzo: 16,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
A distanza di un anno dalla lettura di Magia Rossa (1983), torniamo a occuparci del poliedrico Gianfranco Manfredi, autore marchigiano di adozione milanese, che qua troviamo molto cresciuto e maturato rispetto al primo romanzo che ce lo ha fatto conoscere.
L'opera qui oggetto di esame, data alle stampe due anni dopo Magia Rossa, è uscita per la prima volta nella collana "L'Avventura" di Feltrinelli e, a suo modo, prosegue nel solco tracciato dal fortunato romanzo che la precedeva. Manfredi insiste nell'intreccio tra giallo, storia italiana, arte e venature horror amplificando sempre più l'intento autoriale di comporre un romanzo totale. E' lo stesso autore a definire i contorni di questa ambizione, a nostro avviso centrata, chiarendo il concetto di romanzo totale quale "romanzo che alterni, attraversi e rimescoli tutti i generi, accumulandoli, divorandoli, digerendoli e riproducendoli con una generosità di scrittura massimalista tutt'altro che borghesemente ordinata e rigorosa."
In altri termini, Manfredi utilizza i temi del fantastico (ordini esoterici iniziatici, simbologie, strizzate d'occhio all'esoterismo demoniaco) per dar vita a un romanzo storico incentrato su fatti del passato (ripresi da accadimenti realamente accaduti) che andranno a riverberarsi, con l'espediente dell'intreccio giallo, nel presente, assumendo le forme di un'indagine molto particolare. Un modo di procedere che pone Manfredi assai avanti negli anni rispetto al 1985 e forse, anche per questo, meno apprezzato di quanto avrebbe meritato al momento dell'uscita del romanzo. Manfredi, pur costruendo in un modo diverso, può dunque considerarsi un Valerio Evangelisti ante-litteram (per alternare il presente al passato, pur mancandogli lo sguardo aperto e perso nel futuro) o, più congruamente, un Dan Brown prima maniera per il suo giocare con l'arte introducendo la figura del art detective prima ancora che il  Professor Langdon calamitasse le attenzioni di milioni di autori. I suoi protagonisti ricordano inoltre i personaggi correlati alle indagini di Lucas Corso ne Il Club Dumas di Arturo Perez-Reverte, sia per i collegamenti col passato, sia per le strizzate d'occhio al diavolo, spesso menzionato, non a caso uno dei personaggi centrali (tacciato di esser interessato alla riscoperta di una tradizione pittorica legata a un'arte demoniaca e maledetta) viene introdotto dopo aver lodato uno studio comparato tra le raffigurazioni del diavolo nell'arte italiana e in quella europea intitolato L'immagine del Demonio, ma soprattutto per la serie di studi e ricerche tese a comprovare l'autenticità delle opere su cui ruota l'intero mistero e che qualcuno non perde occasione di definire reliquie infernali. Manfredi, in intervista, dirà che "al centro della sua riflessione c'era il tema del falso", dicendo di essersi ispirato a F for Fake di Orson Wells.

Cromantica diviene così un tributo all'arte pittorica, un omaggio probabilmente che l'autore vuole fare al padre (guarda caso un pittore), che si mischia con altre passioni ovvero quelle per la storia e il fantastico, in un humus da ordini esoterici sotterranei a cui si accede solo dopo un percorso di iniziazione. Rispetto a Magia Rossa la componente fantastica sfuma, diventa un qualcosa che trasuda dalle righe ma che, alla fine del romanzo, rimane in background eppure costante e immanente.
Lo stile è decisamente visionario e onirico, appaiono dei momenti erotici piuttosto spinti e ben descritti (bellissima, pur se orientata al porno soft versione saffico, la scena in una vasca ottocentescesca con un satiro che libera vino dal proprio membro eretto), ma soprattutto appare più aulico e maturo rispetto a Magia Rossa. Manfredi evita quelle cadute di stile che, in alcuni frangenti, ammorbavano il precedente testo e questo determina un sicuro apprezzamento da parte dei critici, per così dire, classici, vuoi anche per l'innegabile studio che sottende al racconto di fantasia. Cromantica, pur nella sua semplicità di intreccio, appare più complesso nelle caratterizzazioni, per il suo aprire squarci nell'inconscio di più di un protagonista, assumendo i tratti di un'analisi romanzata forse costruita ad arte su delle figure specifiche tramutate in personaggi letterari. Non a caso il personaggio negativo è un critico d'arte piuttosto schizoide e paranoico che, pur dotato e colto, incarna tratti che sembrano voler evidenziare una certa presa di distanza dell'autore da certi personaggi che determinano, spesso e volentieri, le fortune e le sventure degli artisti.

La sinossi è densa di fascino anche se va a perdere un po' di spinta col procedere della storia. Tutto ruota attorno all'improvvisa apparizione di sei quadri completamente neri (che poi si scoprirà esser riconducibili indirettamente al genio di Angelica Kauffmann) affissi, all'insaputa di tutti, alle pareti di una mostra milanese intitolata La Luce Oscura e incentrata sui dipinti del settecento. L'episodio viene letto inizialmente come una burlonata o la protesta di alcuni operai scioperanti, ma l'analisi delle opere fa sorgere un'altra realtà. Alcuni restauratori riescono infatti a cancellare la patina nera e riportano alla luce dei dipinti dall'alto contenuto simbolico caratterizzati da una lucentezza impressionante e attorniati da cornici bruciate. Mistero totale sull'autore dei dipinti e, soprattutto, sulla ragione che ha portato il possessore a farli apparire, così camuffati, in una mostra di rilievo internazionale. Parte così un'indagine privata che coinvolge svariate figure, ognuna delle quali chiamata ad assolvere un compito ben preciso. Così abbiamo un detective privati, due restauratori, un'esperta in furti di opere d'arte, un critico d'arte, un'esoterista, un gallerista e intermediari vari. Come in ogni giallo che si rispetti, i coinvolti inzieranno a sospettarsi tra loro sempre più convinti di far parte di un gioco legato a una speculazione economica. A poco a poco però il lettore si troverà a spasso nella storia, catapultando dal settecento, durante le insurrezioni tra protestanti e cattolici, all'ottocento, nel clima rivoluzionario che porta il popolo a ribellarsi sanguinosamente ai danni della nobilità, fino alle depradazione di metà novecento messe in atto dai nazisti. Manfredi utilizza lettere, reperti di guerra e libri rispolverati dall'oblio delle biblioteche per ricostruire il passato dei dipinti che si scoprirà esser stati realizzati su delle tele capaci di vincere le fiamme, grazie a una composizione non ben specificata che sembra esser riconducibile a un procedimento alchemico legato all'oro. "C'è nei quadri una sostanza che li preserva... Abbiamo una sostanza, i suoi effetti e le sue cause. Quali sono i suoi effetti? I quadri non invecchiano e non bruciano. Qual'è la sua causa: la ricerca alchemica."
E' proprio l'alchimia e la correlazione con gli ordini inziatici segreti (nel testo la setta si chiama la Mercure e gli adepti sono i mercuriani) la sottotraccia del romanzo. Emilio Tadini, della rivista Panorama, ha, a nostro modo di vedere, ben colto questo aspetto, scrivendo che "costruzione e distruzione, unione e separazione, sono gli stadi successivi e indissolubili del procedimento alchemico che sta alla base della trama complessa del romanzo. E l'investigazione diventa un'iniziazione". Non a caso quest'ultima evenienza sarà quella a cui andrà incontro l'art detective che conduce l'indagine e che si troverà, suo malgrado, frapposto tra due associazioni, che hanno con lui in comune la passione di recuperare opere artistiche scomparse o disseminate in collezioni sperdute, ma hanno una finalità diversa. Laddove la prima mira alla conservazione, l'altra sceglie la via della distruzione. "C'è una direzione diversa, appassionante, si scava in culture sotterranee, si riporta alla luce quello che il potere ha voluto cancellare: l'eredità dei perdenti". Un clima che, ai tempi odierni, se ben ci pensate, si è respirato e, probabilmente, si respira ancora nelle regioni che hanno visto il califfato islamico assumere il potere. Sono sempre vivide in noi le immagini di spettacolari siti artistici demoliti in virtù di proclami che, in occidente, sono parsi tanto deliranti quanto folli, eppure vezzeggiati ed esaltati da certe culture.
Viene dunque a salire in cattedra il vecchio adagio alchemico solve et coagula (dissolvere il corporeo per consolidare il volatile) in un'apparente dicotomia che, per alcuni tratti, Manfredi cerca di superare arrivando a scrivere che "non ci sono due avversari. Dio e Satana sono parti dello stesso gioco. Satana è la manifestazione dell'intervento di Dio nella storia, il suo sicario."

In conclusione Cromantica è un romanzo apparentemente fantastico, per il suo utilizzare temi e simbologie proprie di questo mondo, che predilige tuttavia la struttura gialla per parlare di opere d'arte e fantasticare su un lotto di quadri realizzati con una tecnica rivoluzionaria andata perduta e legata a un processo alchemico. Elegante e aulico nello stile, si perde in qualche digressione di troppo, pur regalando visioni oniriche degne di nota e un epilogo più ordinato e calibrato rispetto all'irruzione nell'horror romeriano di Magia Rossa. Piacerà di più ai critici convenzionali rispetto ai meri appassionati della letteratura di genere. Più autoriale che di genere.

Gianfranco Manfredi, a sx, e il mistero
dei QUADRI NERI.

"Balmas riteneva che i dipinti fossero autori di se stessi. I pittori facevano da tramite, con maggiore o minore perizia... Non sappiamo come potrebbero essere immagini senza uomini, ma sappiamo cos'è un uomo senza immagini e senza sogni... Ormai sappiamo bene che il Potere non ha alcuna Immaginazione, e che l'Immaginazione non andrà mai al Potere (anche perché le ripugna), ma la peggior sconfitta per uno scrittore è che l'Immaginazione non eserciti più alcun potere su di lui."

giovedì 26 luglio 2018

Recensioni Narrativa: LA PELLE DEL RE di Fabio Lastrucci.



Autore: Fabio Lastrucci.
Anno: 2018.
Genere: Horror Comedy.
Editore: Delos Digital (formato Kindle).
Collana: Imperium Horror
Pagine: 48.
Prezzo: 2,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Fresca uscita per la collana Imperium Horror della Delos, casa editrice satellitare della Mondadori, a firma Fabio Lastrucci, vecchia conoscenza e scrittore ormai di lungo corso (classe 1962). Dopo aver pubblicato il saggio Com'era Weird la mia Valle con Vincenzo Barone Lumaga, l'eclettico artista napoletano torna alla narrativa creativa proponendo il piatto forte del proprio repertorio ovvero l'horror comedy, genere di appartenenza di svariati racconti pubblicati dall'autore per il Foglio Letterario di Piombino (tra i quali anche un volume curato dal sottoscritto) fin dalla prima decade del nuovo secolo. 
La Pelle del Re è un divertito e divertente pastiche calibrato sullo stile e sulla produzione del grande Stephen King. Lastrucci confeziona uno scatenato omaggio allo scrittore del Maine, che di sicuro se leggesse l'elaborato si farebbe delle grasse risate (siamo pronti a scommetterci), giocato sulla leggerenza dei temi e su un'impronta grottesca che permette di superare dei contenuti di mero ed esclusivo intrattenimento. Lastrucci mostra lo scrittore, caratterizzato quale simpatico cialtrone che tracanna birre, ordina regali assurdi (una pianta carnivora che distruggerà l'intera collezione di piante della moglie) e vive nel caos più assoluto (simpatico che sia King che la moglie si riferiranno alla loro figlia attribuendole la colpa di vivere nel disordine per aver imparato dall'altro genitore), in un goffo e grossolano episodio di vita familiare. Il testo procede tra i litigi con la moglie Tabitha (epilogo in stile distributore impazzito di volumi di King che vengono lanciati contro il loro autore al posto dei canonici piatti), il disordine dei tre figli e gli sgangherati e macchinosi disegni criminosi di un collega scrittore (che non starò a dire chi sia) che si introduce nella casa della famiglia King con intenti omicidiari così da poter ridurre la concorrenza e vendicarsi dei minori successi riscontrati nelle classifiche delle vendite. Ovviamente, quest'ultimo, penserà bene di presentarsi incarnando il villain per eccellenza della produzione kinghiana: Pennywise. Ogni piano però, in casa King, è destinato a fallire, tra auto che si azionano per conto loro (ovviamente la mitica Plymouth Fury del '57 di Christine, che King tiene in garage), un San Bernardo idrofobo che assalta gli estranei (un tale Cojo, chiaro rimando al protagonista di Cujo) e vicini pazzi che richiamano i personaggi dei romanzi di King e a cui non vanno a genio i forestieri. In tutto questo marasma, King passerà buona parte del romanzo a dormire, ignaro degli accadimenti che attentano alla sua esistenza. "E' capitato di tutto, più che in un romanzo di Van Vogt" così il sarcastico Lastrucci sintentizzerà l'intera vicenda.

