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martedì 29 marzo 2016

Genesi, curisità e leggende sulla figura del diavolo nella cinematografia. A cura di Matteo Mancini


Vengo qui di seguito a pubblicare il primo quarto di articolo che confezionai su richiesta di Luca Guardabascio per un volume che sarebbe dovuto uscire con la MONDARORI o, in alternativa, le EDIZIONI PAOLINE e che poi, purtroppo, non ha visto luce. Pubblico così questa prima parte, riservandomi di pubblicare il resto in seguito. 

GENESI, CURIOSITA' E LEGGENDE SULLA

FIGURA DEL DIAVOLO NELLA CINEMATOGRAFIA 


A cura di MATTEO MANCINI

In questo capitolo viene affrontata una delle parti più affascinanti, ma anche più spaventose, della religione cristiana. Il conflitto tra le forze del male e quelle del bene, un confronto determinante e indispensabile per il bene stesso, poiché in assenza del dolore e dell'odio non si potrebbe apprezzare l'amore e la pace. Lo stesso Vaticano, contrariamente ad altri, ha espresso la massima secondo la quale “l'esistenza del diavolo non è opinabile e che chiunque affermi che il diavolo non esista, non possiede autentica e piena fede cattolica”. Non è compito di questa trattazione, anche per esigenze di spazio, entrare nel merito della discussione filosofico-religiosa, spetterà ad altri affrontare la tematica. Qua interessa solo analizzare il riflesso cinematografico di tali studi, poiché, come ogni cosa della vita, anche il diavolo è stato impresso nella celluloide. Del resto il re dei narcisisti non poteva certo esimersi dal farsi immortale dalla settima arte. Dunque ecco entrare nel mondo del cinema la figura del diavolo, dapprima proposto come nobile tentatore e poi, via via, sempre più mostruoso e volgare, interessato a consumare le prede spingendole alle più bieche condotte fino a portarle all'omicidio. A contrastare l'influsso del Principe delle Tenebre non appare mai Dio, né i santi, il bene interviene sempre per interposta persona, in una sorta di antitesi al narcisismo diabolico. Se il diavolo si mostra, il bene si nasconde, ma è onnipresente, pronto a togliere la linfa mortale che ottenebra le menti e che porta ad amare valori materiali. Il personaggio prediletto dai registi è quasi sempre incarnato da vecchi esorcisti che compiono sforzi sovrumani, spesso pagati con la vita, pur di ostacolare l'azione distruttrice del diavolo. Uomini che si lanciano in una lotta senza quartiere che farebbe tremare il più specializzato dei soldati e che farebbe perdere il senno al più qualificato degli psichiatri. Specialisti di quella cortina che si apre oltre la realtà di tutti i giorni e che sconfina nell'occulto più oscuro, una tenebra dove le regole scientifiche vengono stralciate da valori alieni a quelle conoscenze su cui gli accademici sarebbero pronti a mettere la mano sul fuoco. I comportamenti demoniaci rispondono sempre alle stesse logiche, manifestandosi attraverso convulsioni, forza fisica insospettabile, alterazione dei cinque sensi, chiaroveggenza, glossolalia (ovvero la capacità di parlare fluentemente lingue diverse ivi compreso le arcaiche), stigmate e scritture oltraggiose comparse a mo' di tatuaggi temporanei sulla pelle.


La filmografia italiana ha fatto scuola in questo genere, in virtù di una produzione copiosa e talvolta superiore alle opere hollywoodiane di riferimento. Il filone, presente fin dall'inizio, si è sviluppato lentamente nel corso degli anni, esplodendo alla fine degli anni '70 grazie all'uscita di un film che si può definire un vero e proprio spartiacque tra la vecchia concezione orrorifica e la nuova strada tutt'oggi praticata negli Stati Uniti. È opportuno precisare che il legame religione-horror era già forte e ben instaurato nella letteratura fantastica. Autori come William Butler Yeats o Arthur Machen, per non parlare degli indagatori dell'occulto nati dalla penna di scrittori del calibro di William Hope Hodgson, Seabury Quinn e Gustav Meyrink, si erano già fatti promotori, anche per via dell'underground esoterico da cui erano provenienti, di tali tematiche. L'Italia, contrariamente a quanto si è soliti leggere e sentire in giro, è sempre stata molto recettiva a sfruttare la corrente in questione, basti pensare alle collane di letteratura horror nate negli anni '60 e spacciate per romanzi di autori stranieri (due serie su tutte: KKK e I Racconti di Dracula). Purtroppo, a causa di assurdi atteggiamenti culturali che affliggono il nostro bel paese in ogni suo campo, per superare la perplessità di lettori e spettatori al cospetto di lavori di connazionali, registi e scrittori hanno sempre dovuto celarsi dietro nomi stranieri. A ogni modo l'Italia è stata una delle patrie dell'horror, sia narrativo che cinematografico. Celebri romanzi quali Dracula e Frankenstein hanno radici innegabili nella nostra penisola, essendo il primo stato ispirato dal racconto Il Vampiro di William Polidori (autore inglese originario di Bientina, paese nella campagna toscana, nonché medico di fiducia di Lord Byron) e il secondo da una leggenda collegata agli studi di un medico sempre della campagna pisana. Sullo stesso piano si è confermato il cinema, plasmando un sottogenere, quello del Gotico Italiano, assai qualitativo in virtù dell'opera di registi del calibro di Riccardo Freda, Antonio Margheriti, Mario Bava e Mario Caiano. Prima di loro però il signore delle tenebre aveva già fatto capolino nella nostra cinematografia. Risalgono addirittura alla prima decade del novecento i primi film italiani incentrati sulla figura del demonio. Il primo dei due ha un titolo subito emblematico: Satana (1913) di Luigi Maggi. L'analisi sui film incentrati sul principe delle tenebre non poteva partire in modo migliore. Si tratta infatti di un film muto, a episodi, affidato alle mani di uno specialista dell'epoca e basato su due poemi classici: Il Paradiso Perduto (1667) di John Milton e Messiade (1748) di Friedrich Gottlieb Klopstock. Maggi traccia un'ipotetica evoluzione del diavolo sulla terra, dalla sua cacciata dal paradiso fino ai primi del '900, passando per le tentazioni di Cristo e la corruzione spirituale di alcuni monaci di un convento medievale. Dunque è una pellicola ambiziosa e di buon livello che ruota attorno alla tematica costante della distruzione di tutti coloro che si lasciano convincere dalla necessità di vivere una vita dissoluta, mentre lui, il diavolo, si bea della rovina altrui facendo nascere propositi delittuosi e peccati carnali di ogni sorta. Il maligno viene quindi presentato quale fonte di ogni male, un soggetto che contrappone i fratelli seminando zizzania e promettendo un benessere caduco al solo intento di contaminare la purezza dell'uomo. Non è quindi un caso se il sottotitolo scelto per l'opera è Il Dramma dell'Umanità, a sottolineare il tumore costituito dal demonio, rappresentato quale cancro che attanaglia le anime dei peccatori. Curioso il nome della casa produttrice, Ambrosio, che richiama alla mente il protagonista del romanzo Il Monaco (1797) di Matthew G. Lewis, finito anch'egli preda e vittima delle tentazioni demoniache. Nei panni di Satana figura il futuro regista Mario Bonnard, maestro, tra gli altri, di Sergio Leone. Un film dunque da ricordare e da recuperare soprattutto in considerazione dell'epoca e dello sforzo scenografico messo in atto dalla produzione.

Mario Bonnard
il primo Satana del cinema italiano

Appena due anni dopo esce uno dei film più importanti della produzione italiana dell'epoca, peraltro recentemente riproposto nel Centenario del Colossal del cinema muto Cabiria: Rapsodia Satanica (1915) di Nino Oxilia (giornalista e scrittore che perirà in trincea nella prima guerra mondiale a soli ventotto anni) e con musiche di Pietro Mascagni (aspetto innovativo per i montaggi dell'epoca). Ancora una volta a fungere da elemento cardinale sono le opere classiche della letteratura, nella fattispecie viene rivisitato il Faust di Goethe. La protagonista Lydia Borelli (star del cinema muto), un po' come il Dorian Gray di Wilde, stringe un patto diabolico con Mefisto per mantenere la giovinezza; il prezzo che deve pagare però è dei più cari, dovendo rinunciare all'amore. Chiaramente contravverrà ai patti, tra l'altro facendo suicidare un amante respinto, credendo di poterla fare franca, ma Mefisto giungerà a toglierle la bellezza lasciandola in balia delle rughe e degli acciacchi della vecchiaia. Opera dunque di impronta letteraria, peraltro con una certa cura per le scenografie tese a evidenziare la decadenza aristocratica figlia del tramonto dell'ottocento.

Per attendere un terzo film italiano sull'argomento bisogna attendere circa trent'anni. È il 1940 quando l'ex direttore della fotografia Alfono Frenguelli (cresciuto alle spalle di Riccardo Freda) debutta alla regia con L'Arcidiavolo, commedia di scarso livello che vede un diavolo giungere in mezzo agli uomini per tentarli. Il film ha scarso successo, tanto da spingere il regista a riprendere il vecchio ruolo di direttore della fotografia. La commedia sembra l'unica valvola di sfogo per recepire le peripezie diaboliche, anche perché i generi stentano ad affermarsi nella nostra penisola. Così Mario Camerini propone L'Angelo e il Diavolo (1946), introducendo, a livello embrionale, degli elementi che ritroveremo in un famoso film di Roman Polanski. Anche Camerini però non ha fortuna, e il film passa quasi inosservato. Protagoniste sono due coppie, con una di queste, formata da un coniuge rappresentante del bene e l'altro del male, che influenza l'altra. La sceneggiatura ha pertanto un interessante spunto iniziale, ma il risultato finale non è tra i più brillanti, neppure per la filmografia del regista. La deriva comica si compie con un doppio Totò, per le firme di Mario Mattioli, Totò al Giro d'Italia (1949), e di Camillo Mastrocinque, Totò all'Inferno (1954). Nel primo episodio l'attore napoletano interpreta un ciclista impegnato al Giro d'Italia (ci sono anche Fausto Coppi e Gino Bartali, oltre Walter Chiari) che stringe un patto col diavolo per vincere la competizione e avere la mano della sua amata. Indubbiamente più surreale e divertente l'altro capitolo, con Totò che vaga all'inferno innamorato perso di Cleopatra, suscitando l'ira di un Satana ingelosito dal rapporto tra i due. Si tratta di film che sono da menzionare per completamento, avendo ben poco a che fare con la materia qui oggetto di esame, alla stregua di Maciste all'Inferno (1962) di Riccardo Freda che ripropone la discesa agli inferi del protagonista, nella fattispecie il muscolare Kirk Morris (al secolo Adriano Bellini).

