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giovedì 27 maggio 2021

Recensione Narrativa: IL CATTIVO PERDE SEMPRE DUE VOLTE di Dick Francis.



Autore: Dick Francis.
Titolo originale: Twice Shy.
Anno: 1981.
Genere: Crime story.
Editore: Mondadori, 1983.
Collana: Il Giallo Mondadori.
Pagine: 168.
Prezzo: fuori mercato.

Commento Matteo Mancini.

L'AUTORE

Sono oggi ben felice di presentare, sia da appassionato lettore che da cultore delle corse di cavalli in ostacoli, il mio primo romanzo letto della sterminata produzione del gallese Dick Francis, romanziere nato nel 1920 e deceduto novant'anni dopo alle Cayman. Si parla di una produzione formata da quarantaquattro romanzi gialli, quattro dei quali scritti a quattro mani col più giovane dei figli Felix Francis poi prosecutore nello sviluppo di soggetti rimasti inediti, un'antologia di tredici racconti, una biografia (del più importante fantino d'Inghilterra Lester Piggott: A Jockeyì's Life, 1986) e un'autobiografia da cui tutto ha avuto inizio. Il protagonista di questa avventura è un personaggio eclettico, assai insolito nell'ambito della letteratura e soprattutto dell'ippica.

Ufficiale della Royal Air Force durante la seconda mondiale, dove si è contraddistinto quale abile pilota degli Spitfire, i caccia dell'esercito inglese, Dick Francis ha legato il suo nome al mondo dell'ippica a cui è stato iniziato dal padre proprietario di una scuderia. Cavaliere amatoriale prima e poi fantino professionista nelle corse in ostacoli, ha preso parte a 2305 corse, riportando 345 vittorie e 285 piazzamenti, interrompendo bruscamente la carriera, a trentasette anni, a causa dei postumi dovuti a una caduta. Uomo colto, intelligente e abile, al punto da essere fantino di fiducia e istruttore di equitazione niente meno che della Regina Elisabetta, Dick Francis ha saputo ritagliarsi una carriera addirittura più florida rispetto a quella che sembrava esser stata scritta per lui dal destino. Una sorta di ristoro per una delusione che lo aveva reso noto a livello mondiale, al punto da aver tenuto a battesimo un nuovo modo di dire. Celebre infatti era stata, e lo è tuttora, la sua partecipazione al Grand National di Aintree del 1956, la prova più importante del panorama mondiale dedicato al mondo dell'ostacolismo (si ricorda anche il celebre film National Velvet interpretato da Elizabeth Taylor, produzione cinematografica americana in cui si immaginava la vittoria di una ragazza nella celebre corsa, evento verificatosi solo ottanta anni dopo, nel 2021, con Rachael Blackmore), quando, in sella a un portacolori della Regina d'Inghilterra, aveva dovuto dire addio al successo, a vittoria conseguita, per un assurdo abbaglio del cavallo che, ingannato da un'ombra e ormai prossimo al palo, aveva saltato un ostacolo immaginario franando a terra. L'evento fu talmente memorabile da essere ancora ricordato in sede di presentazione della prova, al punto che in Inghilterra si continua a dire l'espressione “Do a Devon Loch”, dal nome del cavallo, per indicare un fallimento patito nell'attimo in cui tutti pensavano di esser sulla soglia del trionfo.

Ritiratosi dall'agonismo, in modo alquanto inatteso e con ancora l'amaro in bocca per il sogno sfumato, complice il successo dell'autobiografia The Sport of Queens (1957), Dick Francis si vide recapitare un'offerta dal Sunday Express di Londra col compito di curare la sezione di giornale dedicata alle corse di cavalli, in Inghilterra assai più popolari che in Italia. Penna sopraffina e grande cultore e conoscitore del mondo equestre, Dick Francis fece del giornalismo il proprio mestiere dal 1957 al 1973, affinando la tecnica di scrittura e soprattutto trovando gli stimoli giusti per avviare, a quarant'anni suonati, una carriera, quella del romanziere di gialli, che lo avrebbe reso una popolarità tradotta in tredici lingue ed esaltata da una serie di riconoscimenti internazionali.