Punto di forza del romanzo, più che il soggetto, è lo stile narrativo. Lastrucci, molto abile a gestire dialoghi (eccellenti per il formato) e periodi, emula, specie in alcuni tratti, in pieno lo stile di King, riprendendo quella dilatazione tipica delle scene propria della verbosità dello scrittore del Maine e il continuo procedere per paragoni (tanto che l'altro scrittore accuserà King di questa caratteristica, non riuscendo a fare altrettanto) e citazioni di ogni sorta, dalle letterarie alle cinematografiche (gustososissimo tributo al film Convoy di Peckinpah, ricordato nel dialogo al baracchino tra due camionisti) nonché quelle musicali. "Con le tue citazioni mi fai aumentare il sighiozzo!" protesterà il collega, puntando una pistola verso King (mai seriamente preoccupato dal rischio morte). Altra caratteristica ripresa dalla penna più famosa della letteratura dell'orrore è l'indicare marche di oggetti al posto dei sostantivi, così, a titolo di esempio, vediamo citare frasi come "inforcò i Ray-Ban" al posto di "inforcò gli occhiali da sole".
Dunque un piccolo racconto, lungo appena quarantotto pagine, che si legge tutto di un fiato e che è caldamente consigliato ai "fanatici" di Stephen King. Un'opera che, nel suo essere volontariamente sgangherata, dimostra la maturità e la cultura raggiunta dall'autore. Lastrucci si permette con intelliggenza e parodia di giocare con il lettore, incentivandolo a ricercare la citazione nascosta, ma anche di scherzare con King molto di più di quanto fece Robert Bloch con i celebri Orrore dalle StelleQuel Vampiro di Lovecraft (l'autore di Providence raccolse il gioco in maniera decisamente più sibillina e tenebrosa con L'Abitatore del Buio). Chissà se il lettore cannibale del Maine non incappi, più o meno per caso, in questo racconto e, a suo modo, ricambi il favore. Sognare è un ozio economico che uno scrittore può e deve certo permettersi, Lovecraft e Lord Dunsany, a proposito di sarcastici, hanno costruito un'intera carriera su questo, facendo dei loro sogni i veri e propri conduttori dei propri racconti.
Torniamo però al romanzo/racconto lungo, onde evitare di perdersi come la protagonista de La Scorciatoia della Signora Todd (a proposito omaggio nel testo anche a Enzo Ferrari, Nuvolari e Gilles Villeneuve che, chicca per i lettori, aveva in Convoy il suo film preferito). La caratterizzazione del King di Lastrucci, più che un ritratto, rientra nella categoria caricature. Vediamo il "maestro" in formato macchietta calato in un contesto completamente sballato proprio come un personaggio che vive all'interno di un mondo reale che, in realtà, è a sua volta un romanzo. E' lo stesso finale a suggerire questa deduzione, con la moglie Tabitha che inizia a scagliare contro il marito, uno dietro l'altro, tutti i volumi più corposi scritti dallo stesso fino all'edizione di It extralusso, copertina in cuoio impresso oro e sovraccoperta telata. "Scrivete i dieci libri che vi hanno colpito" impazza di questi tempi su facebook. Lastrucci, usando il personaggio King, lo fa qua a suo modo, con il verbo "colpire" inteso in modo fisico piuttosto che emotivo o intellettuale. Il tributo al maestro del brivido si chiude infatti, alla stregua della rosa prodotto dell'esplosione dell'ultimo fuoco di artificio sparato in una notte buia e niente stelle, con la descrizione della traiettoria del capolavoro ambientato a Derry che va ad attingere il sorriso, alquanto idiota e remissivo, del suo autore. "Per King fu l'ultimo sprazzo di luce prima del grande THE END". Con i pagliacci c'è poco da ridere...
Breve, ma divertente. Dato il prezzo economico, due euro risicati in formato kindle, vale certo la spesa.

L'autore FABIO LASTRUCCI.

"Senza peccare di presunzione, sembrava proprio che il nuovo romanzo stesse crescendo a dovere. Non mancavano all'appello le descrizioni pignole, i personaggi tormentati, i colpi sotto la cintola. In più la magia del Fattore K dava sapore alla pietanza meglio di una spruzzata di ketchup e maionese su un cheeseburger."

mercoledì 11 luglio 2018

Recensioni Narrativa: DEMONI, UOMINI E DEI di Lord Dunsany.



Autore: Lord Dunsany.
Titolo Originale: Gods, Men and Ghosts.
A cura di: Everett Bleiler, 1972.
Anno: 1905-1952.
Genere: Antologia Fantastico.
Editore: Mondadori, 1989.
Pagine: 318.
Prezzo: 9.000 Lire.

A cura di Matteo Mancini.

INTRODUZIONE
La lettura di Demoni, Uomini e Dei, antologia pubblicata dagli Oscar Mondadori nel luglio del 1989 ovvero ventinove anni fa, si presenta, al nostro cospetto, quale occasione propizia per avviare l'articolo dedicando ampie righe alla figura di un autore, l'anglo-irlandese Lord Dunsany, che è stato, a ragion veduta, definito quale il primo autore di lingua inglese ad aver dato il là alla narrativa breve di genere fantasy. Una scelta su cui poi costruiranno la loro fortuna ampie schiere di scrittori di stampo weird e pulp, andando a fissare le coordinate dell'odierno new weird che non sarebbe stato quello che oggi è se non ci fosse stato questo autore. Il giudizio appena espresso è senz'altro vero, ma da monitorare sotto una lente interpretativa più precisa e calibrata al caso concreto. Sulla scia di William Morris, padre della fantasy fiabesca come noi oggi la conosciamo, Dunsany sfrutta il canale offerto dai mondi meravigliosi e alternativi, rispetto a quelli “reali”, per plasmare una personale cosmogonia che innescherà le produzioni dei vari e monumentali Lovecraft, Howard, Smith e Jean Ray, tanto per citarne alcuni, così da fungere da padrino di un nuovo e fortunato genere. Una produzione dunque centrale, vera e propria matrice di un sottobosco artistico che avrebbe, di lì a poco, stravolto la narrativa fantastica, sia fantasy che horror, e quella legata alle altre forme di espressione artistica. Dunsany, che diceva di “scrivere solo ciò che aveva sognato” (Lovecraft lo emulerà anche in questo dicendo che, in realtà, i suoi racconti non erano frutto del suo estro ma dei sogni che lo rapivano nelle ore del sonno), lascia il proprio faro guida galoppare, libero e tagliente, in contesti totalmente stravolti e intrisi da una fantasia geografica aliena dai luoghi tangibili dai comuni mortali; una landa immaginifica definita, per tale ragione, the secondary world ovvero un mondo immaginario idealmente parallelo pur se, talvolta, secante rispetto al primario in cui ognuno di noi muove i suoi passi. Oggi, a leggere queste righe, non è facile comprendere la portata che i lettori dell'epoca si vedevano somministrare da chi vendeva loro le ultime novità produttive. Ecco allora che c'è il rischio di non comprendere l'importanza della rivoluzione narrativa condotta da questo autore. Un po' perché siamo abituati all'evasione, sia in lettura che abbarbicati a bocche aperte (più per ingurgitare pop corn che per dare libero sfogo a quel sense of wonder che è andato, via via, sempre più ad atrofizzarsi) sulle poltroncine rosse dei cinema, dal mondo abietto e materialista che ci circonda e un po' perché, ai giorni nostri, il the secondary world esiste davvero, in modo quasi concreto, e ha il nome di “realtà virtuale”. Come potremmo infatti definire il coacervo di informazioni e di caratteri che, alla stregua di inchiostro impazzito, si allargano su supposte pagine su cui nessuna penna è passata a lasciare il segno? Un caos di informazioni che, quasi per magia, assumono un senso compiuto e si dipanano in un intreccio il cui bandolo, se sbrogliato, può dar i natali a intrecci di senso compiuto? Cosa sono i social forum e i blog? Se lo chiedono in molti, tra coloro che non preferiscono la posizione di quiete confortevole della banalità imperante. Semplicemente tutto e il contrario di tutto, un mare magnum in cui è facile affondare ma che, a orizzonte, lascia intravedere le linee sinuose di una costa avvolta da un colore che assurge sempre più al rango di giungla. Se Dunsany tramutava queste visioni in un racconto come Un Racconto di Terra e di Mare, vantandosi peraltro di essere in condizione di tramutare anche il nulla in racconto (come quando disse di esser in grado di smerciare una storia sul fango del Tamigi, riuscendo puntualmente a dimostrare l'assunto), gli scrittori del nuovo millennio, siamo pronti a scommetterci presso alcuni autori di libri (i c.d. books maker), plasmeranno il loro mondo su altri lidi e questo non costituisce certo soluzione gradita a un tradizionalista quale Dunsany. Ma conosciamo meglio questo autore e addentriamoci nella sua storia.

LO SCRITTORE.
La storia di Lord Dunsany, almeno questo il nome col quale è passato alla storia nella letteratura, parte da molto lontano e ha un che di magico ed epico fin dalle origini. Sebbene si presentasse spesso in modo sciatto, in parte sfavorito dallo sgraziato fisico che, seppur longilineo, lo faceva risultare allungato in modo tutt'altro che proporzionale rispetto al resto del corpo, nel sangue di Dunsany scorreva sangue blu. Una condizione sociale che si riverberava già in sede di presentazioni e convenevoli, un po' come quando, giusto per far storcere la bocca ai puristi, in Rocky III lo speaker presenta Apollo al pubblico con il vecchio campione che chiede scusa a Rocky per la lunga serie di appellativi. Dunque le generalità interminabili a caratterizzarlo, semplicemente sintetizzabili in Edward Plunkett e il titolo di XVIII barone del casato di Dunsany. Uno status che non era tuttavia sufficiente a esorcizzare l'ilarità tipica di certa nobiltà locale tesa ad attribuire maggior significato alla forma piuttosto che alla sostanza, con espressioni, in verità alquanto becere, quali “Oh Signore, è l'uomo peggior vestito d'Irlanda” oppure “chi mai avrebbe potuto immaginare che una simile poesia non trovasse corrispondenza nell'uomo che ne è autore... Orrore, tremendo orrore, cara mia.” Lord Dunsany non se ne faceva in qua e in là, anzi ribatteva con la sua verve ironica facilmente intuibile anche dai racconti che piazzava su riviste e giornali e che raggiunse uno dei suoi apici il giorno dell'incoronazione della Regina Elisabetta II. Badate bene, non è un giorno come un altro per un nobile come lui. Ci sono delle regole, scritte e non, nel galateo di certe caste. Regole che quando si ha a che fare con gli artisti saltano come le marcature sul finale di una partita di calcio ancora da decidere. Dunsany, invitato all'evento, pensò bene di fare un viaggio in California e lo motivò a modo suo, non certo su basi solide o cercando quell'ipocrisia tipica del bon ton di estrazione nobiliare. Niente di tutto questo, non sarebbe stato nello stile di un narratore di razza. “Mi hanno trascurato, che festeggino tra di loro.” Una frase sibillina, con spiccate punte di un sano narcisismo che lo elevava a eroe delle penna, ma che mal si conciliavano a un ufficiale dell'esercito e soprattutto a un diretto erede di una famiglia di avventurieri franco-normanni che invasero l'Inghilterra agli ordini di Guglielmo il Conquistatore e nel XII secolo conquistarono pure l'Irlanda fondando due Signorie che dominavano incontrastate nella zona più ricca dell'isola. Non a caso, i discendenti di Dunsany venivano chiamati baroni di rapina, tanto che chiunque passasse per le strade dei loro casati avrebbe dovuto dar conto a questa famiglia e inimicarsela non costituiva certo testimonianza di grande intelligenza.
Dunque la nobiltà quale estrazione sociale a rendere ancor più affascinante la figura di un uomo quasi in antitesi con il profilo tipico dello scrittore. Niente a che vedere con personaggi dediti a notte brave, alcool e disturbi, più o meno velati, di carattere psichico. Tutt'altro. Lord Dunsany incarnava più il ruolo dello spaccone, ma con moderazione e senza farsi prendere da abitudini ciarliere o millantatorie. Al contempo grande uomo d'azione e grande uomo d'intelletto, qualità che lo portavano a eccellere in più campi in un modo tale da trasformarsi, lui stesso, in un personaggio da romanzi.
Ufficiale presso il corpo della Coldstream Guards, sezione fucilieri, partecipò alla seconda guerra boera e alla prima guerra mondiale, distinguendosi sul fronte fiammingo. Militare di professione, tuttavia, si caratterizzava per alcuni hobby pittoreschi. Fanatico di caccia grossa, non perdeva occasione per finanziare i propri viaggi e dedicarsi alla caccia al leone nella Savana. Dirà in vecchiaia di aver dedicato più tempo a questa attività che alla scrittura. Abile giocatore di cricket, ma soprattutto fanatico giocatore di scacchi al punto da strappare il titolo di campione d'Irlanda e di piegare, in una storica partita disputatesi a Londra, il campione del mondo Capablanca, evento che lo portò a pubblicare dei volumi in cui spiegava i problemi di scacchi che aveva ideato. Dunque una personalità complessa, ma non direi certo complessata, che estrinsecava in più campi, ivi compresi quelli del sapere. Rimasto folgorato da una commedia teatrale nel 1903, The Darling of the Gods, ambientata in un Giappone mitico, iniziò a meditare su esotiche divinità e tempi siderali sospesi in epoche non bene precisate. Un assillo che, due anni dopo, all'età di ventisette anni lo portò a pubblicare un'antologia di trentuno fulminei racconti che avrebbero segnato l'inizio di una scintillante carriera, ma soprattutto la base attraverso la quale influenzare i colleghi maestri del fantastico. Bella la definizione dell'antologista Everett F. Bleiler, a sottolineare l'immediatezza piuttosto che l'artificiosa costruzione dell'idea di partenza, che dirà di lui: "Più che un architetto era un orafo".
Il problema di trovare un editore non costituiva un ostacolo insormontabile per lui, ben informato sul fatto che quando si ha i soldi non ci sono ostacoli che tengano. Così finanziò di tasca propria The Gods of Pegana (pubblicato in edizione integrale, alcuni mesi fa in Italia dalla Golem Libri, a cui va il nostro elogio per lo sforzo di divulgazione) e debuttò in veste di scrittore. La visibilità e le conoscenze non gli mancavano, forte degli studi a Eton e Sandhurst, e soprattutto di amicizie influenti come quella del Premio Nobel William B. Yeats che lo produsse, cinque anni dopo, in teatro, facendo di lui una delle punte di forza dell'Abbey Theater (il primo teatro nazionale irlandese), e lo introdusse nell'ordine esoterico della Golden Dawn, autentica fucina di talenti del fantastico. Un humus che permise a Dunsany di maturare, ma soprattutto lo incoraggiò in un percorso di crescita che lo portò a pubblicare qualcosa come sessanta volumi, alternandosi tra racconti, poesie e commedie per il teatro, e ad andare in giro per gli Stati Uniti a fare conferenze. In quest'ultima attività, nel 1919, recitò un ruolo determinante nella formazione del giovane Lovecraft, che ebbe modo di toccare con mano quello che reputava il suo secondo grande maestro dopo Edgar Allan Poe e da cui mutuò l'idea di dar vita a una cosmogonia personale, senz'altro sbilanciata sul versante dell'horror, con contaminazioni fantascientifiche, piuttosto che giocata sul fiabesco con marcate stilettate di ironia satirica tipiche dell'anglo-irlandese. Sul finire degli anni '30, abbandonata la carriera militare, Lord Dunsany provò persino il gusto di tramutarsi professore di inglese ad Atene, per poi ritornare in patria per sfuggire all'invasione nazista. 
Celebre la sua avversione per la tecnologia e le modernità, aspetti che non potevano che conquistare il cuore del Solitario di Providence (perfetto esempio di conformista refrattario al mondo nuovo), che andava a manifestare, col suo classico cliché provocatorio e sopra le righe, vantandosi di scrivere i propri racconti con una penna d'oca imbevuta di inchiostro. Solo così si distinguevano i veri scrittori, immaginiamo di sentirgli dire, tenendo accanto quel bicchiere di whisky che spesso si vede presente nei suoi racconti.
Poliedrico in chiave autoriale, prediligeva la scrittura quale via di fuga dal reale. Il suo era un bisogno di liberare la fantasia, condurla nei meandri dell'immaginazione, poco interessandosi di fare l'allegorico o di celare messaggi esoterici. Assai più diretto dei colleghi della Golden Dawn (che invece, spesso, facevano dell'ermetismo la propria arma primaria), Lord Dunsany fornisce la sensazione dell'autore che si diverte a scrivere e scrive per il gusto di plasmare mondi incantati, più vicini alla fiaba che al terrore. Diretto, immediato e senza fronzoli con costruzioni narrative, talvolta ripetitive e in parte limitate da tematiche ritornanti (quali l'esaltazione di antieroi, soprattutto ladri che poi soccombono, o di divinità capaci di interagire con gli umani, dando anche sfogo a debolezze tipiche dell'uomo come la gelosia e la vanità) che si manlevavano dal rischio deja vù per effetto di contorni scenografici propri di mondi estranei, lontani nel tempo e nello spazio, totalmente frutto dell'immaginazione e dunque agevolatori della sensazione di sense of wonder (il gusto per il meraviglioso o lo strano). Nei suoi testi la sensazione di trovarsi all'interno di una fiaba diviene costante, ne è dimostrazione più palese il suo romanzo più celebre: La Figlia del Re degli Elfi (1924). Un modo di concepire la letteratura che sarà poi percorso da un certo Tolkien, che sublimerà e rinforzerà all'ennesima potenza ciò di cui Dunsany aveva già fatto cenno. Lord Dunsany però non era solo questo. Non lo definirei uno specialista monotematico. E' stato anche l'ispiratore dell'heroic fantasy poi fatto volare da R.E. Howard, con una serie di racconti di spade e magie (soleva dire che “la magia è il sale della vita, la sua essenza, il suo ornamento e la sua gloria”), ma soprattutto è stato un autore capace di amalgamare in modo lodevole l'avventura all'azione, sfruttando le esperienze personali di gran viaggiatore, senza mai dimenticare una caratteristica che sarà smarrita da molti suoi epigoni: l'ironia dissacrante (molto simile al primo Jean Ray, in questo).
Ci congediamo, a malincuore perché di certi autori parleremmo all'infinito senza paura di tediare la nostra voglia (sulla vostra invece non saremmo pronti a scommettere), con le parole, forse, del più grande maestro di cui la letteratura fantastica può fare vanto. Autore eccezionale, criptico (a differenza di Dunsany), ma soprattutto grande divulgatore e difensore dell'opera dei colleghi. Stiamo parlando di Jorge Borges che incluse, nella sua poderosa collana Le Meraviglie della Biblioteca di Babele, l'antologia Il Paese dello Yann (permettendo anche al pubblico italiano di conoscere un autore non proprio ben distribuito nella nostra landa), scrivendo: “Nel nostro secolo di noti scrittori impegnati o cospiratori che ansiosamente ricercano il proprio cenacolo e vogliono essere gli idoli di una setta, è insolita l'apparizione di un Lord Dunsany, che ebbe molto del giullare e si affidò con tanta facilità ai sogni. Non evase dalle circostanze: fu uomo d'azione e un soldato, ma anzitutto fu l'artefice di un beato universo, di un regno personale che fu per lui la sostanza intima della sua vita.” Giù allora il cappello davanti a Borges e a tutti i grandi maestri del fantastico!