Siamo però alle porte di un avvenimento epocale che segna il genere. Esce difatti il vero e proprio antesignano del filone esorcistico, guarda caso proprio in Italia. Contrariamente a quanto si è soliti dire, L'Esorcista (1973) di Friedkin non è il primo film a proporre lo scontro tra Satana e un esorcista. Ad anticipare tutti è una coproduzione italo-francese uscita dieci anni prima rispetto alla più famosa opera hollywoodiana. La pellicola in questione è Il Demonio (1963), portata in scena da Brunello Rondi, un regista d'autore che non tornerà più a confrontarsi col cinema di genere, preferendo i drammi erotici e opere in cui metterà gli studi psicanalitici dei personaggi in primo piano rispetto alle storie raccontate. Per Rondi è il debutto alla regia, prima di allora aveva codiretto un film nel 1962, anche se questo non deve lasciare pensare che si trattasse di uno sprovveduto. Già inserito nel mondo del cinema da circa un ventennio, aveva collaborato in veste di assistente e di sceneggiatore con molti registi di grido (soprattutto Roberto Rossellini, ma anche Vittorio De Sica, Luciano Salce, Manolo Bolognini), incarichi, peraltro, che continuerà a ricoprire anche in seguito nonostante un'attività di regista in proprio ben avviata. In particolare è da ricordare il lunghissimo sodalizio (quasi trent'anni) con Federico Fellini, oltre che nei panni di aiuto regia e di sceneggiatore, anche in quelli di collaboratore artistico, per un totale di nove film tra i quali i cult La Dolce Vita (1959), 8 e ½ (1962) e Prova d'Orchestra (1978). Dunque un uomo di cinema di una certa esperienza lanciato alla regia da una coproduzione che vede il debutto di uno dei più grandi produttori di cinema di genere italiano ovvero Luciano Martino, fratello maggiore del futuro regista Sergio Martino (anch'egli presente e debuttante nel ruolo di aiuto regista). Rondi scrive il soggetto e mette subito in chiaro quello che sarà il marchio della sua produzione registica. Il film, infatti, è incentrato soprattutto sullo studio psicologico dei personaggi e, più in particolare, sulle reazioni popolari al cospetto delle superstizioni e degli estremismi religiosi di carattere essoterico (termine che si contrappone a esoterico, a simboleggiare quelle credenze involgarite destinate alle masse piuttosto che a uno stuolo limitato di studenti e illuminati).

Ci troviamo nel meridione, in una Matera ancora legata alle tradizioni contadine e alle credenze medievali con rimasugli figli della cultura pagana (adorazione del sole). Protagonista è una giovane innamorata di un uomo che non la corrisponde (il futuro caratterista di spaghetti western Frank Wolff), in quanto in paese tutti la reputano una fattucchiera portatrice di catastrofi. La poveretta, in effetti, si diletta nelle arti magiche (realizza intrugli ed elisir) e finisce per cadere vittima di possessioni diaboliche, oltre che di uno stupro perpetrato da un fantasma che le lascia ferite da artiglio sui polsi. Trova inoltre giovamento nell'andare in giro a dire che parla e che vede i diavoli (Rondi accenna ai problemi legati alla schizofrenia poi sviluppati da altri in seguito), dichiarazioni che sembrano peraltro veritiere viste certe scene (su tutte quella dello stupro e quella in cui la donna interagisce con un bimbo morto). A dar corpo al personaggio troviamo la bellissima e bravissima Daliah Lavi, attrice di origini ebraiche pretesa dai coproduttori francesi e proveniente dal cinema transalpino. Seppur brava, non avrà una grande carriera. Sarà protagonista ne La Frusta e il Corpo (1963) di Mario Bava, ritrovandosi presto destinata a ruoli secondari con punte quali Dieci Piccoli Indiani (1965) di George Pollock e James Bond 007 – Casino Royale (1967). Negli anni '70 intraprenderà, con buon successo, la carriera di cantante in Germania, incidendo svariati album. Ne Il Demonio, tuttavia, la prova della ventunenne è notevole, soprattutto in considerazione di un ruolo tutt'altro che facile. È chiamata a cambiare varie volte lo stato d'animo, a mostrarsi trasandata nei modi di fare ma al contempo dotata di una forte carica erotica e anche ad assumere espressioni da assassina (tenterà di strangolare una suora). Inoltre la vediamo aggirarsi sopra i massi, in campo lungo, come una lupa solitaria che studia da lontano le pecorelle che passano sotto e che sono costituite dall'uomo che ama e dalla donna che lo stesso ha deciso di sposare, con i relativi parenti al seguito. Rondi, coadiuvato da Sergio Martino, gira queste sequenze con gusto western. La donna, anziché sparare, pronuncia a denti stretti anatemi di ogni sorta. Purtroppo il ritmo non è sempre adeguato, il film paga un'incertezza di fondo piuttosto evidente. Rondi non si interessa allo sviluppo della trama, è interessato a mostrare il campionario di riti scaramantici e di una serie di procedure finalizzate a liberarsi dal malocchio. Vediamo così sfilare ciarlatani, truffatori, presunti santoni (si suggerisce uno stupro fatto passare come rito purificatorio) e preti, tutti votati, più o meno onestamente, a combattere il male. Nel mostrare ciò, il regista perde l'orientamento della storia che a tratti prende la piega dell'horror (riti esorcistici e atteggiamenti blasfemi), poi torna sul drammatico a tinte neorealiste, quindi offre squarci dal sapore documentaristico e poi torna sul dramma d'amore, senza che si capiscano bene i passaggi. A quest'ultimo riguardo, prima del tragico epilogo, vi è un enorme buco di sceneggiatura caratterizzato dalla mancata spiegazione relativa alla fuga della protagonista dal convento dove si era rifugiata. Nonostante la confusione di fondo, viene introdotto tutto quanto andrà a fare da base al nascente sotto filone esorcistico. In prima battuta viene anticipato William Friedkin, mostrando, durante un esorcismo in chiesa, la famosa spider-walk dell'indemoniata. La Lavi, difatti, cammina su quattro arti con la schiena e la testa inarcata all'indietro, alla stregua di un ragno, mentre il prete la benedice lanciandole spruzzi di acqua benedetta e chiedendole più volte chi essa sia (curiosa menzione, poi, di una serie di nomi di diavoli). A differenza di quanto farà il collega americano, Rondi non cerca la spettacolarizzazione, ma si limita a far parlare la sua protagonista in lingue diverse. Non vi è traccia di splatter, né si ricorre a un make up invasivo (il volto della Lavi non viene deformato). Sempre sul versante paranormale si registra il già citato stupro a opera di un'entità fantasma (sarà omaggiato dall'horror The Entity del 1981), elemento ricorrente da Rosemary's Baby (1968) in poi. Viene quindi anticipato Non si Sevizia un Paperino (1972) di Lucio Fulci, in tutta la parte relativa all'odio popolare verso la maga, costretta a subire ogni forma di oltraggio fino a vedersi scagliare contro sassi e minacce di messa a rogo.
Sul versante tecnico sono degne di nota la fotografia in bianco e nero di Carlo Bellero (al suo terzultimo film, dopo una lunga collaborazione con Francesco De Robertis e Domenico Paolella), bravo nei contrasti luce-ombra oltre che nel rendere sinistre le soleggiate ambientazioni lucane, e le aristocratiche musiche di Piero Piccioni.
Dunque una pellicola più votata al drammatico che all'horror, concentrata su valori di stampo storico-sociale piuttosto che commerciale, ma di grande importanza per la genesi del sotto filone esorcistico. Di certo il film sulle possessioni diaboliche più autoriale tra quelli italiani.


Un altro film di particolare interesse, seppur misterioso sia per la sua genesi che per la sua origine, è Sfida al Diavolo (1963) diretto in bianco e nero dallo sconosciuto Giuseppe Veggezzi (l'aiuto è Roberto Sciarretta, che ricomparirà una sola volta, nel 1976, quale operatore di Mario Landi ne Le Impiegate Stradali). Il film, pur avendo come protagonista il mitico Christopher Lee (il quale si esibisce in un lungo e interessante monologo, con un ruolo oscuro che trama dietro le quinte, essendo proprio lui il diavolo), esce con il titolo Katarsis il 9 giugno nel 1963 (data anch'essa sinistra, se si legge con ottica macabra) restando solo per pochi giorni nei cinema. Il motivo sembra riconducibile all'improvvisa morte del produttore, tale Belotti, anch'esso uno sconosciuto che non ha altri film all'attivo. Due anni dopo, probabilmente per la presenza di Lee, il prodotto viene riproposto da Ulderico Sciarretta (attore sconosciuto presente nell'opera, già produttore di Crimine a Due di Romano Ferrara) col titolo con cui oggi lo conosciamo, allo scopo di raggranellare qualche lira. Si tratta di un'opera misteriosa e, dato il soggetto, la si potrebbe anche definire inquietante e adatta a costituire lo spunto di partenza di un romanzo dell'orrore. Il regista è, di fatti, un cineasta sconosciuto; lo studioso e ricercatore Roberto Poppi, nel suo monumentale Dizionario del Cinema Italiano – I Registi, lo definisce “cineasta occasionale di cui non si sa nulla.” La definizione di Poppi non è fuori luogo, di Veggezzi, accreditato Joseph Vegh, non si sa davvero niente; dirige e scrive questo film senza alcun curriculum e senza dar seguito alla professione. La trama è legata agli stilemi gotici e poggia su una premessa iniziale (il dialogo tra un prete e una donna che ha rubato dei documenti scottanti connessi a un intrigo internazionale) sulla quale, per mezzo dello artificio cinematografico del flashback, si innesca la storia delirante che ha condotto un giovane uomo (Piero Vida) a convertirsi alla vita religiosa dopo una vita di baldorie. La prima frazione di film, la meno interessante, è portata avanti con un'atmosfera sospesa tra spy-story e noir brillante (con taglio musicale da serial televisivo americano scanzonato), a poco a poco però si plana dalle parti di quei prodotti legati a soggetti del calibro della novella L'Uomo che Vide il Diavolo di Gaston Leroux, ovvero opere costruite attorno a tre cardini ben definiti: il gruppo di giovani sbandati (dediti all'alcool e alle corse automobilistiche clandestine), la presenza di un vecchio castello disperso nel nulla e la figura del vecchio padrone di casa che ha visto il diavolo e gli ha venduto l'anima, con tutte le conseguenze che ne derivano. Il ritmo è lento (appesantito da circa dieci minuti di balletti e canzoncine con la rotonda Alma de Rio, che chiude qui la carriera interpretando se stessa), la messa in scena è piuttosto classica ma ha dei risvolti dall'innegabile gusto orrorifico pur penalizzati da una sceneggiatura sfilacciata. Il risultato finale, quasi un mediometraggio (la durata è appena settantacinque minuti assai diluiti), non è da sottovalutare. Inevitabile il collegamento con le case del terrore che si trovano nei luna park, dovendo i protagonisti vagare lungo un percorso carico di insidie, seppur alquanto spoglio. Il direttore della fotografia riesce a giocare bene con le luci, a mascherare i limiti del budget e della scenografia ricostruendo un tono onirico strumentale alla lenta caduta nella follia dei giovani. Alla fine, nonostante la scarsezza di mezzi, la fatica di Veggezzi strappa la sufficienza dagli utenti di imdb.com.
Le interpretazioni non sono memorabili. Oltre a Lee, abbiamo Giorgio Ardisson (ruolo isterico e sopra le righe, forse troppo) che poi farà fortuna nello spaghetti western di seconda serie. Musiche di Berto Pisano, con una main theme da musicarello intitolata Ti hanno Visto, cantata da tale Sonia, accreditata quale “stella della canzone argentina” (inutile sottolineare che si tratta di un'altra sconosciuta totale).
Nel complesso è considerato (con una certa generosità) un culto, pur non essendo al livello dei film dei maestri del genere, soprattutto per l'alone misterioso che lo circonda. A mio avviso si tratta di un film diretto da un ghost director che, per ragioni varie, ha rifiutato di riconoscere il prodotto (non mi saprei spiegare la ragione, essendo il tutto sufficientemente quadrato). Peccato, perché si anticipano taluni gotici nostrani, soprattutto quelli di Antonio Margheriti incentrati sulla caccia di tesori o sulla presenza di dame fantasma imprigionate in castelli maledetti. Vedibile.