Le opere di Francis sono tutte, più o meno, dei gialli legati al mondo delle corse dei cavalli, versante galoppo e ostacoli, dove non di rado vengono fatti cenni a cavalli veramente esistiti, allevamenti di classe, aste dove poter acquistare puledri, scommesse, piste d'elezione in cui vanno in scena i maggiori gran premi inglesi e internazionali. Una vasta produzione, che rende l'autore l'alfiere di un mondo oggi un po' in disarmo (da noi in Italia), fin da subito accolta con favore dalla critica locale ed estera e di rilievo piuttosto costante nonostante la protrazione per cinquant'anni di carriera. Efficace e senza fronzoli autoriali, Francis ha saputo confermarsi con una media superiore a un libro all'anno dal 1962 al 2000, prima di proseguire supportato dal figlio, laureato in fisica e abile tiratore di fucile già suo collaboratore a inizio carriera, al punto da farne un egregio erede letterario (dalla morte del padre, Felix Francis pubblicherà regolarmente un romanzo all'anno, dando l'idea di sviluppare soggetti lasciati dal padre). Il valore dell'opera, avviata dal romanzo Dead Cert (1962), tramutato in film nel 1974 (distribuito in Italia col titolo Il Fantino deve Morire), in cui si parla di una corsa in ostacoli truccata, è testimoniata dai numerosi premi ricevuti. Francis vanta tre Edgar Award, con successo ottenuto per la prima volta nel 1968 - col settimo romanzo (Forfeit) alla quarta nomination al premio – seguito dai successi del 1979 (Whip Hand, distribuito in Italia col titolo Criniere al Vento, secondo romanzo della serie Sid Halley) e del 1995 (Come to Grief, distribuito in Italia col titolo Purosangue, terzo della serie Sid Halley), oltre un Gold Dagger (vinto sempre con Whip Hand) e due importanti premi alla carriera: il Carter Diamon Dagger (nel 1989, succedendo a P.D. James e John Le Carrè) e il Premio Agatha (nel 2001). Apprezzatissimo anche all'estero, in posti assai lontani dall'Inghilterra. In Giappone è stato lodato al punto da vantare tre Japan Adventure Fiction Association Prize, centrati nel 1984 (Proof), 1995 (Come to Grief) e 2006 (Under Orders) secondo al solo Stephen Hunter (premiato quattro volte), con un numero di riconoscimenti superiori a quelli ottenuti da mostri sacri del mainstream quali Wilbur Smith, Clive Cussler, Dean Koontz, Richard McCammon e Jeffrey Deaver. Il nome di Dick Francis, già negli anni settanta, era una celebrità persino nell'Europa dell'est del blocco comunista, al punto che in Unione Sovietica nel 1977 è stato realizzato un film (intitolato Favorit) costruito sul suo primo romanzo e diretto da un regista moldavo, seguito dieci anni dopo da una produzione cecoslovacca. Abbastanza famosa anche la serie televisiva inglese di sei puntate, intitolata Racing Game, girata e andata in onda (anche in Italia) tra il 1979 e il 1980 e incentrata sulle vicende dell'ex fantino Sid Halley tramutatosi in detective dilettante. Come se non bastasse, i critici Richard Shepard e Nick Rennison, hanno inserito il romanzo di esordio di Francis (Dead Cert) nei 100 romanzi gialli da leggere.

L'atteggiamento dell'editoria italiana è stato fin da subito aperto a Dick Francis, a cui si sono interessate importanti case editrici quali Baldini & Castoldi, Mondadori, Longanesi, Rizzoli e soprattutto la Sperling & Kupfer (casa editrice, tra gli altri, di Stephen King). Lo sdoganamento nella nostra penisola è stato pressoché immediato. Nel 1965, per la Rizzoli, si è visto uscire il primo romanzo in italiano firmato Dick Francis: Fuoco sul Fantino, traduzione del secondo romanzo pubblicato dall'autore e uscito l'anno prima in Inghilterra col titolo Nerve, seguito nel 1967 da Di Stretta Misura (Odds Against, quarto romanzo datato 1965, famoso per essere il primo della serie Sid Halley) edito dalla Mondadori. Forte tuttavia è stato il legame con la Sperling & Kupfer che tra gli anni ottanta e i primi anni novanta ha pubblicato circa una decina di romanzi dello scrittore gallese, ovvero quasi l'intera produzione anni ottanta dell'autore. Da segnalare, tra il 1978 e il 1983, anche tre uscite, relative a romanzi minori, nella collana da edicole Giallo Mondadori: Una Tela Rosso Fuoco il 22 ottobre del 1978 (In the Frame, 1976) Reflex il 25 aprile del 1982 (uscito col medesimo titolo in Inghilterra nel 1980) e Il Cattivo Perde sempre Due Volte il 9 gennaio 1983 (Twice Shy, 1981).