Copertina di un edizione del volume
in lingua inglese.

IL LIBRO: GENERALE
Gods, Men and Ghosts è una raccolta uscita nel 1972 a cura di Everett Bleiler, proposta al pubblico italiano da Mondadori, nella persona di Giuseppe Lippi, nel 1989, in cui sono radunati trentaquattro racconti dell'irlandese Lord Dunsany. Testo variegato, mira a far conoscere al pubblico della nostra penisola uno scrittore che è considerato il maestro di Lovecraft e della fantasy moderna, in special modo l'heroic fantasy e la sword & sorcery, ma che, tuttavia, è quasi del tutto ignorato in Italia, ivi compreso nelle attuali guide edite dall'Odoya dedicate allo studio della narrativa fantastica, fantasy e del terrore.
Bleiler decide di proporre tutto il campionario fantastico, inteso nel senso ampio del termine, proprio della penna dell'irlandese, così da offrire una sufficiente panoramica, seppur in scala, della produzione dell'autore. Non si limita cioè a offrire il piatto forte e caratteristico dunsaniano, che comunque è prevalente andando a interessare almeno metà testo. L'antologia è difatti divisa in quattro sezioni: uomini; eroi e meraviglie; Jorkens; dei. Di queste quattro sezioni possiamo individuare tre grandi insiemi in cui far confluire i vari racconti. Se da un lato abbiamo la saga Jorkens, che Dunsany scrisse in età avanzata (1931-1954), più per aggradare gli amici, risentendo del filone in voga all'epoca (quello del nucleo ristretto di amici in cui si raccontano storie) tra cui è da annoverare I Racconti del Whisky di Jean Ray, e la sezione “uomini”, tra loro unite per raccogliere storie fantastiche e più convenzionali, dall'altra abbiamo la sezione “dei” e quella “eroi e meraviglie” che costituiscono il fiore all'occhiello della produzione di Dunsany, non tanto per qualità offerta ma per l'innegabile impronta personale e la capacità di influenzamento di intere generazioni successive di scrittori. E' proprio grazie a quest'ultimo ciclo di racconti che nella narrativa fantastica si assiste a una sorta di recupero del paganesimo e, soprattutto, a una riscrittura di una cosmogonia tesa a fornire un'interpretazione dell'origine e della formazione dell'universo nonché del destino della razza umana. Destino quest'ultimo che ricorda, seppur in contenuti diversi, l'apocalisse di San Giovanni, essendo l'umanità destinata a una fine certa dai contenuti tragici e, a differenza della religione cattolica, senza margini di salvezza.  
Dunsany forgia così il suo pantheon di divinità e lo fa ispirandosi al politeismo della mitologia greca. A differenza di Machen o dei connazionali irlandesi, tra i quali Yeats, orientati a un recupero e a un'esaltazione della tradizione e della cultura nazionale, Dunsany evade dalla realtà, che comunque costituisce sempre il punto di partenza e di arrivo da cui tutto parte e tutto finisce, e dalla tradizione per accedere in un mondo del sogno grazie a una separazione dello spirito dal corpo da realizzarsi per effetto del sonno o, in alternativa, dell'assunzione di droghe o di alcool. Ecco allora che l'incoscienza e l'allentamento di quello che Freud definirebbe l'io diventano le chiavi di volta per conquistare il mondo superiore, il the secondary world, dove hanno sede e soluzione i misteri della vita. Un aspetto quest'ultimo che non poteva non coinvolgere e non trovare il gradimento di uno scrittore come Lovecraft (innegabilmente più macabro, pessimista e privo di quell'ironia tipica del collega irlandese) orientato alla fuga dalle banalità del mondo contemporaneo per trovare l'effimera, verrebbe da dire, consolazione di un mondo (forse illusorio) colmo di delizie e meraviglie in cui rifugiarsi in punta di piedi ben attenti a non farsi scoprire dai legittimati. 

Ecco allora che l'elemento del sogno, quale motivo di creazione, emerge in modo spiccato e ritornante nella narrativa di Dunsany. Un leit motiv continuo, a volte fastidioso, che si riverbera in molte storie, quasi a incarnare l'ideale di una fissazione da cui l'autore non riesce a liberarsi. Gli dei diventano la rappresentazione superiore della figura dello scrittore, ci sentiamo di sostenere, per il loro creare, in parte inconsciamente, durante un sonno produttivo di meraviglie che trovano concretizzazione, al risveglio, nella realtà. Non a caso lo stesso Dunsany, e poi Lovecraft, sosterranno di non essere i veri autori dei loro racconti, avendo ricevuto le immagini e i soggetti proprio durante il sonno. Una situazione quest'ultima del tutto identica a quella degli dei appena descritti.

Manifesto di questo ampio gruppo di racconti è indubbiamente Gli Dei di Pegana (1905), opera centrale della prima antologia pubblicata da Lord Dunsany, in cui viene spiegata, con spiccatissimo taglio fantasy all'insegna del più sfrenato sense of wonder, la creazione degli dei, dell'universo, del mondo e poi degli uomini (tutt'altro che le creature centrali nella produzione divina, bensì banali prodotti del gioco degli dei), con un Dio unico dormiente e ignaro delle azioni degli dei dallo stesso creati e artefici, per vincere la noia, della realtà che noi oggi conosciamo. Un dio egoista, accentratore, non innamorato delle proprie creature tanto che il suo eventuale risveglio viene visto quale fonte sicura di distruzione non solo ai danni delle creature generate dagli dei (tra cui l'uomo), ma degli dei stessi che hanno osato sostituirsi a lui. Una visione questa che influenzerà non poco Lovecraft e il suo pantheon di divinità mostruose in relazione con la figura di un uomo, inteso quale razza, insignificante e destinato a soccombere senza speranza alcuna.
Lord Dunsany utilizzerà le coordinate tracciate da questo racconto per sviluppare leggende, storie e imprese incentrate sulle avventure degli dei e sulle loro interazioni con gli uomini, con ampia schiera di nani, giganti, profeti, maghi, ma anche draghi, creature ibride e quant'altro, con il Tempo dagli stessi dei creato visto quale un mastino e spazzino della realtà per far si che questa non collassi su se stessa.

Questa dunque la prima grande categoria di racconti, a cui sono da aggiungere la categoria “uomini” e il più coeso ciclo Jorkens. Bleiler raggruppa in queste due categorie i testi di Dunsany più legati al fantastico piuttosto che al fantasy. Se nel ciclo Jorkens abbiamo sempre la medesima partenza, all'interno di un club (il billiards club) dove si ritrovano sempre i medesimi personaggi a discutere di argomenti vari su cui poi si innescano le storie narrate da Jorken (uno scroccone tuttologo che si guadagna bevute gratis raccontando storie), l'altra sezione contiene storie più eterogenee. Caratteristica comune delle due categorie qui analizzate è l'allontanamento dal fantasy per indirizzarsi su tematiche fantastiche. Dunsany qua perde un po' di originalità, non è cioè distinguibile come nel ciclo degli dei, ma guadagna moltissimo in scorrevolezza e ironia. Non lo abbiamo sopra evidenziato, ma i racconti degli dei sono molto leziosi e non sempre facili da seguire, per effetto delle continue creazioni geografiche (non si contano le città e i contesti immaginari dipinti, è il caso di dire, dallo scrittore), ornamentali e animali, con totale stravolgimento delle regole naturali fino alla descrizione di fiumi aerei e viaggi corporei di valenza cosmica.
Dunsany dimostra così di sapersi destreggiare sia per tematiche che per stili narrativi, cambiando all'occorrenza per adeguarsi agli stilemi del caso. Un altro vantaggio dei racconti fantastici siglati Dunsany è l'assenza, o comunque la forte riduzione, di quel retrogusto di già letto che invece si respira, inevitabilmente (facendo parte di un ampio ciclo), nei racconti legati o comunque collegati alle coordinate tracciate da Gli dei di Pegana.
Ciò premesso, in via generale, chi non teme gli spoiler può, a buon diritto, procedere nella lettura che segue dove andiamo ad analizzare, uno a uno, i vari racconti scelti da Bleiler.

La copertina della recente edizione,
edita da IL GOLEM EDITORE,
de GLI DEI DI PEGANA.