Il 1963 è l'anno in cui diviene evidente il minimo comun denominatore del nascente horror all'italiana. Il genere aveva mosso i suoi primi passi per scommessa, nel 1957, con I Vampiri di Riccardo Freda, il quale aveva raccolto una sfida prospettatagli da dei produttori con cui poi era entrato in contrasto, lasciando al direttore della fotografia, Mario Bava, il compito di chiudere la pellicola. Il film, pur essendo oggi considerato un capolavoro, non ebbe successo (gli spettatori italiani non reputavano, a priori, i registi connazionali idonei a fare horror) e non dette avvio ad altri epigoni. Solo tre anni dopo con Mario Bava e il suo La Maschera del Demonio (1960), seguito da Il Mulino delle Donne di Pietra (1960) di Giorgio Ferroni, l'horror italico aveva cominciato ad avere presa anche all'estero. I successivi L'Orribile Segreto del Dottor Hichcock (1962) di Riccardo Freda e La Frusta e il Corpo (1963) di Mario Bava avevano poi fatto il resto rendendo evidente il marchio di fabbrica di un sottogenere, poi battezzato Gotico all'Italiana, strettamente legato alla produzione horror marcata Hammer, con alcune strizzatine d'occhio alla factory di Roger Corman e alla Universal. Dunque un cinema de paura connesso a vampiri, streghe e mad doctor, con varianti più o meno legate al romanzo Dieci Piccoli Indiani di Agatha Christie, caratterizzate da forti ruoli femminili presentati sotto una luce malevola e morbosa, in quello che potrebbe quasi definirsi un tentativo di trasposizione cinematografica ed erotica dei racconti del terrore di fine ottocento. Così, dal 1963 a fine anni '60, usciranno tutta una serie di horror gotici italiani col fenomeno che andrà a ridimensionarsi attorno al '69, grazie all'avvento di Dario Argento e del thrilling all'italiana. Oltre a Dario Argento però, a segnare il momento decisivo che traccerà un profondo solco tra la vecchia concezione orrorifica e quella che diverrà la nuova strada del cinema horror italiano e internazionale (con due sottofiloni ben definiti), contribuiranno quattro opere statunitensi, tre delle quali fondamentali per l'analisi che stiamo facendo: La Notte dei Morti Viventi (1968) di George A. Romero, Rosemary's Baby (1968) di Roman Polanski, L'Esorcista (1973) di William Friedkin e Il Presagio (1976) di Richard Donner. Si tratta peraltro di film, escludendo quello di Romero, che vedono il coinvolgimento di produttori di un certo peso (Warner Bros, Twentieth Century Fox) i quali iniziano a vedere nel genere horror una fucina da cui raggranellare fiumi di dollari. Vengono difatti stanziati due milioni e mezzo di dollari per il film di Polanski, otto milioni per quello di Friedkin e tre per Donner, contro il budget ridottissimo di George A. Romero (abbondantemente inferiore a mezzo milione di dollari).

Un altro aspetto su cui si inizia a fare attenzione è lo studio sulle vendite dei romanzi. In altre parole ci si è scocciati dei grandi classici e si inizia a curare la trasposizione di romanzi contemporanei di grande successo commerciale. Così Polanski acquista i diritti del romanzo di Ira Levin, uscito appena un anno prima e segnalato quale finalista al Edgar Award, imitato dalla Warner Bros che convince William Peter Blatty, autore de L'Esorcista, romanzo uscito nel 1970 e in grado di distinguersi tra i più clamorosi e irriverenti successi commerciali dell'epoca, a trattarne un adattamento da affidare al regista William Friedkin. Gli ottimi riscontri di pubblico e di critica dei due film appena citati, spingeranno poi la Twentieth Century Fox a fare altrettanto strappando i diritti a David Seltzer, autore del romanzo Il Presagio pubblicato nel 1975, per la realizzazione di un ulteriore horror di stampo demoniaco. Con queste pellicole dunque viene sdoganato l'orrore dalle campagne e dai contesti medievali per farlo giungere nelle grandi città. La quotidianità e il mondo dello sviluppo vengono così messi al cospetto del male puro, tra grattacieli, politici più o meno corrotti e macchine all'ultimo grido. Un'altra grande novità è costituita dall'interesse della critica, la quale, nonostante i temi scottanti, accetta con grande entusiasmo queste pellicole. Rosemary's Baby vince un Oscar (nomination per la sceneggiatura di Polanski) e un Golden Globe (entrambi a Ruth Gordon, migliore attrice non protagonista), oltre a due David di Donatello (miglior regista straniero e migliore attrice straniera) e svariate nomination; sono addirittura due gli Oscar conquistati da L'Esorcista (miglior sceneggiatura non originale a William Peter Blatty e miglior sonoro, con altre otto nomination) oltre a quattro Golden Globe (miglior film, migliore regia, migliore attrice non protagonista a Linda Blair e migliore sceneggiatura) e altri premi minori; persino Il Presagio, pellicola di minori pretese, riesce a stupire vincendo un Oscar (a Jerry Goldsmith, migliore colonna sonora) e ottenendo una nomination sia all'Oscar che ai Golden Globe rispettivamente per la migliore canzone e per il migliore attore debuttante (il pestifero Harvey Stephens, che poi non farà pressoché altro).


Prima di passare ad analizzare nel dettaglio la triade sopra elencata, è bene spendere due parole sull'alone che grava attorno a questi film. Ognuna delle pellicole infatti ha assunto un'aura da film contaminato dal male, a causa di incidenti e strani delitti connessi alla lavorazione o alla post-produzione. Il caso più tremendo è legato alla pellicola di Polanski, il quale, appena terminato di girare il film, si vide trucidare con sedici pugnalate la moglie Sharon Tate (all'ottavo mese di gravidanza) e quattro amici ospitati nella sua abitazione di Beverly Hills. Protagonista della mattanza fu una folle banda, filo satanica, che rispondeva agli ordini di uno psicopatico: Charles Manson. Il movente dell'assassinio fu ricondotto all'odio di Manson nei confronti del proprietario della villa, ovvero il produttore musicale Terry Melcher che aveva rifiutato di scritturare Manson come musicista per la Columbia Productions. Da notare inoltre che all'ingresso del palazzo dove è stato girato il film, il Dakota Building di New York, verrà assassinato, nel 1980, John Lennon, leader proprio di quei Beatles inneggiati da Manson e compagni; i quali scrissero su un muro della casa del massacro, col sangue della Tate, la scritta Helther Skelter in onore alla canzone dei Beatles da cui Manson sosteneva di esser stato ispirato.
Sono invece direttamente legati alla produzione del film gli episodi balzani connessi a L'Esorcista. In primo luogo, la pellicola subì gravi ritardi, con una dilatazione spropositata dei tempi di ripresa. I produttori infatti avevano preventivato di ultimare il tutto in ottantacinque giorni di lavorazione, tempistica disattesa con addirittura duecentoventiquattro giorni effettivi dovuti alle continue rotture dei macchinari e soprattutto a un incendio che distrusse le location interne della casa dell'indemoniata. Si verificarono poi sinistre coincidenze che minarono l'umore della troupe. Vi furono addirittura nove decessi di persone, più o meno, legate al film, tra le quali il fratello di Von Sydow, l'attore irlandese Jack MacGowran, la nonna della Blair, il figlio dell'attore chiamato ad assistere Von Sydow negli esorcismi (schiantatosi con la moto mentre si recava sul set e sopravvissuto dopo svariati giorni di coma), e altre morti di tecnici e addetti ai lavori, senza considerare il grave infortunio patito da Ellen Burstyn, che riportò danni permanenti al collo (a causa della rottura dell'imbracatura che avrebbe dovuto sostenerla in una delle scene finali, sorte che toccò anche alla Blair che si ruppe alcune vertebre). Non di secondaria importanza fu l'isteria collettiva che colpì gli spettatori nelle sale cinematografiche, caduti vittima di convulsioni, svenimenti, vomito, un caso di aborto spontaneo e quattro ricoveri in psichiatria. Gli psichiatri arrivarono al punto di parlare di una nevrosi da cinema per giustificare un complesso di paure che finirono col tormentare una numerosa parte di spettatori del film. William Friedkin, esasperato dagli accadimenti, arrivò a chiamare un vero esorcista per benedire i set. Si narra inoltre che, durante la proiezione del film al cinema Metropolitan di Roma, una croce cadde dal tetto di una chiesa dopo esser stata stroncata da un fulmine, evento quest'ultimo che sarà inserito nel copione de Il Presagio. Casualità o intervento demoniaco? La logica porterebbe a optare per la prima ipotesi, se non fosse che gli eventi clamorosi e nefasti si infittirono nel terzo film della serie ovvero quello di Richard Donner. Durante la lavorazione del film, l'aereo dove viaggiava il protagonista Gregory Peck fu colpito da un fulmine, così come quello su cui, tre giorni dopo, si trovava l'autore del romanzo da cui è tratto il film, cioè David Seltzer.  
Durante la trasferta italiana, a Roma, il produttore Harvey Bernhard fu anch'esso quasi colpito da un fulmine, mentre passeggiava per la città. Un altro caso singolare è costituito dall'esplosione della stazione metropolitana di Londra presso la quale si stava dirigendo la troupe, per non parlare dell'aereo noleggiato da Donner che precipitò il giorno stesso in cui la troupe avrebbe dovuto utilizzarlo per le riprese aeree, andando a schiantarsi sull'auto dove viaggiavano la moglie e il figlio del pilota. Una serie di coincidenze incredibili che sembrano non finire mai. Lo stesso Donner, scampato a un attentato perpetrato dall'IRA ai danni del ristorante dove era solito andare, fu investito da un auto mentre camminava a piedi per le vie di Londra. La catena di eventi maledetti, a leggere i riscontri dell'epoca, è inarrestabile e miete vittime senza guardare in faccia nessuno, o meglio guardando coloro che a vario titolo finiscono coinvolti nel progetto. Al termine del giornata dedicata alla riprese allo zoo, un addetto alla sicurezza fu sbranato dal leone utilizzato per le riprese. L'evento più terrificante, come se non lo fossero quelli appena ricordati, accadde però all'addetto alla supervisione degli effetti speciali, tale John Richardson, ideatore di una delle sequenze più terrificanti del film: la decapitazione di David Warner; ebbene Richardson rimase coinvolto in un sinistro stradale in Belgio, dove morì decapitata la fidanzata che viaggiava in sua compagnia, in una località distante 66,6 km da Liegi così come riportato da un pannello stradale presente sul luogo dello scontro.
Circostanze, casualità o cos'altro? Difficile dire, di certo si tratta di eventi che rendono queste pellicole maledette, non solo per i temi trattati ma soprattutto per gli aneddoti connessi. Peraltro fenomeni del genere accadranno anche durante la realizzazione di altre pellicole legate al paranormale, quali Amityville Horror (1979), Poltergeist – Demoniache Presenze (1982) e Il Corvo (1994). Appare pertanto un filo conduttore che lega certe tipologie di film a certi eventi nefasti, tanto da spingere qualcuno a interpretare il fato come una sorta di ammonimento ben preciso, di natura trascendentale, volto a ostacolare l'uscita di certi prodotti.