Una prolificità ben sintetizzata dal necrologio pubblicato su Telegraph in cui Dick Francis, senza bookmakers che tengano, è stato definito: “The peoples favourite”.

La copertina dell'autobiografia, inedita in italiano,
di DICK FRANCIS.

LA RECENSIONE

Twice Shy è il ventesimo romanzo di Dick Francis, scritto con la collaborazione della moglie (Mary Francis) e pubblicato nel 1981 dopo aver fatto una serie di ricerche sul funzionamento dei linguaggi informatici. È la terza e ultima proposta dell'autore nella celebre collana “Il Giallo Mondadori” che lo presenta nel 1983 col titolo Il Cattivo Perde sempre due Volte.

Francis, come suo solito, si concentra nell'intessere un giallo (forse sarebbe più corretto definirlo una crime story) legato al mondo dell'ippica, anche se questa entra in campo nella seconda parte del testo. L'argomento che tiene banco sono i sistemi e programmi informatici funzionali a individuare il cavallo vincente di tutta una serie di corse in programma nei principali ippodromi inglesi. Sono dunque le scommesse a fungere da motivo di interesse, il mondo degli allibratori, la necessità di aggirare il calo delle quote ricorrendo a offerte piazzate in giro per l'Inghilterra in contemporanea per non subire il volume di gioco. Francis delinea tutto questo per risolvere (positivamente) l'annoso dubbio relativo alla possibilità di vivere o meno dei proventi delle scommesse. Il gallese fa comprendere che, oltre alla fortuna, occorre studio (su giornali specializzati e narrativa ippica), analisi e anche un giudizio matematico e periziato legato ai dati oggettivi (le prestazioni agonistiche) piuttosto che alle soffiate e alle impressioni percettive. Un'impostazione poco romantica e non sempre veritiera, ma valida a rendere evanescente il confine tra rovina e fortuna. “Nel mestiere degli scommettitori sopravvivevano i bravi ragionieri, non i giocatori.”

Il romanzo è strutturato in due parti, la seconda delle quali ambientata quattordici anni dopo la prima. In comune resta l'antagonista (un prepotente idiota assetato di denaro, che fa della violenza la sua unica forma di relazione), uscito di carcere dopo i misfatti della prima parte, e due fratelli che si scambiano il ruolo di protagonista, alternandosi nel prendersi beffe del cattivo di turno (costantemente giocato, anche se non sempre in modo voluto). Francis caratterizza i due personaggi guardando ai suoi due figli. Jonathan Derry, l'insegnante di fisica che tiene banco nella prima parte, è costruito sulle caratteristiche di Felix Francis, il figlio più piccolo dell'autore. Quest'ultimo, non a caso, era insegnante di fisica e, come il personaggio del romanzo, era un tiratore scelto di carabina, ma non troppo esperto di corse di cavalli. Il secondo personaggio invece, William Derry, è modellato su Merrick Francis, il primogenito dello scrittore. Come quest'ultimo il ragazzo non vuol studiare, pensa sempre ai cavalli e vorrebbe darsi alla carriera di fantino professionista. L'eccessiva altezza e il peso gli impediranno di esaudire il suo sogno, così da farlo dirottare verso altre figure professionali legate al mondo dei cavalli. Se Merrick Francis era un allenatore di cavalli da corsa, William Derry è un manager che compra e vende puledri per conto di un magnate titolare di una grossa scuderia, supervisionando il lavoro dei tre allenatori a cui vengono destinati i cavalli. Bello vedere riportati in un romanzo de “il giallo mondadori” i nomi di veri stalloni capo razza dell'ippica degli anni ottanta, quali Sir Ivor, Nijinsky e Northern Dancer, con Francis che delinea alla perfezione un mondo corrispondente alla realtà (si vedano gli allenatori che premono per avere un dato cavallo in allenamento). Oltre alle scommesse infatti c'è anche uno schizzo relativo alla febbre che si scatena durante le aste dei puledri (Francis dice giustamente che i veri affari si fanno a fine asta), con tutti i facoltosi proprietari che intendono accaparrarsi il cavallo col miglior pedigree a colpi di esose offerte (oggi milionarie) e poi, come spesso succede, il vero campione viene pescato tra i soggetti anonimi presi per poche sterline. “Avevo speso quasi due milioni delle sue sterline... poi senza quasi pensarci acquistai a vil prezzo un misero puledro castano dalle zampe sottili. Chi avrebbe potuto prevedere che quello era il principe che sarebbe stato capostipide di una grande dinastia?”