IL LIBRO: PARTICOLARI
L'analisi dei racconti proposti nell'antologia non può non partire dalla sezione "dei" e, più in particolare, dal racconto Gli Dei di Pegana (1905). E' in questo racconto che Lord Dunsany fissa le coordinate della sua cosmogonia e libera quel seme che germoglierà, qualche anno dopo, con una lunga schiera di autori che avranno in H.P. Lovecraft e C.A. Smith i loro alfieri prediletti.
Elaborato di circa venti pagine, diviso in quattordici capitoli che si leggono come una sorta di racconto nel racconto. Non sempre di facile lettura, ironico, debordante rispetto alla comune esperienza, ma soprattutto contraddistinto da una spiccata trazione onirica, è il vero e proprio manifesto della produzione dunsaniana. All'inizio dei tempi c'era Pegana ("il centro di ogni cosa, perché ciò che c'era al di sotto di Pegana c'era anche al di sopra, e tanto si estendeva davanti quanto alle spalle") e MANA-YOOD SUSHAI, il grande Dio che ha creato gli dei per poi cadere in un sonno duraturo cullato dal tambureggiare di una divinità (Skarl) che ha il compito di non farlo destare dal sogno ("i suoi sogni non sono altro che gli dei"). Quest'ultima condizione è necessaria per la sopravvivenza degli dei (il risveglio di Mana-Yood Sushai comporterà la distruzione di tutto, dei compresi) che, nel frattempo, per vincere la noia hanno creato il mondo e gli uomini ("facciamo i mondi per divertirci"), entrando presto in competizione tra loro per gelosia e vanità, condizioni queste ultime che hanno portato all'ideazione del Tempo (definito un mastino degli dei) e della Morte, ma anche a far sì che l'uomo vivesse in una perenne ignoranza circa i mondi superiori. "Gli dei temettero grandamente per il segreto degli dei, e posero un velo tra l'Uomo e la sua ignoranza perché non capisse."  Ecco che abbiamo allora degli dei dai sentimenti umani, piuttosto altezzosi e arroganti ("noi siamo gli dei di Pegana, e nessuno è pari a noi"), intenzionati a mostrare la propria superiorità e appassionati del bello e dei ricordi, in una visione decisamente romantica pur se con accezione egoistica. "Le menti degli dei si commuovono ai ricordi più antichi, loro che non si commuovono di nulla." Dalla lettura si evince come la cosmogonia dell'autore sia trattata alla stregua di un sogno notturno fatto da Dio in cui prendono vita una serie di mondi che, in realtà, sono effimeri e destinati a cancellarsi al risveglio proprio come evaporano le lande e gli abitanti di quei paesaggi onirici che, ognuno di noi, ha intravisto almeno una volta nei piacevoli riposi notturni. Questo modo di concepire la realtà, ovvero il prodotto di un sogno, è un autentico marchio di fabbrica dell'autore che ritornerà più volte sull'argomento in più di un racconto.
Dunsany correda il testo, che non ha uno sviluppo lineare ma vive di episodi singoli e un po' sfilacciati, con una serie di leggende che trattano dei tempi in cui gli dei calcavano la terra. Parla così di Wornath-Mavai, una sorta di eden terrestre in cui al Tempo era bandita ogni possibilità di azione, ma anche degli scontri tra le varie categorie di dei e del destino di un universo che ha la sua fine già scritta in un grande libro sfogliato da Trogool ("la cosa che non è né dio né bestia"). "Tutto ciò che sarà sta scritto nel libro, come tutto ciò che fu... Trogool è la cosa che siede dietro gli dei, il cui libro è il Progetto delle Cose." Dunque una visione che concede poco spazio al libero arbitrio, la definirei decisamente fatalista e segnata fin dall'alba dei tempi, in cui non vi è alcuna via di scampo, neppure per gli dei. Un disegno che l'uomo non può conoscere, in quanto creatura inferiore. L'autore scrive un bel capitolo in cui assistiamo al tentativo di un profeta di comprendere il mistero della creazione, giungendo però al cospetto di quanto i suoi colleghi predecessori si sono già imbattuti dovendo arrendersi all'evidenza dei fatti. "Il segreto delle cose stava in cima alla Cupola del Padiglione della Notte, ma scritto a lettere confuse e in una lingua incomprensibile... E ora tu sai ciò che tutti i Grandi Sacerdoti sanno" vale a dire nulla.
Racconto dunque bellissimo e fascinoso, ricco di episodi narrati con uno stile lezioso e sognante. Nasce dalla lettura di questo testo, che propone divinità e contesti fantasiosi, l'impulso che porterà Lovecraft a dare avvio al ciclo dei Grandi Antichi con tutto il seguito di fedeli bizzarri (il clero di Mana-Yood Sushai è un clero sonnolento, che non prega perché se lo facesse sveglierebbe il gran Dio e allora, un po' come per il ritorno di Cthulhu, non ci sarebbero più i mondi e la distruzione scenderebbe alla stregua di una mannaia sul creato) e templi ancestrali. E deriva sempre da qua, a mio avviso, l'approccio pessimista e irrilevante della figura dell'Uomo nella geografia del creato. In altri termini, l'universo di Dunsany (che in via allegorica da il là a una visione alquanto sofista), e poi di Lovecraft, non è antropocentrico, tutt'altro. La razza umana, presentata come distruttiva e capace di generare guerre su guerre, è del tutto insignificante e idiota, assumendo valenza di una serie di pedine di un gioco utile a intrattenere gli dei, ma del tutto priva, per loro, di un interesse in termini di amore o di protezione. Gli uomini, così come gli dei, non sono destinati alla salvezza, bensì alla morte, i primi perché non generati da Dio e i secondi perché hanno speso il loro tempo a oziare e a giocare.

Su questo solco, che possiamo definire basico per tessere la tela del sottogenere incentrato sulle avventure degli dei, Bleiler semina circa metà raccolto dell'antologia, scelta che porta a inevitabili ripetizioni e sensazioni di già letto una volta giunti a fine lettura. Tra l'altro, contrariamente da quanto mi pare di aver letto, questo lotto di racconti, mediamente, è meno qualitativo, con rare punte di eccellenza per quel che riguarda il soggetto di base. I testi, infatti, spiccano soprattutto per la capacità inventiva dell'autore nel tracciare scenografie, contesti ambientali e vere e proprie visioni, con tocchi di penna cha sfiorano la poesia piuttosto che la semplice narrativa. Ma oltre questo, a volte, resta poco altro da ricordare.

In Tempo e gli Dei (1906) si narra della nascita della fantasiosa Sardathrion, città marmorea eretta da un giorno all'altro per effetto dal sogno notturno degli Dei. Città inaccessibile ai comuni mortali, conoscibile solo da coloro che hanno avuto un incontro con le antiche divinità ma da cui non è più possibile andar via, perché per coloro che hanno calpestato le vie di Sardathrion non vi sono più altre città adatte a fungere da dimore. Città adorata dagli Dei che l'hanno visitata in gioventù liberandola dall'azione del tempo o almeno questo è quello che credono. E' uno dei classici racconti che vive sulle visioni, senza riuscire a trasmettere altro. E' lievemente superiore Nella Terra del Tempo dove sono invece gli umani, nella figura di un Re alla guida di tre eserciti, a scagliare il loro attacco al Tempo così da poterlo eliminare e garantire l'immortalità alla razza umana. Il Tempo però è imbattibile e scaglia contro gli avversari degli anatemi che fanno invecchiare rapidamente gli stessi, portandoli a desistere dall'intento ormai vecchi e decrepiti. "Fecero guerra al Tempo per salvare il mondo e gli dei, e furono sopraffatti dalle ore e dagli anni."

Contorni mitologici Nella Comparsa del Mare in cui Lord Dunsany immagina una terra su cui scorrono fiumi che non confluiscono in alcun oceano finché Slid, un nuovo Dio proveniente dalla stelle (Lovecraft ancora), non scende sulla Terra, seguito da milioni di onde, e inonda una valle verde iniziando una lunga conquista pur se ostacolato dagli altri dei, che gli mandano contro venti, scogli e montagne, fino a trovare un punto di equilibrio.

Intelligente, ma embrionale Il Segreto degli Dei in cui troviamo l'idea che sta al centro del Malpertuis di Jean Ray. Il racconto è fulmineo e parla di un profeta che cerca il segreto degli dei, riuscendo a carpire che la loro vita è legata alle invocazioni dei fedeli sulla terra. L'essere ignorati dagli uomini, per gli dei, comporta la morte.

In Chu-Bu e Sheemish l'attenzione si concentra sulle bizze degli dei, un atteggiamento infantile che assume i tratti di un terremoto che provoca la caduta del tempio in cui sono venerati. Tutto si innesca per semplice gelosia. Lord Dunsany chiude il racconto in modo ironico, lasciando trapelare una velata parodia alle preghiere che vengono rivolte alle divinità e così, riferendosi alla preghiera fatta a uno dei due dei in competizione, scrive: “Una volta sono sicuro che a una partita di bridge mi mandò l'asso dopo che in tutta la sera non avevo mai avuto per le mani una carta decente.”

Strettamente correlati sono Bethmoora e L'Uomo dell'hascisc col primo racconto che pone le premesse su cui ruota il secondo. Entrambe le storie partono dalla realtà concreta, ovvero Londra, per estendersi oniricamente nella fantasiosa Bethmoora, città orientale che, da un giorno all'altro dopo la visita di tre messaggeri, è stata abbandonata dagli abitanti senza che se ne sappia il motivo. Se nel primo racconto Dunsany accenna il misterioso evento che ha fatto di Bethmoora una città fantasma, nel secondo testo, usando l'espediente del racconto nel racconto, introduce un personaggio che cerca di far chiarezza sugli eventi, partendo proprio dal resoconto che sta alla base della prima storia. Dunsany però non si prende sul serio e fa dell'ironia marcata la chiave di volta dei propri elaborati, trasformandoli in evasioni mentali più legate alle esperienze soggettive che alla concretezza, sussurrando sempre al lettore di essere al cospetto di un qualcosa mero prodotto dell'immaginazione. Piuttosto che insistere sul concetto del sonno quale via propedeutica per accedere al c.d. secondo mondo, questa volta fa cenno alla droga, appunto l'hascisc, da intendersi quale strumento utile a fornire un ponte tra il mondo reale e quello fantastico. L'hascisc diventa il mezzo che consente al protagonista di scindere il proprio spirito dal corpo e lasciarlo vagare fino alla mitica città, così da poterne scoprire i misteri. “L'hascisc ti trasporta letteralmente fuori di te. Come avere un paio di ali. Tu trasvoli su paesi lontani e altri mondi... Ho visto cose incredibili in mondi spaventosi. Siccome è l'immaginazione che ti trasporta lontano, è ancora soltanto con l'immaginazione che puoi tornare“ così afferma il protagonista, con Dunsany che provvede subito a evidenziare la propria ironia, traslandola direttamente sul creatore del mondo (io direi più della storia sia in senso lato sia nel concetto legato al decorso degli anni). “Una volta scoprii il segreto dell'universo. Ho dimenticato che cos'era, però so che il Creatore non prende sul serio la Creazione, perché ricordo che sedeva nello spazio con tutta l'Opera sua squadernata davanti e rideva.” Ecco dunque che le esperienze narrate da Dunsany diventano dichiaratamente menzoniere, meri voli pindarici in territori inesplorabili dai cinque sensi eppure visitabili da un ipotetico sesto senso stimolato o dal sonno o da sostanze psicotrope
Una piccola nota per i fan di Lovecraft è costituita dal fatto che, forse, il Solitario si è ispirato a questo racconto per il titolo del suo unico romanzo breve (Alle Montagne della Follia) essendo qua descritti “i Monti della Follia”. 

Meno riusciti In qual modo Plash-Goo giunse al Paese dove Nessuno Vuole Andare, incentrato sullo scontro tra un gigante e un nano che si risolve in favore del secondo, e Le Preghiere poco Giudiziose di Pombo l'Idolatra, in cui un uomo, non ascoltato in preghiera dalla divinità a cui si era rivolto, decide di interpellare in preghiera tutti gli altri dei per punire chi non ha esaudito la sua richiesta. Inascoltato da tutti, in quanto reo di aver violato la c.d. etichetta degli Dei (una sorta di deontologico principio), viene indirizzato da un iconoclasta ai confini del mondo, nel tempio in cui dimora l'unico idolo che accoglie qualunque richiesta, ivi comprese quelle che “nessun Dio rispettabile avrebbe mai acconsentito ad ascoltare.” Accecato dalla rabbia e spinto dal desiderio della vendetta, l'uomo si troverà a compiere una discesa infernale verso quell'abisso che lo ingoierà senza più speranza di ritorno.