Rosemary's Baby – Nastro Rosso a New York esce nel 1968 per volere del regista franco-polacco Roman Polanski il quale, reduce dagli horror Repulsione (1968) e dal parodistico Per Favore, Non Mordermi sul Collo (1967) girato insieme alla moglie Sharon Tate, insiste nel genere adattando per il grande schermo l'omonimo romanzo di Ira Levin.
Si tratta della prima pellicola diretta da Polanski negli Stati Uniti, dopo i precedenti impegni in Polonia, Francia e Inghilterra che comunque gli erano valsi una nomination all'Oscar, quale miglior film straniero, con Il Coltello nell'Acqua (1964).
L'opera è ambiziosa anche se il budget non è altissimo. Il produttore è William Castle, un ex regista di origini ebraiche specializzato in B-movie (La Casa dei Fantasmi del 1959 e I Tredici Fantasmi del 1960, tanto per citarne due), nonché storico assistente di Orson Welles. Castle vorrebbe dirigere il film in prima persona, ma i soci non sono convinti perché temono una deriva di genere. La scelta cade quindi su Polanski e su un lotto di attori di primissimo piano. Per i ruoli di protagonisti si tentano di ingaggiare Jane Fonda e uno tra Jack Nicholson e Robert Redford, alla fine però si “ripiega” su Mia Farrow e John Cassavetes. La Farrow ha appena ventitré anni, ma vanta un curriculum di un certo prestigio. È sposata al celebre cantante Frank Sinatra, dal quale però sta divorziando (si legherà in seguito a Woody Allen), ed è figlia di un regista australiano e di un'attrice irlandese. Inserita nel mondo del cinema fin da quando aveva due anni, si era già distinta nel circuito televisivo e in Cannoni a Batasi (1964), con il quale si era aggiudicata il Golden Globe quale migliore attrice emergente. Più esperto, ma meno qualitativo, è il quarantenne John Cassavetes, un vero e proprio tuttofare (attore, regista, montatore, produttore e sceneggiatore) che aveva toccato l'apice con il war movie Quella Sporca Dozzina (1966) di Robert Aldrich. Ai due vengono affiancati attori di secondo piano, ma dal grande talento. Ruth Gordon, addirittura, si aggiudicherà l'Oscar come migliore attrice non protagonista proprio con Rosemary's Baby; avrà inoltre dei riconoscimenti anche il caratterista Sidney Blackmer (conosciuto per esser l'attore prediletto per l'interpretazione del Presidente Roosevelt, ruolo che interpretò oltre una dozzina di volte), in una delle sue migliori prestazioni alla veneranda età di settantatré anni.
Il copione è ancora legato ai vecchi stilemi connessi ai “patti diabolici” di faustiana memoria, anche se qui sono indiretti. Il personaggio affidato a John Cassavetes, infatti, si accorda all'insaputa della moglie (Farrow) per far ingravidare quest'ultima dal demonio, ottenendo in cambio la garanzia di una grande carriera nel mondo del cinema. A dar man forte all'uomo contribuisce un'insospettabile congrega di satanisti dediti alla stregoneria, costituiti dai vicini condominiali. Questi ultimi sono dei vecchi invadenti che nascondono la loro vera faccia dietro una maschera fatta di premure e gentilezze. La storia viene portata avanti con un ritmo lentissimo, assai più vicino al drammatico che all'horror. La povera sposina finisce con l'essere soffocata dalle attenzioni dei condomini che la costringono a indossare uno strano amuleto e a ingerire delle sostanze che poi si scopriranno essere delle droghe. Sotto l'effetto di questi intrugli magici, la giovane, durante una sorta di sabba, finirà per essere stuprata dal diavolo. A nulla serviranno i tentativi di ribellarsi. Sempre più magra e sofferente (azzeccatissimo il look scelto per la Farrow, qua con i capelli cortissimi e un corpo ai limiti dell'anoressia), la giovane troverà resistenze ovunque, dal marito al dottore che l'ha in cura (è anch'esso d'accordo con il gruppo), al punto da rischiare di finire in clinica psichiatrica. I pochi che cercheranno di aiutarla andranno incontro a tragici incidenti. Inevitabile la resa finale, nel bellissimo epilogo dove emergerà l'amore materno anche al cospetto di quello che è e sarà un mostro. Polanski chiude con un misto di ottimismo e al tempo stesso di pessimismo. “Ha gli occhi di suo padre” sussurrerà il capo della setta alla madre. Il personaggio della Farrow, ormai venuto a conoscenza dei fatti, guarderà all'interno della culla (ovviamente nera) dove vedrà scintillare gli occhi di un gatto eppure, senza scomporsi, inizierà a dondolarla con l'evidente speranza di educare al bene colui che non si potrà domare.
Dunque un horror “aristocratico”, assai lontano dal cinema di genere, ma importantissimo per la sua portata innovativa. Polanski, distillando la tensione, fa leva sulla claustrofobia psicologica di un personaggio incapace di liberarsi da una situazione sempre più asfissiante. L'escamotage dell'elemento soprannaturale è quindi un plus che sta sullo sfondo di una storia molto più realistica di quello che potrebbe sembrare. Rosemary's Baby è la metafora di tutte quelle relazioni sentimentali che nascono sotto i più rosei auspici, ma che si trasformano in veri e propri inferni alimentati dalle interferenze di terzi (suoceri, parenti o vicini) che mettono voce dove non dovrebbero, andando a minare le capacità di autodeterminazione della coppia sempre più in balia dei voleri altrui. Punto di forza è la prova della Farrow, perfetta nel trasmettere la disperazione cieca del suo personaggio. Assai bravi anche tutti gli altri, con la loro ipocrisia celata dai gesti gentili e caritatevoli. Atteggiamenti e situazioni di convivenza vicinale su cui Polanski tornerà, con effetti addirittura più deliranti, in occasione de L'Inquilino del Terzo Piano (1976). Altro valore aggiunto è la ninnananna diabolica composta da Krzysztof Komeda, musicista polacco fedelissimo di Polanski che morirà in un incidente stradale, a soli trentotto anni, l'anno seguente.
L'opera, a ragione, è inserita da molti critici tra i migliori cento film mai realizzati. Polanski tornerà a interessarsi di diavolo e di patti diabolici in occasione de La Nona Porta (1999).

Linda Blair e
Friedkin sul set de L'Esorcista.

Di ben altro stile è L'Esorcista (1973) che William Peter Blatty sceneggia adattando il suo romanzo (a sua volta ispirato a un caso di cronaca avvenuto alla fine degli anni '40 e su cui Blatty si era informato, recuperando materiale dal diario dell'assistente che aveva coadiuvato l'esorcista) al formato cinematografico. La differenza tra film e romanzo è minima ed è ben resa dal regista William Friedkin, reduce dall'ottimo risultato (premio Oscar) ottenuto dal noir Il Braccio Violento della Legge (1971) e fortemente voluto da Blatty, nonostante le resistenze della Warner Bros (voleva Kubrick). Pur dirigendo ottimi polizieschi, quali Vivere e Morire a Los Angeles (1985) e Jade (1995), Friedkin non si confermerà più su certi livelli.
A differenza dell'opera di Polanski, il duo Blatty-Friedkin opta per un horror dal grande impatto emozionale e dai dialoghi volgari e immediati. Non si contano le parolacce, i gesti sacrileghi (Regan che si auto penetra con un crocefisso), lo splatter (tra cui l'inverosimile vomito verde che farà scuola) e le deformazioni facciali, tutti espedienti che segnano la nuova via dell'orrore estremo. Non di secondaria importanza inoltre è il rapporto tra possessione diabolica e disturbi schizofrenici, vero e proprio tormentone del film.
Protagonista è un'adolescente (Linda Blair) che sembra caduta preda di disturbi psichici. Gli specialisti della mente la sottoporranno a ogni tipologia di cura e di esame non riuscendo tuttavia a prestare il soccorso del caso. Determinante sarà l'intervento di un esorcista, il quale farà emergere la vera natura del problema. Curiosamente, ancora una volta (chiaro legame con Rosemary's Baby), abbiamo una coprotagonista che interpreta la parte di un'attrice alla ricerca di fortuna (la madre di Regan, interpretata da Ellen Burstyn), aspetto che suggerisce una critica a un certo ambiente che tende a sottovalutare la famiglia in favore dell'affermazione personale. Al di là di quanto detto, le novità sono molte, in primis abbiamo i fenomeni di poltergeist (letti e oggetti che si muovono da soli) poi viene esaltata la capacità dell'indemoniata di parlare più lingue, di conoscere i segreti delle persone che ha difronte e di assumere la voce di altre defunte.
Dunque una pellicola a tutti gli effetti rivoluzionaria, in grado di dar vita a un vero e proprio sotto filone e di scioccare con una tensione continua e martellante esaltata da una colonna sonora (firmata Mike Oldfield) monotona, ma che alla lunga penetra nelle ossa lasciando atterriti a distanza di anni (il riferimento va a Tubular Bells). Eccellente studio inoltre della fotografia (nomination all'Oscar per Owen Roizman), in virtù di giochi di luce e angolazioni che saranno emulati in seguito. A tal riguardo è da antologia la scena che segna l'arrivo di Max von Sydow nella casa di Regan, tanto da esser riportata persino nella locandina del film.
Non sono di minore importanza le interpretazioni recitative, grazie a un lotto di attori, facendo eccezione per Max von Sydow (indimenticabile ne Il Settimo Sigillo di Bergman, titolo dal sapore apocalittico tra l'altro), da non considerarsi tra le prime scelte di Friedkin. La Burstyn, pur reduce da una nomination all'Oscar ottenuta nel 1972 con L'Ultimo Spettacolo (premio che poi vincerà in seguito), viene ingaggiata dopo i rifiuti di Jane Fonda, Audrey Hepburn e Anne Bancroft. Sorte pressoché analoga per la sconosciuta Linda Blair, appena quattordicenne ma con alle spalle alcune esperienze televisive. La prova della giovane sarà così convincente da strappare una nomination all'Oscar e da essere vista come una possibile grande attrice. Purtroppo la fortuna della Blair si esaurirà presto, a causa di una vita fatta di eccessi, tanto da finire arrestata nel 1977 perché coinvolta in un giro di alcool e droga.
Il film ebbe un successo stratosferico in grado di battere tutti i record di settore, cosa non da poco, in considerazione dei divieti ai minori di diciotto anni e dell'alea da film maledetto che gli fu affibbiata con tanto di ambulanze spesso presenti fuori dai cinema. Fu altresì accolto benissimo dalla critica e fece incetta di premi. Massacrato al momento dell'uscita dalla censura, oltre che bandito in alcuni paesi orientali, a quasi trent'anni dalla sua prima proiezione fu di nuovo proiettato nella sua versione uncut con undici minuti aggiuntivi (tra cui la celebre scena della spider walk), riscuotendo ancora una volta un discreto successo di pubblico e ispirando l'uscita di un ulteriore sequel: L'Esorcista La Genesi, uscito peraltro in duplice copia per le regia di Paul Schrader e Renny Harlin.
Alla luce di quanto detto tutti sono concordi nel considerare L'Esorcista una pietra miliare del genere e soprattutto un film in grado di entrare nelle fantasie dei produttori e dei registi italiani (e spagnoli) che lo rifaranno, come vedremo, decine di volte.