La prima parte del testo è piuttosto classica e verte su una serie di delitti (tra cui un omicidio) che funestano la provincia inglese, tra Norwich e Newmarket. Jonathan Derry si trova coinvolto nella vicenda suo malgrado, chiamato a prestare soccorso a un'amica della moglie che si è macchiata di un curioso reato: si è impossessata di un neonato per esaudire il desiderio (impossibile) di essere madre. L'evento però è meramente incidentale, perché il romanzo si svilupperà a seguito della morte del marito della donna, un programmatore che ha inserito in un programma informatico, elaborato da uno storico scommettitore irlandese, un sistema per vincere alle corse dei cavalli. Registrato su tre mangianastri (come si faceva negli anni ottanta), il programma finisce nelle mani del professore il quale, dopo la morte dell'amico, non sa cosa farne. Francis parla in modo dettagliato delle modalità attraverso le quali registrare programmi, così come dei computer necessari per leggerli e delle caratteristiche tecniche degli stessi. La cosa è alquanto curiosa, a quarant'anni di distanza, e rende archeologica e vetusta l'operazione (informatica).

La componente crime viene garantita dall'irruzione di due loschi individui, armati di pistola dotata di silenziatore, che irrompono nella abitazione di Derry e chiedono la consegna dei programmi. Ha inizio così una lunga trattativa orchestrata da una banda di manigoldi, facenti capo a un titolare di una sala bingo, che troveranno sulla loro strada un professore decisamente coraggioso che farà quasi tutto per conto proprio avendo non pochi problemi per comunicare con la polizia (l'epoca dei cellulari era ancora lontana!?). Sarà questo detective improvvisato a condurre le indagini e a risolvere il mistero dei nastri. Minacce, omicidi, sequestri di persone, estorsioni, ribaltamenti di situazione e giochi d'astuzia cadenzeranno la narrazione fino all'arresto dei malavitosi. Qui finisce la prima parte, una crime story piuttosto che un intrigo giallo. Quattordici anni dopo, ovvero il tempo necessario per l'uscita dal carcere dell'antagonista, riprende la storia. Lo scarcerato è inviperito, disposto a tutto pur di vendicarsi e mettere le mani su quei programmi che avrebbero dovuto garantirgli la ricchezza. Non trovando però l'uomo che lo ha fatto arrestare, il bandito se la prende col fratello, che poco sa della vicenda. Aggredito a colpi di mazza, William Derry riesce a sequestrare il bandito, ribaltando la situazione che si era registrata nella prima parte di storia. Il centro della narrazione si sposta dalle scuole di fisica e dalla provincia inglese al mondo dell'ippica vero e proprio, tra scuderie, ippodromi e aste. Francis riduce al minimo la componente gialla, si limita alla necessità di comprendere perché il sistema, che ha arricchito un amico del fratello, non funzioni una volta consegnato nelle mani del bandito, così ristorato con l'impegno di non creare più problemi. Il giovane cerca in tal modo di ammansire il manigoldo ma questo, smargiasso e prepotente, dopo le iniziali vincite finirà per perdere in modo costante, anche perché il programma è stato infettato da qualcuno un po' troppo avido per condividere la fortuna. Ecco allora che dalla crime story si passa a una panoramica sul mondo dell'ìppica. Si tratta di una parte che, in tutta probabilità, un purista del giallo potrebbe trovare un po' fiacca, preferendogli la prima. Da appassionato di cavalli e di ippica, vi dico però che il mondo equino è ben caratterizzato e la sua resa risulta molto divertente. Francis delinea il mondo dei picchetti, l'atteggiamento degli allibratori di modulare le quote in funzione di chi sia a effettuare le puntate e il loro repentino abbassare il valore del cavallo in funzione delle somme ricevute. La febbre del gioco è palpabile e l'ira per i soldi persi evidente, tra risse e inconcepibili richieste di restituzione di quanto versato (cose che in quegli anni succedevano davvero). Alla fine, pur se abbondantemente sufficiente, resta un romanzo secondario di Francis. sebbene sia stato oggetto di un Tv-Movie (non giunto in Italia), coprodotto da società irlandesi e canadesi, diretto nel 1989 da Deirdre Friel e intitolato Dick Francis: Twice Shy. Diverso dai tradizionali "Gialli Mondadori".