Al di là dei racconti sopra descritti, il secondo gioiello di questo sottogenere è Giorni d'Ozio sullo Yann. In esso Lord Dunsany fa palese tesoro delle avventure dallo stesso vissute nella terra dei leoni per rimodularle e riproporle con caratterizzazione fantasy.
Il protagonista del racconto riceve un passaggio su un imbarcazione che, nel cuore della giungla, percorre il fantasioso fiume Yann fino allo sbocco in mare aperto. Dunsany tratteggia i contorni di un Cuore di Tenebra (1899), celebre capolavoro di Conrad, al quale sembra essersi smaccatamente ispirato, in salsa fantasy, trasformando il tutto in un'esotica avventura in un mondo plasmato dal sogno. Ecco che l'imbarcazione attracca in porti di città immaginarie in cui il mistero e il paranormale sembrano restarsene acquattati dietro gli angoli, pronti a sfilare i propri artigli per irrompere nella storia. E così scopriamo di Mandaroon, la città in cui “vi regnava una quiete di morte in cui pareva che nessuno passasse per quelle strade e le soglie delle porte erano invase dal muschio; in cui sulla piazza del mercato dormivano delle persone raggomitolate e in cui non è permesso fare domande per non svegliare gli abitanti della città, perché quando questi si sveglieranno, gli dei periranno. E se gli dei muoiono, gli uomini non potranno più sognare.” Vedete dunque come i temi tipici della produzione “classica” di Lord Dunsany ritornino tutti all'ennesima potenza in questo splendido racconto. Il sogno, inteso come prodotto del sonno, diviene la via sia per accedere al mondo del fantastico (lo stesso protagonista rivelerà a inizio racconto di aver vissuto una storia onirica), ma soprattutto per entrare in una dimensione divina lontana dal caos e dalla sterilità propria del mondo che noi conosciamo. La navigazione prosegue, tra le descrizioni faunistiche e ambientali proprie delle porzioni di giungla che lambiscono lo Yann, con passaggi evocativi intrisi di un fascino e di un'atmosfera propria del racconto fantastico d'autore. Ne costituisce un esempio lo stralcio che proponiamo qui di seguito: “Una fitta nebbia bianca comparve sul fiume, e si alzò lentamente. Si aggrappava agli alberi con lunghe braccia impalpabili, e si alzava sempre di più, rinfrescando l'aria; e bianche forme si muovevano nella giungla come se i fantasmi dei marinai naufragati cercassero furtivamente nelle tenebre gli spiriti del male che tanto tempo prima li avevano colati a picco nello Yann.
Tra un intermezzo e l'altro, necessario a mettere in scena il viaggio dell'imbarcazione e dilatare i tempi di narrazione, assistiamo all'attracco nei porti di altre affascinanti e misteriose città. Ne è una riprova la descrizione di Astahahn, che ritornerà protagonista in un celebre romanzo di Dunsany, in cui gli abitanti vivono in una perenne esaltazione del passato mitico e pagano per esser riusciti a“mettere in ceppi e in catene il Tempo, che altrimenti annienterebbe gli dei”; quindi arriviamo a Perdondaris, città dedita al mercanteggio, che sembra racchiudere in sé stessa il mistero legato a un mostro di proporzioni ciclopiche con le cui zanne sono state forgiate le porte di un tempio; e a Nen, dove un gruppo di Nomadi spaventano la popolazione locale dimostrando di esser in stretta relazione con gli spiriti maligni al punto da esser rispettati anche dai più velenosi serpenti della zona.
Testo davvero fascinoso, tra i migliori dell'antologia e che aprirà le porte all'antologia Il Paese dello Yann, proposta da Jorge Luis Borges per la sua biblioteca di Babele.
Bellissimo l'epilogo in cui il protagonista, un irlandese (chiaro alterego dello stesso Dunsany), si congeda dal capitano dell'imbarcazione (L'Uccello del Fiume), facendo capire ai lettori di aver vissuto un sogno dettato dalla sua stessa fantasia.
Similare, ma meno poetico e più votato all'azione è Un Racconto di Terra e di Mare, falso racconto fantastico che fa dell'avventura, pur se bizzarra, il proprio piatto forte. Un vascello corsaro (chiamato l'Allodola Scatenata), braccato da flotte di cinque nazioni, riesce a sottrarsi alla cattura grazie alla conformazione particolare dell'imbarcazione. La nave, infatti, ha una chiglia predisposta a sostenere delle sbarre e delle ruote di ferro che consentono al veicolo di viaggiare su terra. Sbarcata nei pressi di Algeri, la nave prende ad attraversare l'Africa sulla terraferma grazie anche a una coppia di 50 buoi saccheggiati in un villaggio. La marcia, lunga ed estenuante, deve far fronte a molteplici problematiche: dall'acqua che inizia a scarseggiare, all'umore della ciurma e al vento non sempre amico. Dunsany trasmette bene al lettore l'odissea del viaggio, scrivendo che la monotonia del Sahara non ha eguali. "La grandi paludi non possono competere con lui, né le pianure d'erba e neanche il mare; soltanto il Sahara è sempre uguale in tutte le stagioni... Il Sahara ha un suo fascino: per un giorno è bellissimo, per una settimana piacevole, dopo quindici giorni è già una questione di opinione, ma ormai si trattava di mesi!
Oltre ai problemi logistici, l'Allodola Scatenata dovrà sfuggire alle incursioni di una cavalleria di arabi intenzionati a depredarla. Il capitano ricorrerà a tutto il proprio acume per resistere agli affondi avversari, che si protrarranno per settimane, ricorrendo all'artiglieria pesante e ai moschettieri. Alla fine, giunti ormai nel cuore dell'Africa, il fiume Niger verrà in soccorso degli avventurieri e permetterà all'Allodola Scatenata di ritornare nel suo elemento naturale. L'ironia di Dunsany viene fuori all'epilogo quando, un po' come farà qualche anno dopo Jean Ray nei suoi Racconti del Whisky, il narratore, premuroso a che non venga ingannato il lettore, pena chiamata in causa dei giudici, rivelerà che l'avventura gli è stata raccontata da un marinaio ubriaco e proprio per questa ragione è da valutarsi come veritiera. “Non mi sarei mai avventurato a rendere pubblica questa storia se il marinaio fosse stato sobrio... In dino veritas è un vecchio proverbio collaudato e non ho avuto motivo di dubitare della sua parola a meno che il proverbio non dica il vero.


Più vicini a una visione cosmogonica cristiana sono i due racconti che pongono le premesse per il nascente heroic fantasy. Il più famoso dei due è sicuramente La Spada di Welleran (1908), con un Lord Dunsany che trae ispirazione dal ciclo arturiano (riferimento a Excalibur) ovviamente rimasticato e riplasmato in chiave squisitamente fantasy. La storia si svolge in un mondo parallelo sognato dal narratore (“non ho mai visto città più bella di Merimna quando la scorsi in sogno”). Descrizioni ambientali maniacali, in particolare quelle delle sei statue dei grandi eroi del passato che circondano, alla stregua di spaventapasseri (dissuasori anti agressione), le mura cittadine che hanno difeso nel corso degli anni della loro vita. Le statue rappresentano i guerrieri che hanno contribuito a portare la città alla vittoria in numerose guerre. Eroi che hanno trovato la morte in battaglia in modo stoico e hanno fatto di tutto per non cadere in mano del nemico che, per questo, non sa ancora con certezza se siano effettivamente morti.
Lo spirito epico impregna tutta la prima parte del racconto e deborda, dai contorni del mito, per tramutarsi in concretezza nella parte finale. Circondato da un esercito di invasori, lo spirito guerriero di Merimna, ormai divenuta città pacifica dopo un passato di gloria e di conquiste, risorge grazie alle anime dei sei grandi eroi. Ancora legati all'amore per la propria città, pur essendo ormai nelle grazie del signore (“E' difficile staccarci dal volto di Dio, è come un fuoco ardente, come un caro sonno, come un grande inno, e insieme c'è una quiete immensa, una quiete piena di luci”), i sei torneranno dall'aldilà per rivivere nei sogni dei cittadini di Merimna e indurli in uno stato ipnotico notturno che li condurrà a difendere la città pur non sapendo niente delle armi. Welleran, il più grande eroe di Merimna, si impossesserà di un giovane diciottenne ordinandogli di afferrare la sua magica spada che, da sola, si farà onore contro il nemico, salvando ancora una volta la città dalla capitolazione. Elaborato dunque che gioca con l'elemento sogno, vera e propria condizione che permette ai morti di interagire con i vivi: “nei sogni chi è morto vive e chi è sveglio non può sentire le anime dei morti.

La tematica della spada invincibile, seppur in un contesto assai più fantasy nonché anticipatore del genere sword & sorcery, si ripropone in La Fortezza Inespugnabile, se non da Sacnoth. Racconto di grande impatto descrittivo e impreziosito da un gusto architettonico e per il bizzarro che raggiunge le vette nella parte terminale del racconto, con l'ingresso in una sorta di tempio dalla formazione labirintica e cosmica. Qua Dunsany tende a mischiare il paganesimo al cristianesimo, ne è una riprova il rimando alla figura del diavolo.
Tutto ha inizio quando la popolazione dell'immaginaria Allathurion viene funestata dagli incubi notturni indotti da Gaznak, definito “il mago più grande degli spazi stellati”, orientati a influenzare i comportamenti degli uomini per spingerli a rifarsi agli insegnamenti di Satana. Gaznak è una sorta di divinità minore in odore di “satanicità”, un essere che, come i tipici dei di Lord Dunsany, fa del sonno cullato dalla musica la propria condizione di vita per influenzare gli uomini, creando meraviglie architettoniche: “I sogni di Gaznak, che uscivano dalla sua mente, si trasformavano in marmo lucido, e varcavano il bordo dell'abisso al suono della musica dei maghi.” Un essere che non può essere fermato da nessun mago della Terra e può essere sconfitto in combattimento solo da chi riuscirà a brandire la mitica Sacnoth ovvero una spada frutto del materiale (acciaio ultraterreno) presente nella spina dorsale di un coccodrillo-drago, solito dominare gli acquitrini del Nord, dotato di una pelle d'acciaio e una parte inferiore di ferro. Sarà il figlio del sire di Allathurion a sconfiggere il coccodrillo-drago e a forgiare la mitica spada con la quale riuscirà a mettere in fuga gli innumerevoli mostri e creature demoniache a difesa di Gaznak fino a sfidare quest'ultimo in duello a colpi di spada. Robert Ervin Howard attingerà qua i semi per il suo Conan.

Dal filone proprio degli dei e da quello dedicato agli antesignani dell'heroic fantasy si passa a una fantasy più generale con un breve lotto di racconti che vedono Lord Dunsany patteggiare per ladri e soggetti, assimilabili al successivo Diabolik, che si muovono in contesti di pura fantasia e che, pur se abili e rinomati, vanno incontro a un triste destino. Ne La Probabile Avventura dei Tre Letterati un popolo di nomadi, rimasto senza nuove canzoni da proporre, manda un trio di ladri alla ricerca del fantomatico scrigno d'oro, contenitore custodia di poesie di valore inestimabile. Per mettere le mani sull'oggetto i tre dovranno vedersela con fiere giganti, esseri mezzo gnomo e mezzo fata. Verranno scoperti, entrando comunque nella leggenda. Sulla stessa falsa riga è Il Tesoro dei Gibbelin in cui, sempre in un contesto fantasy con tanto di draghi parlanti, il protagonista si addentra nel territorio dei Gibbelin, mangiatori di uomini possidenti un tesoro di incommensurabile valore, al fine di sottrarre il bottino. Gli andrà male. Va incontro a medesima sorte la coppia di ladri protagonista in Come Nuth Avrebbe Esercitato la sua Arte sugli Gnol con la differenza di traslare dal mondo del fantasy a quello reale il sottofondo in cui ambientare la storia.
Dunsany prosegue nel genere con La Triste Storia del Gioielliere Thangobrind e del suo Tragico Destino. Protagonista è un gioielliere - attenzione (ancora l'ironia dissacrante), detto tale perché ruba su commissione dei gioielli rari - a cui viene dato l'incarico di sottrarre un diamante custodito in un tempio e incastonato nel grembo di un idolo ragno. Un po' come nei precedenti racconti, l'uomo, caratterizzato quale un diabolik ante-litteram, riuscirà nell'impresa di rubare il gioiello, ma dovrà fare i conti con l'idolo ragno che si porrà sulle sue tracce prendendo corpo e azione. Esilaranti alcuni passaggi, come la scelta di far battezzare la spada del protagonista col nome di “Topolino” (viene in mente la scena di Full Metal Jacket con Palla di Lardo che rivela al sergente il nome del suo fucile), e, tanto per cambiare, le scenografie e il contesto geografico di pura fantasia.

Cover di un'edizione inglese 
del quinto e ultimo volume dedicato a Jorkens.

Il resto dell'antologia è giocato su testi più vicini al genere fantastico, piuttosto che fantasy, oltre che sui sei racconti del ciclo Jorkens, anch'essi ascrivibili al medesimo genere. Lo scrittore irlandese diviene qua molto agile per stile e scorrevolezza, rendendo questa seconda metà fruibile per un maggior numero di potenziali lettori. Aumenta anche la qualità media dei testi con un'ironia ancora più spiccata.

La palma di migliori racconti di questo gruppo se la contendono, a mio modo di vedere, due storie dal sapore kinghiano. Sembra quasi costituire un antenato del romanzo di Stephen King Cose Preziose, Il Bureau d'Echange de Maux che vede al centro della storia un negozio dove i clienti, al prezzo di venti franchi giornalieri, si danno appuntamento per barattare i loro mali. Una volta chiuso l'affare però, ratificato dal bizzarro titolare del negozio, non potranno più fare ritorno. Altro testo che ispirerà Stephen King è Il Povero Bill. Fantastico puro con graffiate horror poi non tanto velate, ruota attorno ai poteri che un capitano di una nave è in grado di scagliare contro la propria ciurma. L'uomo, dedito all'alcool e dotato di una mira infallibile, ha appreso, su isole che non compaiono sulle cartine, il potere di far scindere temporaneamente dal corpo l'anima delle persone mandando l'anima nel posto che più desidera, dall'inferno alla luna. Così, i colpiti dal sortilegio cadono in catalessi e vedono la propria realtà scindersi in due parti con quella vissuta dall'anima percepita come la reale. Stanchi dei capricci del capitano, i marinai pensano bene di ubriacarlo e di scaricarlo su un'isola deserta con i viveri a sufficienza per vivere un anno. Felici di essersi liberati dal crudele datore di lavoro, scopriranno presto di esser stati gravati da una maledizione che impedisce loro di attraccare nei porti che via via trovano sulla loro rotta. Rimasti a corto di viveri, inizieranno a fare la conta su chi dovrà morire così da nutrire gli altri, con la speranza che il capitano muoia prima di loro così da far decadere la maledizione. Dopo tredici mesi, la maledizione verrà meno ma solo uno dei marinai riuscirà a raccontare il tutto: il povero Bill. Evidenti i riferimenti al racconto L'Arte di Sopravvivere, che era nato nella mente di King quale storia di cannibalismo poi trasformatosi in autocannibalismo.

Molto interessante è poi Il Gambetto dei Tre Marinai, vero e proprio tributo di Lord Dunsany agli amati scacchi. Racconto breve piuttosto classico, inerente al genere fantastico ma che, involontariamente, anticipa le partite di scacchi tra il campione del mondo e il computer. Lo scrittore anglo-irlandese non sceglie la via sci-fi, ma porta in scena una bizzarra sfera di cristallo, acquistata a Cuba, che ripropone la partita di scacchi e suggerisce le mosse vincenti al detentore.

Si entra nelle tematiche care a Lord Dunsany con Il Club degli Esuli. Altro pregevole pezzo, ispirerà, ci sembra il caso di dire, il Malpertuis di Jean Ray. Esce infatti da questo racconto breve l'idea degli dei che supplicano l'uomo per esser ricordati. Il protagonista infatti, dopo aver espresso il proprio pensiero sulle religioni morte e i loro dei, viene invitato da un re decaduto per presiedere a una cena dove sono invitati solo coloro che un tempo hanno regnato o coloro che si proclamano eredi dei sovrani che il mondo ha ormai dimenticato. Gli ex regnanti si ritrovano in uno scantinato maestoso che si trova in un quartiere di Londra. Il protagonista si chiede chi si trovi al piano superiore, ma la sua curiosità non trova ristoro né viene eliminata dalle risposte dei sovrani. Troverà risposta solo alla fine, in un epilogo che suggerisce la presenza, ai piani superiori, proprio degli antichi dei, sovraordinati rispetto agli uomini che hanno dominato la terra ma confinati nel dimenticatoio.