Il Presagio (1976) funge un po' da sintesi tra Rosemary's Baby e L'Esorcista sia per tematiche che per stile. Dal film di Polanski si riprende e si sviluppa il tema del figlio del diavolo, reso addirittura più fantastico perché nell'opera di Donner il bimbo nasce dal ventre di uno sciacallo (lo si scoprirà in una bellissima sequenza ambientata in un cimitero storico di Cerveteri); da Friedkin invece viene mutuata l'atmosfera crescente di orrore senza però spingere troppo sul versante splatter (c'è comunque una decapitazione, oltre al marchio della bestia rappresentato da una concatenazione di sei tatuati sulla nuca del piccolo protagonista, mentre nel caso di Regan compariva la scritta “help me”).
Ancora una volta la fonte è narrativa (David Seltzer), ma lo sviluppo e la struttura del racconto sono più complesse e coprono un arco temporale ben più ampio dei precedenti lavori. Ciò permette di ricorrere a una vasta gamma di ambientazioni e di location, si va dai deserti israeliani, alle invernali scene nella verde Inghilterra, anche se la storia prende le mosse in quel di Roma. È proprio nella capitale italiana che prende avvio il soggetto, chiaramente alle ore 6,00 del 6 giugno (tanto per far subito spuntare la cifra diabolica). Il protagonista, il grande Gregory Peck, è un console degli Stati Uniti in servizio a Roma che attende la nascita del figlio. Quest'ultimo però nasce morto, almeno così sembrerebbe (si scoprirà che è stato ucciso); per non ferire la moglie, il politico viene convinto da alcuni religiosi ad adottare un neonato a cui è morta la madre durante il parto e di cui non si sa niente. Indovinate un po' chi si porta in casa il buon console? La moglie (Lee Remick) non sospetta niente fin quando, dopo qualche anno, non cominceranno ad accadere strani eventi. Intanto la famiglia si è spostata nel Regno Unito dove, una mattina, il politico, promosso ambasciatore, viene avvicinato da un prete che gli rivela la vera natura del figlio. Sulle prime l'uomo non crede all'assurdo racconto, poi, accompagnato da un fotografo (David Warner, proveniente da Cane di Paglia di Sam Peckinpah e celebre per le sue apparizioni in film come Providence di Hitchcock, L'Uomo Venuto dall'Impossibile, Waxwork e il capolavoro assoluto di John Carpenter Il Seme della Follia) inizia a indagare perché le foto scattate da quest'ultimo sembrano nascondere una premonizione circa la tragica fine che faranno i soggetti immortalati.
Seltzer e gli sceneggiatori cercano di dare un certo imprinting al loro racconto attingendo da passaggi biblici. Purtroppo, a parte l'ottima interpretazione che vuole far sorgere l'anticristo dal mare della politica (e da dove altro dovrebbe emergere, del resto...), i riferimenti religiosi lasciano presto il passo all'atmosfera di tensione, con una storia un po' inverosimile che porta il figlio del diavolo a scoprirsi nella sua vera identità con una lunga sequela di morti e suicidi più o meno indotti (la motivazione è quella di impedire la nascita di un fratello per poter così ereditare l'intero patrimonio di famiglia). Bella la presenza dei rottweiler e degli animali presentati come se fossero l'incarnazione del diavolo (fanno davvero paura, Dario Argento si ispirerà qui per la sua scimmietta de La Terza Madre), così come si assiste alla presenza di preti votati al male (spettacolare e tenebrosa la sequenza dell'impalamento con il fulmine che tronca un'asta che cade da un tetto e va a infilzare il religioso che cercava la via della redenzione), baby sitter appartenenti a sette sataniche (grandiosa l'inglese Billie Whitelaw, già vista in Frenzy di Hitchcock, che assume espressioni davvero sataniche nell'immolarsi a difesa del bimbo) e trovate sonore di Jerry Goldsmith geniali e giustamente premiate con l'Oscar (in una scena, al posto dello sfiato di un rottwiler, viene inserita, flebilmente, in modo continuativo la parola antichrist proprio a simulare il fiato dell'animale). Tra le sequenze più belle sono da ricordare il beffardo finale e la lunga progressione di Peck che cerca di portare il figlio in Chiesa mentre questo urla alla vista del crocefisso che svetta sul campanile.
Come L'Esorcista avrà tre seguiti (l'ultimo televisivo), di valore via via inferiore rispetto al primo capitolo. Nel 2006 uscirà persino un inutile remake (identico quasi in tutto e per tutto) per sfruttare la ricorrenza del sei giugno del 2006 (trovata commerciale niente male).

Questa dunque la situazione che viene a delinearsi per il nuovo horror. Da una parte il filone legato attorno alla figura degli zombi, dall'altra quello gravitante sulla figura del diavolo e più specificatamente sulle possessioni diaboliche. Ecco allora che i nostri produttori, sempre alla ricerca di incassi facili, pensano bene di sfruttare il movimento dando il via a una lunga serie di pellicole di imitazione. Il primo dei tre film a essere saccheggiato non può che essere Rosemary's Baby, uscito ben cinque anni prima rispetto all'opera di Friedkin. L'opera di Polanski funge più da ispirazione ai registi italiani che riprendono soprattutto la tematiche della setta satanica intenta a commettere delitti, piuttosto che a ricostruire il clima claustrofobico tipico del film di riferimento. Ne è un esempio l'eccellente Tutti i Colori del Buio (1971), diretto dal giovanissimo e promettente Sergio Martino, con un cast che vede impegnati George Hilton, Edvige Fenech, Ivan Rassimov, Nieves Navarro, Domenique Boschero e Marina Malfatti (cast di attrici di rara bellezza)...

Prosegue... testo a cura di Matteo Mancini.
  

sabato 19 marzo 2016

Recensione Narrativa: IL GIOCATORE di Fedor Dostoevskij





Autore: Fedor Dostoevskij.
Anno: 1866.
Edizione: Oscar Mondadori.
Genere: Drammatico.
Pagine: 180.
Prezzo: 6.00 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Romanzo breve firmato da una delle penne più autorevoli della letteratura mondiale ovvero Fedor Dostoevskij, celebre per i voluminosi capolavori quali Delitto e Castigo (1866), I Fratelli Karamazov (1879), L'Idiota (1869), romanzo quest'ultimo avviato a Firenze,  e I Demoni (1871).
Scrittore moscovita nato nel 1821 da una mercante e da un medico militare di origini lituane, bravo a sfruttare conoscenze per diventare ricco e mutare grado sociale. Si forma con studi in ingegneria militare conseguendo il titolo finale, ma riformandosi dopo appena un anno, col grado di sottotenente, per intraprendere la carriera di scrittore. Educato da un padre dispotico, perde in giovane età entrambi i genitori e deve lottare con i denti per tirare a campare. Pubblica il primo volume, Povera Gente, all'età di venticinque anni, ottenendo apprezzamenti. Nel 1849 però la sua vita sembra giunta al capolinea. Viene arrestato in quanto reputato un dissidente con simpatie comuniste nonché aderente a certe società segrete reputate pericolose per la stabilità dello Stato. La condanna è grave e prevede la pena di morte. Nulla sembra poter scongiurare questo triste epilogo, Dostoevskij sta già salendo sul patibolo quando giunge la grazia dello zar. La pena viene convertita ai lavori forzati a tempo indeterminato, ma lo shock è tale da comportare l'insorgere della pazzia per un compagno, il mutamento di colore dei capelli per un altro e l'insorgere di una grave epilessia per Dostoevskij. Deve così passare cinque anni di lavori forzati, beneficiando nel 1854, all'età di 33 anni, della semilibertà per buona condotta. La pena viene così convertita all'obbligo di servizio di leva al confine con la Cina. Ancora cinque anni e sarà definitivamente messo in libertà. Ritorna a San Pietroburgo e riprende le pubblicazioni, tutte opere minori, ma la morte del fratello e lo smodato gusto per il gioco e la roulette lo portano a versare in una profonda crisi economica, amplificata dai contrasti con la prima moglie.  Braccato dai creditori, si trasferisce all'estero per sottrarsi a un nuovo arresto per insolvenza, mentre mobili e proprietà gli vengono pignorati. La condizione di indigenza lo porta a sottoscrivere un non troppo vantaggioso contrato di cessione dei diritti d'autore a un editore di nome Stellovskij. E' proprio in virtù di questo accordo che si pongono le basi per la bizzarra genesi de Il Giocatore. Dostoevskij è infatti impegnato a stendere quello che è il suo primo vero capolavoro ovvero Delitto e Castigo che inizialmente pensa di pubblicare col titolo Gli Ubriachi. L'opera esce a puntate sul Messaggero Russo ed è formata da circa 700 pagine. Tutto sembra procedere liscio se non che Dostoevskij si ricorda di una clausola inserita nel contratto e che prevede l'impegno di consegnare all'editore un romanzo di almeno 192 pagine entro il primo novembre del 1866. Dostoevskij, preso nella stesura di quello che reputa il suo primo grande romanzo, si ricorda di ciò solo a inizio ottobre e si fa prendere dal panico, poiché il mancato rispetto dell'impegno comporterebbe l'acquisizione a titolo gratuito di Stellovskij dei diritti sulle successive opere pubblicate dallo scrittore nei successivi nove anni. Per massimizzare i tempi, lo scrittore russo ingaggia una giovanissima stenografa (che poi diventerà sua moglie) e detterà alla stessa, in fretta e furia, il testo de Il Giocatore. Il romanzo sarà completato in meno di trenta giorni, scritto nelle pause di stesura di Delitto e Castigo con Dostoevskij impegnato di nuovo su quest'ultimo nei tempi morti determinati dalla traduzione in russo della grafia della stenografa. Grazie a tale escamotage il romanzo viene ultimato il 30 ottobre, solo che si innesca un ulteriore problema: Stellovskij non è in Russia per ricevere il volume, si trova all'estero. Per scongiurare liti e cause giudiziarie relative ai tempi di consegna, Dostoevskij si reca a un commissariato di polizia per far accertare il rispetto della scadenza. Nasce così un romanzo dalla genesi più bizzarra nella produzione dello scrittore russo, un romanzo che ha, come vedremo, contenuti autobiografici (contrariamente alla produzione solita dell'autore) e che ruota attorno alla vera passione dello scrittore: il gioco d'azzardo. Un vizio, quest'ultimo, che lo porterà spesso a dilapidare i guadagni, in giro per i casinò d'Europa, subito però rintuzzati da una serie di capolavori avviati da L'Idiota e culminati con I Fratelli Karamazov. Successi questi ultimi tali da garantirgli un'ultima parte di carriera in buone condizioni economiche e da andare a plasmare quella che è una tra le più blasonate bibliografie del mondo. Morirà a sessant'anni per enfisema polmonare scatenato da tubercolosi.