Giocato sull'ironia british Le Tre Barzellette Diaboliche. Nell'occasione l'autore butta un occhio alle storie delle Mille e una Notte. Al posto del Genio della Lampada c'è un emissario dell'inferno che acquista la virtù del protagonista, quella di ritenere le donne tutte brutte, in cambio di tre barzellette, apparentemente banali, ma che faranno letteralmente morire dalle risate i destinatari, ma solo la prima volta in cui verranno lette. Molto divertente e allo stesso tempo sinistro.
Vorrebbe invece distruggere Londra il mago protagonista del brevissimo e riempitivo Di Stretta Misura, elaborato che gioca tutto sulla battuta finale con cui il mago giustifica la mancata riuscita del proprio sortilegio accusando l'assistente di non avergli fornito l'elemento (il cuore del rospo che vive in Arabia vicino ai monti di Betania) che gli aveva richiesto. Altro epilogo all'insegna dell'ironia con la massima, deducibile dal testo, secondo la quale un mago non può certo fallire.
Costituiscono un incrocio tra fantasy e fantastico La Finestra Meravigliosa e L'Incoronazione del Signor Thomas Shap. Nel primo elaborato un giovane acquista da un venditore ambulante una finestrella che gli permette di affacciarsi su un mondo medievale, finché almeno non decide di romperne il vetro per interagire con lo stesso. La decisione determina la scomparsa del secondo mondo. 
Il mondo fantasy irrompe in modo più marcato ne L'Incoronazione del Signor Thomas Shap in cui un rappresentante inizierà a vivere due vite, quella di tutti giorni e quella plasmata dalla fantasia quale via di fuga per sopravvivere alla banale esperienza di tutti i giorni. Dapprima conscio dell'infondatezza della vita fantastica, incentrata su un modo medievale di pura fantasia, si vedrà sempre più preso da quest'ultima al punto da abbandonare la vita reale per la fantastica, cadendo in una catalessi senza più speranza di recupero. Lord Dunsany, a inizio secolo, immagina quello che al giorno d'oggi si è realizzato, per talune categorie di persone, per effetto del mondo virtuale, basti vedere la tematica dell'ultimo film diretto da Steven Spielberg (“Ready Player One”).

Rientrano nel sottogenere delle ghost stories i racconti I Fantasmi e Tredici a Tavola. Nel primo un diffidente circa l'esistenza dei fantasmi si trova costretto a rivedere le proprie posizioni e scruta, oltre al fantasma delle persone defunte, il peccato che le stesse si portano dietro e che ha l'aspetto di una bestia feroce. Scoperto dal fantasma dei vari peccati, il protagonista si salva dall'essere corrotto dagli stessi, che lo inducono a macchiarsi dei peccati dagli stessi rappresentanti, solo grazie a una serie di ragionamenti matematici. Nell'altro racconto, durante una battuta di caccia, un nobile si spinge troppo lontano per tornare indietro e viene ospitato in una magione infestata dai fantasmi. Mentre il primo racconto è un horror a tutti gli effetti, il secondo ha natura più squisitamente romantica.

I restanti sei racconti dell'antologia costituiscono una selezione del c.d. ciclo Jorkens, raccolto, nella sua interezza, in cinque volumi pubblicati da Lord Dunsany dal 1931 al 1953. Si tratta di elaborati equilibrati e facili da leggere, un connubio ben riuscito tra fantastico e ironia con storie che non si capisce mai quanto siano spacciate per reali o, piuttosto, siano le fantasticherie raccontate dal protagonista, appunto Jorkens, agli amici del Billiards Club, sede in cui prendono le mosse tutti gli elaborati. Lord Dunsany si ispira così, questa volta è lui a prendere dai colleghi, alle saghe dei vari Carnacki e Silence, ma anche ai Racconti del Whisky di Jean Ray (di cui condivide la costante presenza del whisky e la spiccata ironia) per quel che concerne la struttura dei testi. Ogni storia ha il suo abbrivio da una discussione da bar in cui si inserisce, o viene coinvolto, Jorkens, personaggio ubriacone e millantatore che vuol sempre dimostrare di saperne più degli altri sotto ogni più disparato argomento, obiettivo che puntualmente realizza.
Viene meno quasi del tutto il fantasy sostituito da un fantastico puro. 
Nel beffardo Il Segno un bramino, convinto sostenitore della trasmigrazione delle anime, conduce l'intera vita in aiuto delle persone più povere pensando così di poter rinascere nei panni di un grande politico in modo da poter cambiare il mondo. Per farsi riconoscere dai conoscenti, al momento della rinascita, prende a ripetere all'infinito un dato segno (forma di continuo con le mani una data lettera dell'alfabeto) così da fissarlo nell'inconscio della propria anima e ripeterlo una volta rinato. Jorkens, qualche anno dopo la morte del bramino, rivedrà disegnare quel segno da una lumaca, categoria disprezzata dal bramino e spesso dallo stesso calpestata. Un Lord Dunsany davvero "cattivo" e pungente che va a trovare l'unico neo nella vità santa di un uomo per trovare il verso di deriderlo nell'aldilà, facendogli ricadere contro una severa punizione. Niente male davvero.

Esilarante e ben calibrato Jorkens Consulta un Profeta, racconto in cui Lord Dunsany dileggia le corse dei cavalli, evidentemente rimasto scottato per una scommessa non andata a buon fine. Per cercare di verificare se la vita sia effettivamente legata al destino, Jorkens consulta un mago. Per testare il professionista, chiede allo stesso chi vincerà il Derby di Epson. Poco convinto, si recherà all'ippodromo e vedrà sfilare i tre cavalli indicati dal mago nelle prime tre posizioni, con tanto di colori e caratteristiche e medesimo schema di gara sbirciato all'interno della palla di vetro. Il sogno di ogni scommettitore. 
Rimasto impressionato, l'uomo tenta subito di sfruttare il mago e chiede se lo stesso sia capace di prevedere i primi tre di un'ulteriore corsa. Sentito il consulto, decide di puntare forte sul cavallo indicato come vincitore senza tenere di conto dell'ammonimento del mago. Quest'ultimo infatti spiega all'uomo che il libero volere è una specie di forza pari al destino e che affinché quest'ultimo si compia non vi deve essere l'interferenza del libero volere di qualcuno. Jorkens pensa che per non influenzare il risultato finale sia sufficiente non rivelare a nessuno i disegni del destino, senza considerare però che le sue forti scommesse hanno già alterato la regolare formazione del libero volere di tutti i coinvolti e così, nel vedere il cavallo disegnato vincitore arrivare tra gli ultimi, Jorkens pensa bene che gli allibratori abbiano fermato il fantino per non pagare le vincite che si erano impegnati a corrispondere in caso di vittoria del cavallo. “Non vi dirò quale era la corsa perché, se si viene a sapere ciò che vi racconto, non voglio che qualcuno venga a dire che non è il modo in cui si corrono le corse in questo paese. Si corrono proprio così, invece, ma non voglio dirlo” così spiega Jorkens. Evidente l'acredine lasciata in Dunsany da qualche risultato ippico non ben digerito. 
Sulla stessa lunghezza d'onda è Un Mistero d'Oriente che vede Jorkens narrare di quando riuscì, dopo aver contattato due sedicenti maghi in giro per il mondo, uno indiano e l'altro africano, a far sì che durante l'estrazione della lotteria di Dublino venissero estratti a sorte contemporaneamente i due biglietti dallo stesso posseduti ed esibiti, disgiuntamente, ai due maghi per testare la loro capacità di influenzare gli eventi futuri. L'ironia salta fuori ancora una volta, un po' come per il precedente racconto, poiché essendo stati contemporaneamente estratti due biglietti l'addetto alla lotteria ha pensato bene di reinserirli nell'urna e procedere a nuova estrazione. Il troppo stroppia come si suol dire...

Marcatamente più fantastico, eppur meno riuscito anche se capace di evocare tensione, è La Strada di Lingham che vede Jorkens, braccato da un pioppo ambulante (!?), trovare ristoro e salvezza in un bar dove servono whisky in abbondanza. Dunque un racconto che ricorda un po' Carnevale a Cadice (1928) di H.H. Ewers, ma che, a differenza del racconto del tedesco, resta sempre sospeso tra fantastico e farsa. 

Ancora più bizzarro e tendente all'esercizio di stile La Cassata Napoletana dove ritorna l'elemento della sostanza psicotropa, o comunque alcolica, utile a separare lo spirito dal corpo e farlo volare verso altri lidi, nella fattispecie le regioni artiche del nord. Finale beffardo con la neve che in realtà è il dolce su cui affonda la testa del protagonista inebriato dai fumi dell'alcool. 

Si entra nella fantascienza con In qual modo Ryan se ne andò dalla Russia, racconto assai diverso con Jorkens che vuol dimostrare ai suoi amici che i suoi racconti non sono affatto i più incredibili che si possano ascoltare a Londra. Per dimostrare l'assunto, il cantastorie pensa bene di condurre i suoi amici in un altro bar, rispetto al Billiards Club, e di far loro ascoltare il resoconto di un cliente del locale. Quest'ultimo, dedito alla degustazione dell'assenzio, racconta una storia che prende le mosse come un resoconto del filone spionistico per poi andare a parare sul versante space opera. Il protagonista racconta infatti di esser entrato a far parte, senza quasi rendersene conto, di una sorta di organizzazione segreta che gli commissiona di eseguire un sabotaggio in Unione Sovietica, procurandogli documenti falsi. L'uomo, dopo aver eseguito quanto richiesto, viene arrestato e condannato a morte. Tuttavia, i sovietici pensano bene di utilizzarlo quale cavia inviandolo, a bordo di un razzo, sulla luna. L'epilogo, ancora una volta, è intriso dell'ironia sarcastica di Dunsany con il protagonista che, sbarcato sul satellite terrestre, viene redarguito da un inglese (giunto evidentemente prima dei russi) che lo accusa di aver violato una proprietà privata!?

L'antologia dedicata a LORD DUNSANY
curata da J.L.Borges.

CONCLUSIONI
Demoni, Uomini e Dei è un'antologia fuori catalogo, comunque acquistabile su ebay a prezzi contenuti (circa 10,00 euro), che deve essere recuperata assolutamente dagli appassionati e studiosi dei generi fantastico e fantasy. Bleiler, il curatore, ha raccolto infatti un cospicuo numero di racconti che ben rappresentano, gialli e poesie escluse, il campionario proprio della produzione di questo autore, un vero e proprio ispiratore dichiarato e ammesso nella formazione del Lovecraft scrittore. L'antologia garantisce così una sufficiente panoramica, grazie a trentaquattro racconti di genere diverso, sulle "evasioni" fantasy e fantastiche di Dunsany. Siamo dunque alle prese con un passaggio obbligato per la costruzione della grande narrativa fantastica, passaggio che non può essere ignorato come purtroppo sembrano fare molti testi divulgativi della saggistica italiana dedicata all'argomento (ivi comprese le attente guide griffate Odoya). E' un vero peccato che questo autore non abbia, nella nostra penisola, il giusto riconoscimento che gli spetterebbe a pieno diritto, anche se qualcosa sembra muoversi come dimostra la recente pubblicazione integrale della raccolta I Dei di Pegana data alle stampe dalle edizioni Golem.
Non sempre facile da seguire nella sua parte fantasy, a causa non solo dello stile narrativo più ricercato e colorito, ma soprattutto per un contesto generale di totale invenzione, diviene molto scorrevole e divertente nella sua parte fantastica e del terrore. Lord Dunsany, che accenna spesso ad aspetti esoterici e potenzialmente paurosi, sembra tuttavia più indirizzato al divertimento e alla farsa, giocando con il lettore in una caccia alla risata celata dal mantello di una morte beffarda e ironica, che colpisce con la sua mannaia al ritmo di una barzelletta mortale. Imperativo per gli studiosi del genere, consigliato agli altri, soprattutto per gli appassionati dei racconti con gli dei e le divinità ammorbate dai vizi umani.
Concludo rinnovando i complimenti alle edizioni Golem per aver dato alle stampe la prima antologia scritta da questo autore ed esorto le altre case editrici, ormai sempre più impegnate nel recupero dei testi, a spolverare dall'oblio nuovi testi di questo autore, così da riportarlo sui piedistalli dallo stesso conquistati già in vita. Possono allora essere utili da ricordare, a tale riguardo, le sviolinate a esso dedicate dal grande scrittore e saggista H.P. Lovecraft che lo subordinava al solo Edgar Allan Poe (autore profondamente diverso e assai più macabro ma meno sognante e sarcastico).

Così, nel celeberrimo L'Orrore Soprannaturale nella Letteratura, lo scrittore di Providence parla del suo maestro: "insuperato per la poesia della sua prosa cristallina e melodiosa, e veramente sommo nella creazione di un mondo splendido e languido di visioni iridescenti ed esotiche... E' proteso verso un mondo fantastico di sola bellezza ed è impegnato in un'eterna guerra contro la volgarità e le brutture della realtà quotidiana... questo autore attinge con tremenda efficacia a quasi tutte le raccolte di miti e leggende orientali. Forma ellenica, tenebrosità teutonica e malinconia celtica si fondono tra loro sì da sostenersi e integrarsi a vicenda senza sacrificio e con perfetta omogeneità... La bellezza, più che l'orrore, è la nota fondamentale degli scritti di Dunsany... Spesso sono presenti anche umorismo e ironia a conferire un lieve cinismo e a modificare quanto altrimenti sarebbe di un'ingenuità macroscopica." Con queste dotte parole vergate dal grande Lovecraft ci congediamo, pronti a immergerci in nuove letture.

Lord Dunsany.

"A lungo ci guardammo, sapendo che non ci saremmo più incontrati, perché la mia fantasia s'indebolisce col trascorrere degli anni, e sempre più di rado parto per le terre del Sogno."

mercoledì 4 luglio 2018

Recensioni Narrativa: I RACCONTI DEL WHISKY di Jean Ray.