Fedor Dostoevskij

Dunque possiamo definire Il Giocatore un romanzo scritto per ragioni alimentari, e più precisamente per scongiurare grane editoriali. Dostoevskij lo scrive per costrizione, con un'ispirazione en passant e senza tempo per migliorarlo o comunque rivederlo. L'opera nasce, si può dire, da una costola di Delitto e Castigo, come una sorta di lato B di un album tutto orientato sull'altro romanzo e che non punta niente sul secondo prodotto. Eppure, pur non essendo all'altezza del copioso romanzo fiume che si sarebbe dovuto intitolare Gli Ubriachi, si tratta di un romanzo dagli interessanti risvolti e dalla futuribile psicoanalisi del tema del gioco d'azzardo. Possiamo intravedere nel testo tre anime. La prima è quella legata alla febbre o malattia del gioco con il profilo delle varie tipologie di giocatore (è la parte migliore), poi abbiamo un substrato sociologico con l'autore che si sofferma su svariati archetipi di uomini di nazioni diverse (inglese, tedesco, russo, italiano, polacco e francese) infine abbiamo la storia di una famiglia di nobili decaduti che vorrebbero sposare le norme del galateo e invece si rendono protagonisti delle più basse forme di ipocrisia.

Protagonista della storia è Aleksej Ivanovic, un giovane precettore che vive alla corte di un generale carico di debiti, invaghito della figliastra dello stesso, tale Polina, che lo deride di continuo e ne sfrutta la passione amorosa per fare di lui una sorta di giullare ai suoi ordini (mi viene in mente il tema de La Ballata dell'Amore Cieco di De Andrè). La famiglia è altresì composta da due bambini (di cui il protagonista è maestro), una madama francese, tale Blanche, dal passato oscuro tanto da dare l'idea di essere una prostituta d'alto borgo legata ai soldi, oltre che da una serie di personaggi che, a vario titolo, ruotano attorno al gruppo. Tra questi ultimi abbiamo un francese strozzino (di cui è innamorata Polina) che attende la restituizione dei soldi che ha prestato al generale, un nobile inglese, anch'esso innamorato di Polina che incarna tutte le caratteristiche del gentleman e, infine, una vecchia nobile russa, la nonna del generale, di cui tutti attendono il telegramma che ne annunci la morte, così da poterne incamerare l'eredità, e che invece sopraggiunge dalla Russia nella dimora del generale dispensando ordini a destra e a manca, gettando tutti nello sconforto (perché non solo non muore, ma è sana e vegeta). Quest'ultimo ingresso, a circa metà romanzo, funge da elemento di cerniera nell'evoluzione del protagonista. Dostoevskij caratterizza questa anziana, che si sposta su una sorta di sedia a rotelle, in modo grottesco e sopra le righe. "Gli uomini sono tutti galli; si sarebbero battuti. Voi siete tutti babbei, come vedo, non sapete tenere alta la vostra patria!" urla per scuotere l'ambiente moscio con cui si trova a doversi confrontare. Sarà lei a incarnare, per prima, la temerarietà del giocatore, che rischia la rovina per vincere piuttosto che scegliere il confort della tranquillità. E tutto questo non per ricevere somme con cui sistemarsi (sia la vecchia che il protagonista, infatti, avranno questa possibilità, ma persevereranno nel gioco), ma per la scossa emozionale di adrenalina che può offrire solo il pericolo di disfatta che si frappone, quale ideale ostacolo, alla ricompensa per l'ardore dimostrato e premiato dal fato. Una sensaizione assimilabile al crosser che in sella alla sua bestia a due ruote compie un salto tra due crostoni di terra intervallati da un abisso da cui non vi è ritorno. Il raggiungimento dell'altra parte viene così ad assumere l'idea di aver sfidato e battuto la morte. Un modo come un altro per dare benzina al proprio narcisismo o per rafforzare la stima in sé stessi. Un premio però che senza ripetizione resterebbe un mero e lontano ricordo di un'emozione forte che non si potrebbe più vivere e quindi via via sempre più sfumata, quasi neppure più propria. "Io avevo come la febbre ardente, e spinsi tutto questo mucchio di denaro sul rosso e di colpo tornai in me! Mi attraversò il gelo della paura e si tradusse in un tremito delle mani e delle gambe. Sentii con terrore e istantaneamente ebbi coscienza di quel che adesso significava per me perdere! Nella posta era tutta la mia vita!" Ne deriva un'immagine masochistica del giocatore, che gioca perché ama sentire quella sospesione tra disfatta e gloria, una condizione che genera uno sbalzo emozionale regolato dall'aleatorietà e dall'attesa della quiete di una pallina che vortica impazzita in una roulette, piuttosto che di una carta che entra in un mazzo o di un cavallo che corre sull'erba sospinto o frenato dalle migliaia di occhi che ha puntati contro. Un approccio pericoloso, tutt'altro che ludico e tendente più al patologico, che non può che portare alla perdita economica in quanto continuo, ripetuto, e spesso sempre più audace. "Avevo voglia di far stupire gli spettatori, arrischiando pazzamente... m'invase una terribile sete di rischio." Un'analisi, per l'epoca, avanguardistica di Dostoevskij che, memore delle proprie esperienze dirette, anticipa di decenni certi profili stilati da psicologi e studiosi del gioco o, più generalmente, della psiche umana.

Dostoevskij sceglie la Germania come teatro in cui far svolgere i fatti, nell'immaginifica Roulettenburg, un paese conosciuto per due cose: le terme e il casinò, da qui il nome di fantasia che richiama la roulette e che avrebbe dovuto dare il titolo al romanzo (fu Stellovskij a imporre Il Giocatore).
La prima parte del romanzo è funzionale a presentare i vari personaggi. L'autore è attento nel delineare psicologie e attitudini, pur giocando sugli stereotipi riconducibili alle nazioni di provenienza. Abbiamo così i russi che incarnano il modello di persone che dilapidano i patrimoni al gioco (la c.d. sregolatezza russa), quindi l'ipocrita e calcolata cortesia dei francesi, l'idiozia formale dei tedeschi rappresentati come uomini privi di fantasie e assimilabili a formiche operaie ("preferirei fare il nomade tutta la vita sotto una tenda che inchinarmi all'idolo tedesco"), il lato truffaldino e caciarone degli italiani e l'aplomb inglese. Dostoevskij dedica molto del suo testo a questo spaccato sociologico e familiare, tipico della narrativa russa, a mio avviso a tratti noioso e funzionale a dilatare il contenuto del testo. Si parla di amori non corrisposti, ipocrisia legata a falsi sentimenti di affezione che poi contrastano con l'immagine del rispetto delle norme del galateo che il generale in primis vuol rispettare (non a caso si preoccuppa per la banale offesa di un barone, evento considerato di enorme gravità, e poi brama che muoia la nonna per ereditarne i soldi e sposare una prostituta che si spaccia per nobile), quindi la malattia del gioco da interpretare quale fuga da una realtà di cui non si accettano i contorni (si rovinano la nonna, che non accetta il falso amore dimostrategli dai cari, e il protagonista che cerca di ricrearsi una vita dopo aver visto sgretolarsi il sogno di un amore impossibile). Ed è questa seconda parte che costituisce la benzina vitale di questo testo. Notiamo come il protagonista, costretto a giocare su mandato altrui, passi da un atteggiamento ostile di presa di distanza dal gioco d'azzardo ("è sciocco e assurdo aspettarsi qualcosa dal gioco... E' esattamente il caso di chi annega, che si aggrappa alla pagliuzza scambiandola per un ramo d'albero") a uno di completa adesione, un po' a simulare quell'atteggiamento cui vanno incontro i drogati che si credono convinti di poter sospendere l'assunzione delle sostanze a cui si sono abituati e che invece cadono sempre più in una spirale da cui è difficile fare ritorno.Così vediamo Aleksej passare da giocatore su mandato altrui a giocatore in proprio, sempre più coinvolto e sempre più temerario.


Dostoevskij distingue le varie figure di giocatori. "Ci sono due giochi: l'uno da gentleman, l'altro plebeo. Il gentleman punta per puro gioco, per semplice spasso, propriamente per seguire il processo delle vincite o delle perdite senza interessarsi della vincita," il plebeo punta al guadagno. Così per il primo anche una perdita ingente non comporta conseguenza alcuna nell'animo, mentre nel secondo innesca un procedimento votato a un recupero del perduto che rischia di condurre alla rovina irreversibile. Così Dostoevskij mostra anche l'immagine del giocatore professionista e di quello improvvisato, soggetti che scelgono diverse filosofie di gioco. I primi, armati di penna e fogli, segnano i colpi, calcolano probabilità, dispensano pronostici; i secondi invece si affidano al fato, senza badare a nulla, convinti della cecità della Dea Bendata.

Non di secondaria importanza la descrizione di questi ambienti dove le persone costruiscono o, più propriamente, distruggono il proprio patrimonio. Dostoevskij parla di una calca che coinvolge soggetti di diversa estrazione, soprattutto scrittori e nobili, in cui si muovono banditi di diversa natura, pronti a rubare qualche moneta o a fare circonvenzione su partecipanti poco esperti (l'autore vede i polacchi come gli specialisti in questa attività). "Là dentro, fin dalla prima occhiata, tutto mi dispiacque. Io non posso soffrire quel servilismo delle appendici giornalistiche, dove ogni primavera i nostri scrittori di appendici discorrono di due cose: in primo luogo, la magnificenza e il lusso delle sale da gioco nelle città renane della roulette, e, in secondo luogo, i mucchi d'oro che si dice ci siano sui tavoli da gioco. Non li pagano mica per questo. Non c'è alcuna magnificenza in queste miserabili sale, e d'oro sui tavoli non soltanto non ce n'è a mucchi, ma appena appena lo si vede."

Il resto della storia è strumentale, marginale. Vediamo solo cadere in rovina tutti coloro che si sono messi a giocare alla roulette, a causa dell'incapacità di comprendere quando smettere di giocare o a causa del modo in cui giocano e cioè della capacità di accettare l'eventualità della perdita e quindi di dividere i capitali in modo da non cadere in rovina. Qua tutti giocano fino all'ultima moneta in modo da recuperare le somme perdute, poiché compiono ragionamenti su base probabilistica e legati alla legge dei grandi numeri ("se ho perso fino a ora vuoi che continui a perdere?"). Un modo questo che porta alla rovina, bisognerebbe non giocare mai (o con grandissima moderazione) e, se lo si fa, lo si deve fare facendo conto di buttar via il denaro che si investe nell'aleatorietà, ben sapendo quindi di dover far fronte con il restante alle esigenze del comune vivere.