Autore: Jean Ray.
Titolo Originale: Les Contes du Whisky.
Anno: 1925.
Genere: Antologia Fantastico.
Editore: Edizioni Hypnos, 2013.
Pagine: 272.
Prezzo: 21,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Torniamo con estremo piacere a leggere e recensire un volume edito dalle Edizioni Hypnos di Milano, appartenente alla collana Biblioteca dell'Immaginario. L'occasione ci permette di incontrare, per la terza volta in questo blog, lo sfuggevole e misterioso belga Raymond Jean-Marie de Kremer, passato alla storia nel mondo della letteratura fantastica con lo pseudonimo di Jean Ray.
I Racconti del Whisky è la prima antologia, nonché il primo volume, data alle stampe dallo scrittore nella sua lunga carriera. Pubblicata a Bruxelles nel 1925, con discreto successo locale, contiene ventisette racconti brevi, usciti tra il 1919 e il 1925, a cui si aggiunge, nella edizione curata dalla Hypnos, un'analisi curata dallo scrittore Danilo Arona incentrata proprio sul più famoso collega belga.
Le edizioni Hypnos di Andrea Vaccaro, ancora una volta, si qualificano quale piccola realtà che si rende promotrice della riscoperta dei grandi maestri del fantastico, sottraendo dagli strati di polvere opere che non possono non entrare a far parte della biblioteca privata di ogni studioso del genere. I Racconti del Whisky, pur non potendosi definire un'opera centrale nel panorama fantastico, è comunque un testo molto importante per lo studio della carriera dello scrittore Jean Ray. Il volume risente e riflette il fatto di esser composto da storie scritte seguendo canoni e limiti editoriali ben definiti. La maggior parte dei racconti, non tutti di tema fantastico, seguono criteri di lunghezza imposti dall'alto, essendo stati destinati, nella quasi totalità, alla pubblicazione su giornali e riviste locali. Questo aspetto, da una parte, rende molto veloce la lettura. I testi hanno una lunghezza compresa dalle tre alle sedici pagine, con una media prossima alle sei pagine, e danno in generale la sensazione di esser al servizio di una promozione pubblicitaria in favore del whisky. In quasi tutti i racconti, infatti, compare sempre una bottiglia di whisky a fungere da leit motiv. Lo stratagemma consente all'autore di tenere unite storie molto diverse tra loro, ma anche di trasmettere una certa atmosfera decadente e a suo modo romantica.
Il whisky, dolce naufragar nell'oblio dei sensi, diviene allora la via di fuga, la sostanza amica che allenta la ragione e libera la mente aprendo la via alla dimensione del sogno ("Quando il whisky mi apre la splendida porta della Città del Sogno"). "Il whisky è il ruscello d'oro, la meravigliosa preghiera del sole che sgrana il suo silenzioso rosario di pepite dal bancone alla sabbia secca delle nostre gole..."
Ray costruisce magiche atmosfere inglesi, tra l'onnipresente nebbia e la pioggia a rendere ancora più opprimenti i vicoli notturni. Le storie, per buona parte, sono ambientate in un'immaginaria Londra, molte delle quali sotto forma di racconti narrati all'interno del bar "L'Angolo Incantato" in cui finiscono per ritrovarsi sempre i soliti reietti, prostitute e marinai squattrinati che vivono tra un furto e l'altro, sognando una vita che non appartiene a loro e che, secondo la comune esperienza, mai gli apparterrà; soggetti non certo raccomandabili, eppure dotati di un'etica spesso e volentieri superiore ai c.d. uomini perbene estrinsecata da una serie di rimorsi per non aver potuto condurre una vita civile degna di tal nome e da gesti di generosità (aspetto spesso latente nel caso degli individui benestanti). Ray tratteggia questi ambienti con un taglio allo stesso tempo sia fiabesco che pulp, senza grandi fronzoli o lirismi. Essenzialmente molto diretto, pur se con una certa scelta lessicale, plasma parabole che assumono i contorni di vere e proprie favole che si compiono quando la perdizione sembrava ormai alle porte, ma fa anche l'inverso innescando orrori indicibili, spesso e volentieri restauratori del bene e punitivi nei confronti di strozzini (bersaglio preferito nel testo) o persone comunque avare, o con un paranormale che poi trova giustificazioni beffarde e terrene frutto di credenze popolari o suggestioni che hanno indotto in errore i vari protagonisti. Dotato di ironia pungente, al punto da far saltare in mente i fulminei racconti con ribaltamento finale del satirico Ambrose Bierce, Ray si diverte in più di un'opera a regalare quello humor nero che fa impazzire gli inglesi con soluzioni anche irridenti. Tuttavia, si tratta di un Ray ancora un po' grezzo nel trovare quei soggetti che, nel corso della carriera, lo renderanno un maestro del terrore. Il testo risente del fatto di essere una prima opera, sebbene l'autore lo pubblichi all'età di trentotto anni. Lo si evince dai molti omaggi ai vari Bierce, Poe, Hodgson e altri nonché da un paranormale convenzionale ancora molto legato alla tradizione cattolica e al politicamente corretto. In altre parole, l'orrore di Ray non incarna il male, ma il soprannaturale che irrompe nella vita comune con valenza esorcizzante, andando a colpire i malvagi sotto forma di punizione divina. Ciò nonostante il divertimento non manca e soprattutto si possono leggere almeno una mezza dozzina di gioielli. Una lettura senz'altro utile ai registi di cortometraggi amatoriali sul tema fantastico, trattandosi di storie in linea di massima realizzabili con budget accettabili.

Copertine in lingua francese dell'antologia.

I racconti proposti li possiamo comprendere i tre grandi gruppi. Ci sono le storie dell'orrore caratterizzate da maledizioni legate a oggetti di antiche civiltà perdute, ghost story e testi che potremmo definire criptozoologici con incontri ravvicinati con mostri non sempre ben definiti. Il secondo gruppo di storie, che definiamo finte storie dell'orrore, verte su situazioni che sembrano rientrare nel primo gruppo di racconti se non fosse che alla fine si scopre, il più delle volte, un grave errore di percezione del protagonista, disturbato dalla prospettiva di osservazione o dall'alcool ingerito. Ecco allora che ciò che sembrava paranormale finisce per avere una spiegazione terrena. C'è poi il terzo gruppo di storie che non sono fantastiche dall'inizio alla fine, pur essendo scritte con uno stile weird o pulp. In questo caso si tratta di elaborati che vanno a insistere su un decadente romanticismo o su sviluppi fiabeschi che pongono fine alla sfortuna esistenziale del protagonista per una serie di casi fortuiti tali da stravolgerne la vita.
I racconti più riusciti appartengono, senza ombra di dubbio, ai primi due gruppi, soprattutto per la capacità di tenere sulle corde il lettore in vista, in svariati casi, del colpo di scena finale.

Veniamo nel dettaglio al contenuto, racconto per racconto, e lo facciamo partendo dal primo gruppo. L'antologia si apre con Irish Whisky (1923), ghost story che incarna, in tutto e per tutto, l'horror puro alla Ray prima maniera ovvero l'orrore che si innesca quale vendetta a danno di strozzini, gioiellieri, avari e datori di lavoro che sacrificano i dipendenti per il proprio guadagno. "Io e voi non abbiamo lo stesso Dio. Il vostro si chiama Visnù o Brahma, o Budda... Ma il mio Dio è là, dietro l'acciaio cromato e la serratura Lips della mia cassaforte. Giù il cappello! Si chiama Denaro." Così si presenta lo spedizioniere protagonista del racconto, un uomo che manda nell'oceano navi destinate a naufragare con tutto il loro carico per intascare il premio assicurativo convenuto alla partenza. Vediamo fin da subito intrecciarsi due veri e propri marchi di fabbrica della produzione di Jean Ray prima maniera. Da una parte la presenza di un Dio (definito "Il Terribile Occhio") che ritorce contro gli avari i mali dagli stessi perpetrati e lo fa consentendo alle vittime di questi di vendicarsi, dall'altra un orrore che usa il male per esorcizzare il male stesso. Così, in Irish Whisky, il fantasma di un giovane marinaio deceduto torna sottoforma ectoplasmatica e trasforma, a suon di dolorose manipolazioni, l'ex datore di lavoro in un ragno. Racconto a dir poco agghiacciante, un vero e proprio capolavoro con il finale più bello del volume. Pur ridotto in una poltiglia vivente, lo spedizioniere mantiene lo spirito che lo ha sempre condotto. "Dio gli ha lasciato tutta la sua intelligenza d'uomo nel minuscolo e immondo involucro" tanto da indurre la bestia ad agitarsi e a tentare di mordere i propri assistenti mentre, per divertimento, gli bruciano i soldi davanti agli occhi. Un modo per dire che l'avarizia non muore mai, anche quando ormai i soldi non servono più.
Le due anime che sottendono il citato racconto si ripetono in Josuah Gullick, Prestatore su Pegno (1924). Qui Ray fa un passaggio ulteriore, alla tematica della vendetta e dell'orrore quale via punitiva dell'avarizia, aggiunge l'elemento dell'oggetto gravato da una maledizione, tema anche questo ricorrente. Protagonista abbiamo un strozzino, categoria a quanto pare odiata da Ray che si scaglia più volte su questi soggetti, totalmente privo di umanità e di spirito solidale, ma anche scevro da superstizioni. L'uomo cura solo i propri interessi, inducendo al suicidio chi non riesce a sottostare alle proprie richieste. Un giorno si presenta al suo negozio un uomo che cerca di convincerlo a ridargli indietro il crocefisso di famiglia per consentire alla sorella, ormai prossima alla morte, di indossarlo così da poter proseguire la tradizione di famiglia. Lo strozzino, per nulla sensibile né dotato di cuore, acconsente solo quando vede al dito del cliente uno sfarzoso anello. Si tratta di un gioiello che ha la particolarità di scatenerare una maledizione a danno di chiunque lo acquisti in modo disonesto. Per nulla interessato all'ammonimento del cliente, lo strozzino chiude l'affare e si fa dare in permuta l'anello. Di lì a poco, scopre che gli ammonimenti del cliente erano corretti. Indossato l'oggetto, la mano al cui dito è avvolto viene impossessata da uno spirito che induce l'uomo a bruciare cambiali e a firmare liberatorie in favore dei debitori. Si innesca così una lotta tra le due mani che culmina con la morte dello strozzino. Cambia dunque il canovaccio, ma coincide la sostanza. Ancora una volta, facoltosi individui privi di scrupoli che si arricchiscono sulla pelle degli sfortunati vengono puniti da forze sovrannaturali.

Pressoché identico è Il Quadro (1925) in cui Ray sostituisce l'oggetto gravato dalla maledizione. Nella fattispecie abbiamo un quadro, che raffigura un giovane nudo di divina bellezza, che viene dato in pegno allo strozzino di turno da un giovane artista che non riuscirà poi a pagare il proprio debito, prendendo la via del suicidio. Come per il collega condannato dall'anello azteco, il protagonista del racconto verrà perseguitato dal soggetto del quadro che inizierà a entrare e a uscire dall'opera, materializzandosi nella realtà e portando con sè oggetti reali che appaiono poi dipinti nel quadro. Un testo che ricorda da vicino il famoso Il Ritratto (1842) di Nikolaj Gogol e che anticipa di diversi anni il racconto Il Virus della Strada va a Nord di Stephen King (inserito nell'antologia Tutto è Fatidico). Come in Irish Whisky, l'autore sottolinea quanto l'avarizia e la volontà di trattenere un oggetto di valore prevalga anche sulla necessità di tutelare la propria vita. Invitato a distruggere il quadro, lo strozzino darà del matto al suo suggeritore dicendo di non esser per niente disposto a rovinare un proprio investimento, anche se questa scelta potrebbe costargli la vita.
C'è spazio invece di redenzione, pur se a caro prezzo, per il gioielliere che incontriamo ne Il Debito di Gumpelmeyer (1922). Impaurito e per nulla intenzionato a dar aiuto a un disadattato che allunga la mano oltre la soglia della gioielleria, l'uomo aziona la leva della saracinesca provacando l'amputazione dell'arto. Elaborato assai macabro che prosegue in modo onirico e truce. Vediamo l'uomo dolersi dell'evento, eppure prendere a calci la mano mozzata fino ad accorgersi di una sintomatologia che sembra suggerire che il titolare era affetto da scabbia. In realtà la malattia è ben più grave e si trasmette al gioielliere che, in pochi giorni, si troverà a vagare per la città, abbandonato da tutti finché avrà la medesima sorte dell'individuo che ha subito l'amputazione, evento che lo farà sentire in pace con sé stesso. La tematica viene invertita ne Una Mano (1924), in cui un probabile rapinatore viene dissuaso dal mettere a segno il proprio colpo dalla bontà d'animo dell'aggredito che gli offre del whisky dopo averne constatato le pessime condizioni di salute. Il bandito beve e si ricaccia nella notte, per poi tornare e stringere la mano all'uomo e darsi alla fuga, in un pianto che funge da naturale sfogo per la condizione umana di reietto.

Il novero dei racconti giocati sulla vendetta prosegue con l'edgar allan poeniano La Vendetta (1919), altro elaborato ben riuscito e assai inquietante. Storia brevissima che riflette in modo spiccato la passione per Poe con evidenti riferimenti ai cult Il Cuore Rivelatore (1843) e Il Gatto Nero (1843). Un patricida nasconde il cadavere del genitore sotto le assi del pavimento della propria abitazione, così da poterne rubare il patrimonio e condurre una vita dissoluta. Rimasto presto senza denari, l'assassino inizierà a notare dei rumori e degli scricchiolii diffondersi dal pavimento sotto cui ha sepolto il corpo del genitore. L'incubo del ritorno del padre verrà scacciato quando un enorme ratto spezzerà le assi fuoriuscendo dal punto. Convinto che l'artefice degli scricchiolii fosse il topo, l'assassino si troverà presto vittima di un orrore paralizzante quando vedrà uscire dal pertugio un vero e proprio esercito di ratti seguito da altrettanti scarafaggi affamati. Epilogo truculento e truce che anticipa di svariati anni il famoso L'Uomo che Studiava le Lumache (1964) di Patricia Highsmith. Una miscela semplice e non originale, ma sapientemente gestita.

Ancora oggetti maledetti a farla da padroni in La Scimmia (1921). Questa volta è una statuina indù a fare da recettore di maledizioni con uno sviluppo che non diverge molto dal racconto Josuah Gullick. Un collezionista acquista da un antiquario a peso d'oro una statuetta che immortala un Dio Scimmia. Per nulla interessato agli ammonimenti del venditore, che sembra non volergli vendere l'oggetto, il collezionista si convince di esser stato vittima di una fregatura e distrugge la statuetta. L'evento libera uno spirito malvagio che si impossessa del collezionista stesso e lo trasforma in un orango assassino. Epilogo tragico per un racconto meno riuscito degli altri. Similare è Mezzanotte e Venti (1921), che fungerà poi da ispirazione per Il Quadro, in cui un orologio realizzato da un artigiano porta alla follia il suo possessore che arriva a pensare che lo scheletro che segnala, ogni notte, lo scoccare delle mezzanotte e venti, orario in cui si è suicidato l'autore dell'oggetto, sia uscito dall'orologio per strozzarlo. Elaborato un po' tra gli alti e bassi, non tra i migliori del lotto.

Il valore dei racconti di impronta horror si risolleva con il filone che abbiamo definito criptozoologico ovvero incentrato su strani animali o strane creature al cospeto delle quali vengono a imbattersi i protagonisti dei racconti che seguono.
Il migliore di questo mini lotto è Nelle Paludi del Fenn (1923). Pur nella brevità del racconto, Ray distilla gli elementi in un crescendo di mistero che culmina in un epilogo che ricorda le storie della successiva antologia Le Storie del Brigadiere (1971) di Sterling E. Lanier. Una battuta di caccia si trasforma in un incubo generato da una creatura dotata di una mano scura culminante con artigli e composta da una materia gelatinosa. Chiaro caso di racconto su base criptozoologica, che si chiude con un finale che ricorda molto da vicino la opening del film Lo Squartatore di New York di Lucio Fulci. Ray è bravo a costruire l'atmosfera con un certo gusto per l'azione. Meno riuscito, ma sulla stessa lunghezza d'onda, Tra un Bicchiere e l'Altro (1924) dove ci viene narrata un'altra battuta di caccia, questa volta di foche, che porta i tre cacciatori a imbattersi in una sorta di sirena rintanata in una grotta. Assai più inquietante La Bestia Bianca (1921) che ripropone, a suo modo, la leggenda dell'abominevole uomo delle nevi con interessanti punte claustrofobiche.
Interamente giocato sull'ironia e sul grottesco, per quello che potremmo definire una parodia del sottogenere "bestie mannare" è Il Salmone di Poppelreiter (1924). Racconto ai confini tra la schizofrenia e un caso di “salmone mannaro”. Esilarante il finale in cui il protagonista, che ha ucciso uno strozzino a pugnalate sostenendo che si trattava di un salmone, viene chiuso in una cella d'isolamento a urlare giorno e notte. E come ti chiude il romanzo Ray? Con queste parole: “Va detto che, per stuzzicarlo, i sorveglianti si trasformano a turno, chi in storione, chi in carpa, chi in pesciolino rosso. Il che, innegabilmente, non è gentile.” Dunque divertissment che si innesca, tanto per cambiare, sulla professione degli strozzini.

La parte puramente horror si chiude con il convenzionale Il Guardiano del Cimitero (1919), che permette a Ray di offrire il proprio contributo alla tematica "vampiri", e il più interessante Gli Strani Studi del Dr. Paukenschlager (1923) dove Ray tocca la tematica della quarta dimensione, buttando un occhio a Lovecraft e al suo From Beyond (1920), grazie a un macchinario di invenzione di un dottore che "genera delle onde in grado di forzare la porta del misterioso mondo adiacente". L'esperimento mostra una dimensione popalata da esseri mostruosi che spiano l'umanità pronti a sbranare l'uomo.

Altre copertine.

L'altra metà del volume è composta da storie che si presentano come del terrore per prendere poi una via terrena, spesso all'insegna dell'ironia e degli errori di interpretazione, oppure racconti in cui il romanticismo dell'autore e la passione per le belle donzelle danno prova di sé senza avere a che fare col genere fantastico. Nella prima tipologia di racconti è degno di nota Il Coccodrillo (1924), testo tutto giocato su un errore di prospettiva del protagonista. La storia viene raccontata da un avventore del bar "L'Angolo Incantato" e riguarda la sorte di un furfante avventuratosi in una palude infestata dai coccodrilli. L'uomo, contravvenendo agli inviti dei propri capi, decide di fare un bagno in un acquitrino. Dopo aver fatto qualche nuotata, vede sporgere dalle acque un corpo ricoperto di scaglie. L'avvistamento induce il bagnante a rifugiarsi su un'isola di fango per attendere che la bestia si allontani. Rimasto isolato per tutto il giorno, lo sventurato cadrà vittima del caldo, del sole e dei pinzi degli innumerevoli insetti, con il coccodrillo sempre fermo nel punto di partenza a studiarne le mosse. Questo almeno è quello che penserà il furfante, perché la mattina, quando sarà individuato rantolante dai compagni, si scoprirà che il famelico coccodrillo in realtà altro non era che un ceppo marcio. Ray, con magistrale descrizione dei luoghi e abili capacità nel centellinare gli indizi, mette a segno una storia che ricorda assai da vicino l'ironia dissacrante e cinica di Ambrose Bierce. 
Gli errori di valutazione tornano a giocare un ruole cardinale ne La Finestra dei Mostri (1925). Un uomo è convinto che il nuovo vicino di casa sia un mago capace di trasformarsi in una serie di entità mostruose. In realtà il tutto è dovuto a un vetro deformante che il nuovo vicino ha fatto installare sulle proprie finestre.
Segue invece la via dettata da svariati racconti della serie Carnacki (1913) di William Hope Hodgson L'Osservatorio (1921), dove un detective, spacciandosi per astronomo, pone chiarezza su una serie di morti sospette avvenute in un osservatorio posto sui Pirenei. Gli scienziati sono stati uccisi dalla loro guida, un bracconiere interessato a che la zona resti libera da presenze indesiderate, solito andare in giro con una maschera da demone al fine di provocare infarti nelle vittime o spingerle nei dirupi. Il detective, dopo aver risolto il caso, giusto per dare libero sfogo all'ironia, ringrazia il criminale per avergli permesso, indirettamente, di conoscere uno scrittore come Dickens (letto per ammazzare il tempo in attesa delle mosse del bandito).
In A Mezzanotte (1924) un ubriaco avvinghiato alla bottiglia di whisky viene catturato da un rumore che lo induce a pensare di esser perseguitato da un fantasma di una persona incontrata in vita. Dopo aver cercato di interagire con la presenza, chiamando in causa una serie di persone a cui ha fatto del male, scopre di esser stato avvicinato da un vagabondo intenzionato a rubargli il whisky. Lo stesso tema si ripropone nell'assai più elaborato e riuscito Il Mio Amico, il Morto (1924). Un ubriaco, preoccupato che qualcuno gli sottragga la bottiglia, cade vittima del raggiro di uno sconosciuto che gli fa credere che il Bar dell'Angolo Incantato sia visitato da dei ritornanti, tra cui un assassino giustiziato la mattina mediante impiccagione. Il testo, tra i più esilaranti dell'opera, raggiunge il proprio apice quando lo sconosciuto da dello stupito al suo interlocutore rivelandogli di non essersi ancora accorto che anche lui è un morto. Ray sembra mettere in scena una sorta di parodia sugli zombi, prima ancora che il sottogenere si affermi grazie all'opera Io Sono Leggenda (1954) di Matheson, purtroppo però si perde per strada. Il racconto si disunisce nella parte finale, quando si scopre che tutto è uno stratagemma orchestrato non si sa bene per quali motivi, probabilmente per divertimento, sfruttando le alterazioni psicofisiche indotte dall'abuso di alcool. Si tratta comunque di un ottimo esempio che permette a Ray di ribaltare una situazione apparentemente fantastica e sovrannaturale in un banale episodio di vita comune.
Un ultimo racconto meritevole di menzione è  La Notte di Camberwell (1923) in cui un cliente dell'Angolo Incantato, dopo aver bevuto qualche bicchiere di troppo di whisky, sbaglia abitazione e invece della propria penetra in quella di uno sconosciuto. Convinto di aver sorpreso un ladro, spara dei colpi di pistola e abbatte la minaccia per poi darsi alla fuga gridando all'assassino. Ignorato da tutti, fa ritorno a casa e scopre che non ci sono cadaveri né i danni che era convinto di aver lasciato all'interno dell'alloggio. La soluzione non può che essere una... Poco male, l'importante è chiedere al cameriere un nuovo bicchiere di Whisky.

Oltre questi sei racconti ci sono altri elaborati, molti dei quali di valore risibile pur essendo sempre scritti bene e con atmosfere putride a renderli comunque affascinanti, in cui Ray mette in scena, da un lato, la triste esistenza dei reietti e dall'altro degli episodi che permettono di manlevare dalla povertà i fortunati protagonisti delle storie per episodi puramente fortuiti. Corrisponde a questo secondo profilo di storia Un Racconto di Fate a Whitechapel (1924), in cui una pretty woman antesignana, influenzata e debilitata dalla febbre, vaga alla rinfusa nel malfamato quartiere di Whitechapel, ma invece di trovare Jack lo Squartatore trova un ricco in vena di scherzi. L'uomo, coadiuvato da un compagno di giochi, orchestra uno scherzo per mettere in scena la parabola di Harum Al Rashid, il mendicante di Baghdad che visse per un giorno il fantastico sogno di esser diventato l'uomo più potente della terra. La poveretta diviene così un'involontaria cavia di uno scherzo. Imitando le gesta dei serial killer, i due addormentano la sventurata col cloroformio per rivestirla alla stregua di una regina. Convinti però di averla uccisa, il nobile giura a Dio di sposare la donna purché rinsavisca. Il voto viene accolto per intercessione, nientemeno che, della Madonna e la giovane cambia status, così come il ricco trova quell'amore a cui non avrebbe mai pensato. Situazione analoga, ma racconto ampiamente più riuscito, con La Fortuna di Herbert (1921). Un vagabondo, rimasto senza l'ombra di un pence, si lancia dalla finestra dell'albergo in cui è alloggiato ormai deciso a chiudere la propria esistenza. A motivare la scelta è l'aver constatato che il proprio immotivato proposito di diventare ricco entro le ore cinque della giornata non si è concretizzato. Nel cadere l'uomo centra in pieno un facoltoso Lord che muore sul colpo. L'evento premia l'erede del nobile, ormai prossimo a esser diseredato. Quest'ultimo decide così, per riconoscenza, di ricoprire d'oro l'assassino involontario che, per giunta, è rimasto illeso nella caduta. Il racconto è una sorta di satira sulle diverse condizioni umane e su quanto sia “giullare” la vita con ribaltamenti inattesi ed eventi qualificabili quali sfortune o fortune al variare della prospettiva dell'analisi. Ray gioca anche nel mostrare quanto sia facile adattarsi alla bella vita e quanto, probabilmente, sia assai ostico mettersi nei panni di un nullatenente.

Il lato romantico dell'autore spicca in modo evidente ne Il Nome della Barca (1924), assumendo il ruolo di via attraverso la quale evadere dalla triste condizione riservata dalla vita. Un pugno di ladri e banditi disquisisce sul nome da dare a una imbarcazione rubata a uno strozzino (tanto per cambiare). Nel corso del conciliabolo, uno dei malviventi suggerisce il nome che avrebbe scelto per battezzare quell'eventuale figlia che la vita non gli ha concesso, sognando una normalità e una felicità non concessa “ai vagabondi e randagi”. Il proposito commuove i compagni di avventura sotto “l'eterna indifferenza delle stelle”. Sulla stessa falsa riga è L'Ultimo Sorso (1924) dove troviamo i soliti vagabondi, imbarcati in mezzo a una tempesta che fa temere loro per la vita, evento che porta gli stessi a riflettere sulla propria condizione di vita e sul fatto che Dio andrà a premiarli nell'aldilà per tutte le sofferenze patite sulla Terra (“saremo dei tali poveracci, da morti! Nessun ricordo vorrà saperne di noi"). Quello però che davvero inquieta i marinai non è tanto la morte o la perdizione, bensì il rischio di perdere nell'aldilà il benamato whisky (“quello che mi sconvolge , è l'idea del whisky. Non ce ne sarà laggiù!”)

Ne L'Ultimo Canto di Madame Butterfly (1923) e in Herr Hubich nella Notte (1923) trova spazio l'amore per le donne di Jean Ray, noto seduttore e ammaliatore. Nel primo dei due pezzi, i soliti personaggi avventori dell'Angolo Incantato rinunciano a derubare un manipolo di clienti ricchi e irrispettosi solo perché una delle donne a essi aggregata decide di intonare, casualmente, una canzone che rimembra ai banditi il ricordo deglii amori perduti. Nel secondo racconto invece un reietto cerca di conquistare il cuore di un'attrice snob. Non riuscendo nell'intento, decide di suicidarsi così da lasciare un segno indelebile nel cuore della donna, un po' come nella celebre canzone La Ballata dell'Amore Cieco di De Andrè, ma questa ha altro da cui pensare e soprattutto un altro uomo da amare. Epilogo dunque amaro.

Cosa dire a termine di questa recensione? Possiamo dire che I Racconti del Whisky è un'antologia indicata per un regalo a un appassionato del genere. Non particolarmente impegnativa, fruibile senza necessità di completarla dall'inizio alla fine o di seguire un ordine specifico di lettura. Costituisce un punto di vista e di studio per chi intenda approfondire la figura di Jean Ray, pur non potendosi definire un'antologia cardinale nel panorama del fantastico. Le edizioni Hypnos hanno pubblicato anche un seconda antologia di Ray, Il Gran Notturno, finita però fuori pubblicazione per problemi legati allo sfruttamento dei diritti d'autore.

Un relativamente giovane
JEAN RAY.

"Credo che solo il whisky apra la massiccia porta della vostra capacità di comprensione. Non per offendervi, ma in stato normale dovete essere di una stupidità notoria. E' un'ora che vi parlo e non vi siete accorto che sono morto."