Il romanzo ha ispirato un film del regista ceco Karel Reisz, intitolato 40.000 Dollari per non Morire (1974) con James Caan protagonista, il quale ha preso spunto dall'opera di Dostoevskij per modernizzarla e spostare l'ambientazione negli Stati Uniti. Risulta invece più fedele al testo The Gambler (1997) dell'ungherese Karoly Makk, mentre ne racconta un po' la genesi di realizzazione I Demoni di San Pietroburgo (2007) di Giuliano Montaldo, che parla di Dostoevskij nel periodo di stesura di Delitto e Castigo e de Il Giocatore.


Locandina di un film tratto da
Il Giocatore.

"La gente presuntuosa! Con che orgogliosa sufficienza quei cialtroni sono pronti a pronunciare le loro sentenze! Se sapessero fino a che punto io stesso comprendo tutta la schifezza della mia presente condizione, certamente non si moverebbe loro la lingua per insegnarmi. Ma che cosa, che cosa possono dirmi di nuovo, che io non sappia? Qui il fatto è che, con un solo giro di ruota, tutto cambierebbe e quegli stessi moralisti per primi verrebbero con amichevoli scherzi a congratularsi meco. E non mi volterebbero tutti le spalle, come adesso. Ma di tutti loro m'infischio! Che cosa sono io stesso? Zero."

"Lo Zero è il profitto del banco. Se la pallina cade sullo zero, tutto quel che è stato messo sul tavolo appartiene al banco senza conteggi... Se voi avete puntato sullo zero, vi sborsano trentacinque volte tanto..."





martedì 15 marzo 2016

Intervista a Roberto Albanesi regista de NON NUOTATE IN QUEL FIUME




Articolo intervista  a cura di Matteo Mancini
Abbiamo il piacere di ospitare un vecchio amico del blog, già più volte presentato e intervistato da queste parti dove abbiamo tenuto a battesimo il suo debutto e la sua progressiva e crescente evoluzione artistica.
Stiamo parlando di ROBERTO ALBANESI, filmaker classe 1986 di Casalpusterlengo, che si definisce un auto-didatta con la passione sfrenata per il cinema di genere.  Una presentazione, così detta, che potrebbe far pensare a uno dei tanti appassionati del fine settimana o del ritaglio di tempo libero, ma che vanta menzione sul portale internazionale di imdb.com dove vi compare in virtù del salto di qualità avvenuto nel 2013 con il film a episodi The Pyramid, autoprodotto, tra gli altri, dal volpone Alex Visani. Un'opera che ha fatto schizzare il nome della New Old Story FIlm (nome della casa di produzione fondata da Albanesi) nel mondo underground italiano, che da sempre snobba certi prodotti (vale anche per la narrativa), ma soprattutto sul mercato giapponese, canadese e americano dove il film è stato distribuito e venduto. Una soddisfazione, quest'ultima, non di poco conto, per una squadra auto-didatta. Prodotto quest'ultimo preceduto da una serie di cortometraggi minori, non menzionati su imdb.com, ma di cui Roberto ci ha svelato i retroscena in più di un'occasione e di cui abbiam avuto modo di parlare. Ricordiamo e rinviamo a quanto pubblicato qua su queste pagine relativamente a Happy Birthday, Diesis e Happy Easter, caratterizzati da un'evolutiva crescita di tutto lo storico cast tecnico e artistico (Simone Chiesa su tutti) della New Old Story, esaltata dai riconoscimenti ricevuti al Reign of Horror Film Festival. 

Premesso quanto sopra veniamo a questa nuova fatica, ovvero il debutto di Roberto Albanesi alla direzione di un lungometraggio. Il nostro amico ci presenta un horror di circa 70 minuti dal titolo che omaggia i cari e rimpianti anni '70: Non Nuotate in quel Fiume. Palese l'omaggio iniziale a Tobe Hooper e al suo Non Aprite quella Porta, ma con risvolti che fanno pensare persino al cult movie L'Occhio nel Triangolo. L'atmosfera che pervade l'opera sembra quella dei famosi Grindhouse rievocati da Tarantino e Rodriguez, in particolare salta alla mente il trailer fake intitolato Don't.
La trama si muove sul canovaccio tracciato dall'attuale Lo Chiamavano Jeeg Robot con un trio di manigoldi che sono braccati e che devono consegnare una valigetta a un boss sarcastico, ma crudele. Il luogo della consegna viene individuato attorno a un fiume, un fiume nel quale si nascondono strane entità umanoidi... 

1.  Dopo questa dovuta introduzione, passiamo a salutare Roberto dandogli il benvenuto su questa pagina. Innanzi tutto ci complimentiamo con la New Old Story Film per i successi ottenuti con The Pyramid e col successivo progetto antologico che l'ha vista coinvolta. Abbiam parlato qualche anno fa di The Pyramid, cosa ci puoi dire invece di questo secondo progetto antologico?

R.A: Prima di tutto, grazie Matteo per l'ospitalità che mi riservi sempre sul tuo Blog, a cui sono parecchio legato."CATACOMBA" è un progetto di Lorenzo Lepori, che mi ha voluto fortemente come regista/sceneggiatiore (e la NOS Film come società co-produttrice) dell'episodione che fa da cornice ai 4 episodi (tutti diretti da Lorenzo) che compongono il film. Il film è scritto a 6 mani da Lepori, Antonio Tentori e dal sottoscritto. E' un omaggio ai fumetti degli anni 70 e 80, tutti pensati e realizzati da italiani. C'è parecchio sangue... parecchio sesso... e molta ironia. A breve daremo una bella notizia su "Catacomba"


2. Ricordo che la precedente volta parlammo dell'acquisto da parte dei distributori americani di The Pyramid. Come si è comportato il film da un punto di vista commerciale? Che tipo di contatti hai avuto con critici e distributori stranieri? Hai avuto la stessa accoglienza anche in Italia, ed è cambiato qualcosa rispetto a un paio di anni fa?

R.AThe Pyramid a livello commerciale non ci ha resi ne ricchi ne poveri. La sua parabola distributiva è stata seguita dal capo progetto, ossia il buon Visani... noi registi/sceneggiatori abbiamo "semplicemente" visto il nostro film rimbalzare da una parte all'altra del globo, ed è stato qualcosa da non credersi... sapevamo che il film era molto valido, ma mai e poi mai ci saremmo immaginati una visibilità così ENORME. E' diventato il film antologico di maggior successo del cinema di genere italiano. Per quanto riguarda l'Italia, posso solo dire che è stato allegramente schivato da tutti. Nessuno è profeta in patria.


3. Veniamo a Non Nuotate in quel Fiume. Il film uscirà il 25 marzo e ho visto che lo avete presentato nei libretti di sala quale tributo ai B-Movie degli anni '70-'80. Mi pare di intuire, dalla visione del trailer e dal titolo scelto, uno spiccato omaggio votato alla produzione d'oltreoceano, quella un tempo destinata ai drive in, piuttosto che all'europea. Sbaglio oppure lo reputi più legato all'imprinting italiano di quell'epoca?

R.A.: Ci hai visto bene Matteo! Alla fine son cresciuto più con film stranieri che con film italiani. Il titolo del film invece, è un omaggio alle folli traduzioni italiane di titoli come The Texas Chainsaw Massacre e I Spit on your Grave. In quegli anni lì, i nostri traduttori si sono fatti un po' prendere la mano dalla "NON FATE QUELLA COSA" mania. E son venuti fuori titoli come "Non Aprite quel Cancello" "Non Violentate Jennifer" "Non Entrate in quel Collegio" "Non Entrate in quella Casa" "NON TELEFONATE DOPO LE 22 DI SERA CHE STO GUARDANDO CHI L'HA VISTO E NON VI RISPONDO". Titoloni che facevano presa immediata sul pubblico, titoloni che mi fanno godere non poco.


4. Dalla lettura della trama deduco uno sviluppo sulla falsa riga de Dal Tramonto all'Alba, ovvero un copione che prende le mosse strizzando l'occhio al noir, con un trio di delinquenti protagonista, e che poi vira in modo deciso verso l'horror. Come vi è venuta l'idea di usare il fiume quale fonte da cui nasce l'orrore? C'è qualche legame con film come L'Occhio sul Triangolo di Ken Wiederhorn?

R.A: E' un parallelismo che ci può stare (anche perchè il classico: "criminali in fuga dai problemi che incontrano problemi ancora più grossi", è una storia vecchia quasi quanto il cinema). L'idea del fiume mi è venuta in quanto amante della natura ed eterno visitatore delle valli piacentine, soprattutto della Val Trebbia, dove Bellocchio realizzò uno dei miei film preferiti di sempre I Pugni in Tasca. Il legame con L'Occhio nel Triangolo non c'è, semplicemente perchè è un film di cui non conoscevo l'esistenza. Lo recupererò a breve. Mi hai incuriosito.


5. Noto delle curiose analogie, come si suol dire prima facie, con Lo Chiamavano Jeeg Robot. Hai ripreso l'idea dei delinquenti protagonisti contrapposti a un boss donna e con un fiume a fungere da elemento scatenante. Credo che sia tutto casuale, in caso contrario sconfessami.

R.A: Assolutamente casuale.Ho finito di scrivere Non Nuotate in quel Fiume un anno fa esatto.


6. Perché hai optato per un boss donna? Hai voluto introdurre delle venature erotiche oppure costituisce un mero diversivo?

R.A: Per due grandi motivi. MOTIVO 1. Quando hai a disposizione un talento puro come quello di Roberta Nicosia (famosa in tutta Italia per i video con gli youtuber Pantellas Ndr.) non vedi l'ora di darle un ruolo che possa far scatenare tutta la sua bravura. MOTIVO 2. Per quanto continuiamo a raccontarci il contrario, sono le donne a comandare gli uomini. Ho perso recentemente un amico di vecchia data per la sua totale inzerbinatura nei confronti della sua donna. Forse questo mi ha ispirato inconsciamente.


7. Come è nata la sceneggiatura del film, quando l'hai concepita? E' un progetto che maturavi di realizzare da molto tempo, cioè era un copione nel cassetto oppure è nuovo? Ti faccio questa domanda perché essendo un copione di un lungometraggio, molti registi hanno una loro sceneggiatura del cuore che lasciano chiusa in un cassetto con la speranza poi di portarla in scena.

R.A: La sceneggiatura l'ho scritta nel Febbraio del 2015. Da anni desideravo realizzare un film che toccasse i temi dei film di serie-b, semi-invisibili, che hanno riempito i nastri magnetici delle nostre vecchie, care, amate ed estinte videoteche. L'idea del film mi è semplicemente SALTATA FUORI, dal nulla, senza motivo o diretta ispirazione. La famosa "sceneggiatura nel cassetto" ce l'ho davvero, ma non posso realizzarla perchè necessita di un VERO budget (Non Nuotate in quel Fiume, per esempio, mi è costato 80 euro). Si intitola "VIDEOCLIPPER" ed è un omaggio alla videoteca in cui ho lavorato da ragazzino.


8. Quali, se ci sono state, le difficoltà maggiori a girare un lungometraggio piuttosto che un corto?

R.A: Un lungo, ovviamente, ti porta via più tempo.Grazie a Dio avevo accanto a me Amici (ancora prima che colleghi) che mi hanno dato una mano enorme a portare tutto a compimento. Il ping pong è qualcosa che si deve far da soli (e di cui non esiste persona che può battermi), ma il cinema no... ed è bellissimo così.


9. La scelta delle location. Il film è ambientato nel piacentino. Avete scelto il set per una qualche ragione o leggenda del posto, oppure perché era semplcemente strumentale alla trama? Quanto, secondo te, è importante una scenografia al fine della riuscita del prodotto finale e quanto ha influito quella da voi scelta?

R.A: Come già detto, io amo il piacentino... il suo clima, la sua pace, le sue valli e la sua atmosfera indefinibile a parole semplici (bisognerebbe scivolare nella poesia). E' un film costruito intorno a un luogo dell'anima. La scelta degli ambienti giusti per un film è FONDAMENTALE. A mio parere bisognerebbe sempre pensare prima all'ambiente e poi a quello che ci accade dentro.

Foto di scena de NON NUOTATE IN QUEL FIUME

10. Nel cast artistico figura il tuo attore e socio Simone Chiesa nei panni di Papillon. Il suo personaggio, dato il nome, è un omaggio al protagonista di Schaffner? Quanto c'è di Chiesa nei tuoi film, si limita a fungere da attore o partecipa attivamente alla costruzione del film? Te lo chiedo perché in The Pyramid lo avevamo visto all'opera anche dietro alla macchina da presa, qua invece lo ritroviamo al montaggio.

R.A: Il nome "Papillon" è un omaggio a tre diverse cose:
1. Il film con Hoffman e McQueen (regia di Schaffner, ndr di Mancini);
2. Il ricordo di mio padre (il papillon che indossa Papillon era suo e lo indossò il giorno della sue nozze con mia mamma);
3. Il brano degli Editors.
In questo film di Chiesa c'è... un montaggio davvero valido e una performance attoriale davvero forte (contando che Simo non è un attore). Ho diviso la regia con lui sempre, da quando è nata la NOS Film (Dicembre 2008 Ndr.), ma da Catacomba in avanti credo che ognuno farà le proprie cose da solo.

11. Dalla lettura del cast artistico scorgo molti nomi per te nuovi, ma che hanno discreto curriculum nel settore dei corti. Penso a Ivan Brusa, a Roberta Nicosia, Stefano Galli, ci sono persino Leo Salemi, che annovera il film L'Albero delle Zoccole (1995), e Denis Frison e Roberto D'Antona (conosciutissimi, entrambi, nei fan movie dedicati a Dylan Dog). Un cast molto numeroso. Come hai scelto gli attori? La presenza di Frison e D'Antona, mi suona un po' da cammeo di gusto per gli amanti dei prodotti dell'underground... Ci vedo giusto o ci sono altri motivi?

R.A: Ho voluto unire sotto lo stesso tetto i miei amici-attori, agli amici-non attori, agli amici-registi. Non ho fatto provini, ho semplicemente chiamato tutte le persone a cui sono legato sia umanamente che artisticamente. Il duo Frison e D'Antona lo conosco prima come Denis e Roby che come "I DUE DYLAN DOG"...ovviamente, c'è anche un certo gusto da parte mia nell'unire tanti volti noti del cinema indie italiano. Poi ho l'onore di avere Pietro De Silva, uno che prima di lavorare con Roberto ALBANESI ha lavorato con Roberto BENIGNI ne La Vita è Bella (per citare un film a caso). In totale Non Nuotate in quel Fiume ha una quarantina di personaggi. Siamo una famigliona.


12. Puoi regalarci qualche aneddoto legato alla realizzazione del film?

R.A: Certo.Un giorno Stefano Galli ha dovuto indossare un pesante costume di scena; stavamo girando in pieno luglio e c'erano (non sto esagerando) 38 gradi. A un certo punto è stato colpito da allucinazioni e quasi sveniva.

13. Le musiche sono curate da Oscar Perticoni e da Alberto Masoni, che mi pare di vedere non avevano mai collaborato con voi. Perché hai deciso di cambiare compositore? Hai avuto un ruolo particolare nel far plasmare le musiche, cioè hai chiesto che i compositori si ispirassero a particolari temi o li hai lasciati liberi di interpretare il film? Come ti sei trovato rispetto alle precedenti esperienze?

R.A: Il compositore ufficiale del film è il Maestro Masoni (Perticoni ha realizzato dei brani aggiuntivi).Con lui sono alla terza collaborazione. Il nostro sodalizio è nato con WOOF! un mio mediometraggio di prossima uscita, poi ha proseguito con Catacomba e infine con questo. Sono un paio di anni che collaboriamo assieme e ora come ora non mi vedo a collaborare con nessun altro se non con Alberto. Per il film avevo previsto una colonna sonora retro wave. A Masoni inviai un tema molto synth 80's relizzato dal Maestro Perticoni (a cui, a sua volta, suggerii di ascoltare Alberto Camerini)... lui ci ha tirato fuori una cosa che... non so, mi commuovo solo a pensarci.

14. La fotografia da l'impressione di essere quella naturale. Avete applicato particolari filtri in post-produzione?

R.A: La fotografia è totalmente e assolutamente naturale.Non ho voluto nessuna luce extra diegetica , manco per errore. In post produzione il buon Chiesa aveva un dictat da parte mia: "VOGLIO UNA VIDEOCASSETTA".Mi ha dato una videocassetta.


15. Avete fatto ritocchi in computer grafica? Pensi che possa essere una soluzione per ovviare a carenze di budget oppure sei per lattice, frattaglie e make up di scena?

R.A: Sono per il buon vecchio artigianale lavoro dell'effettista di scena. I quattro piccoli insertini digitali (a opera del Grande Matteo Cassetta) li ho dovuti mettere perchè con 80 euro non potevamo costruire... non posso dire altro, se no vi sputtano il film.

Foto di scena da NON NUOTATE IN QUEL FIUME


16. Ancora una volta hai portato a termine un progetto dal budget praticamente pari a zero. Soffri un po' questa mancanza di budget o, tutto sommato, non ti limita più del dovuto anzi ti aiuta ad aguzzare l'intelletto?

R.A: Mancanza di soldi significa grande presenza di idee.Questo mi stimola moltissimo. Ovvio, tutti vorrebbero avere soldi e mezzi per realizzare la propria visione, ma visto che il sogno è una cosa mentre la realtà è un'altra, mi tengo i miei 80 euro di budget a film.


17. Quando giri usi rigidi storyboard o lasci molto all'illuminazione del momento? Quanto improvvisi e quanto programmi, quanto lasci margine ai tuoi collaboratori (anche in montaggio)? Lasci libertà agli attori?  

R.A: Non ho mai usato degli storyboard in vita mia. Scrivo e dirigo con la tecnica brevettata da me del "CAOS ORGANIZZATO". Parto dalla sceneggiatura e poi mi faccio trasportare dal momento, dal luogo e dall'attore. I miei attori sono liberi, do le indicazioni base e poi li lascio andare da soli... nel frattempo io faccio quello che voglio con la camera, molte volte senza avvisarli di quello che farò e che accadrà a loro. Tutti quelli che hanno lavorato con me non vedono l'ora di ritornare sui miei set, ciò significa che la mia tecnica ha qualcosa di valido... oppure che sono tutti pazzi (io compreso).


18. Dove si potrà vedere questo Non Nuotate in quel Fiume? Uscirà in qualche cinema, avete già preso accordi per l'uscita in dvd e pensi di esportarlo all'estero?

R.A: Partiremo con delle proiezioni ovunque vorranno ospitarci. Le date le annunceremo in divenire. Durante le proiezioni venderemo noi stessi i Dvd del film a prezzi a dir poco irrisori. Passeremo anche per i vari festival, italiani ed esteri (il film lo abbiamo sottotitolato). Infine, un giorno, lo gireremo a tutte le tv private che riusciremo a contattare e che vorranno metterlo in onda... mi è venuto questa fissa delle piccole tv e non me la leva nessuno. Un giorno arriverà su youtube. Insomma, non vogliamo parlare tanto di un film che poi si vedranno massimo 1000 persone.

19. Abbiamo accennato poco sopra al film di Mainetti, Lo Chiamavano Jeeg Robot, lo hai visto? Come ti è sembrato? Pensi possa dare avvio a un filone che possa esser decisivo per il grande salto anche di altri registi? Ci speri un pochino o restano sogni?

R.A: Di Mainetti vidi anni fa Basette (sono un megafan del duo Giallini-Mastandrea) e pensai subito "SE A QUESTO GLI DANNO I SOLDI GIUSTI CI SARA' DA DIVERTIRSI".Quei soldi glieli hanno dati e ora abbiamo un gran bel film per le mani. Per il futuro non so, sul cinema di genere italiano rimango sempre pessimista... mi piacerebbe solo che venisse fuori qualcosa che non fosse come sempre "DE ROMA".


20. Quanto il tuo lavoro ti aiuta per la realizzazione dei film?

R.A: Sono un ex filmaker/autore per Sky e Gazzetta dello sport... faccio volontariato in un'associazione di ragazzi disabili qui a Casalpusterlengo. Direi che la felicità dei miei ragazzi, soprattutto, faccia la differenza. Quando mi chiedono di vedere in super-anteprima Non Nuotate in quel Fiume mi dico: "Faccio il lavoro non retribuito più bello del Mondo".

21. Immancabile domanda relativa ai progetti per il futuro. So che sta per uscire un altro tuo prodotto. Hai già delle nuove sceneggiature da realizzare o pensi a un po' di pausa?

R.A: Sono della scuola di pensiero del "CHI SI FERMA E' PERDUTO". Finchè ho cartucce da sparare, io sparo. Nell'immediato promuoveremo il film, ma da qui a una settimana inizierò la sceneggiatura di "NON NUOTATE IN QUEL FIUME: ATTO SECONDO". Sei il primo a saperlo.


22. Un invito o un incoraggiamento per chi vuol lanciarsi nell'avventura della regia o della scrittura di copioni di cortometraggi. Cosa ti senti di dire?

R.A.: C'è poco da dire, la creatività è una cosa che o abbiamo o non abbiamo.Chi ce l'ha non potrà fare altro che tirarla fuori nella vita, prima o poi. Quindi se dovete esprimervi in qualche modo... ESPRIMETEVI. Se non raccontassi le mie storie credo che morirei. E morirei atrocemente, affogando in un fiume di rimpianti... un fiume in cui NON AVREI DOVUTO NUOTARE.


Un saluto all'amico Roberto Albanesi augurandogli, se possibile, una fortuna superiore a quella riscontrata dai suoi precedenti lavori e ricordate: "IN QUEL FIUME STA ACCADENDO QUALCOSA DI STRANO... IN QUEL FIUME STA ACCADENDO QUALCOSA DI MISTERIOSO...PREPARATEVI ALLA PEGGIORE NUOTATA DELLA VOSTRA VITA!"

Il Trailer: https://www.youtube.com/watch?v=2A5xwfgiaqI 

Roberto Albanesi in compagnia dell'amico
ANDREA PINKETTS, noto giallista italiano
nonché componente dello staff di MISTERO
di ITALIA 1.