 
Lo scrittore e fantino in ostacoli
DICK FRANCIS

L'occhio che fa pescare il campione nel mucchio di quelli di seconda scelta, tra gli sconosciuti, il giudizio, sono queste le cose che contano.”

domenica 23 maggio 2021

Recensione Narrativa: LA GIOVANE VAMPIRA e Altri Misteri di J. H. Rosny


Autore: J. H. Rosny ainé.
Anno: 1895-1923.
Genere: Horror/Fantastico.
Editore: Edizioni Hypnos, 2020.
Collana: Impronte.
Pagine: 230.
Prezzo: 15,90 euro.

Commento Matteo Mancini.

Uscito nell'ottobre del 2020, La Giovane Vampira e altri Misteri costituisce il giusto tributo a un autore clamorosamente ignorato da molti saggisti italiani. J. H. Rosny ainé, pseudonimo del belga naturalizzato francese Joseph-Henri Boex, trova la sua giusta dimensione grazie alla Hypnos Edizioni e al lavoro della curatrice e traduttrice candidata al Premio Italia 2021 Elena Furlan.

L'AUTORE

Scrittore in auge sul finire dell'ottocento e in opera fino agli anni quaranta, con oltre cinquanta pubblicazioni all'attivo, Rosny ainé, ovvero “il vecchio” per differenziarsi dal fratello che si firmava J.H Rosny con l'aggettivo jeune (“il giovane”), è stato definito in Francia “il fondatore della fantascienza moderna” e valutato, da alcuni, superiore persino a Jules Verne1. Cresciuto sotto gli insegnamenti di Emile Zola e della corrente del naturalismo, modificò a poco a poco la propria impostazione in vista di un fantastico, anticipatore di quel weird che avrebbe poi preso campo negli Stati Uniti, che prese il nome di merveilleux scientifique. Rosny ricorre alla scienza per cercare di sciogliere gli enigmi di un soprannaturale accettato e studiato dai suoi personaggi, compresi medici e scienziati, perché in esso si celano possibilità di progresso. "Ci furono uomini e donne che seppero guarire non con l'aiuto di formule e semplici, ma per non so quale divinazione sottile e quale uso geniale delle forze minuscole che i nostri fisiologi cominciano appena a sospettare." Autore molto pragmatico e, al contempo, di mentalità aperta, capace di immedesimarsi nel diverso fino a calarsi nei panni del mostro che diviene da nemico da combattere a vittima da comprendere e metabolizzare in vista di un'accettazione che non ammette confini. Rosny ha una visione dell'uomo quale essere arrogante che pretende di avere tutto sotto controllo, quando invece è una mera pedina di un "gioco" molto più grande di lui. I sensi umani sono limitati, ciò che si vede non è l'effettiva integralità di quanto davvero ci circonda, ma solo una risultanza parziale. Rosny intuisce l'esistenza di più piani di realtà, popolati da esseri che talvolta riescono a entrare in relazione con l'uomo (si veda La Jeune Vampire) e talaltra non sono compatibili a esso (risultando invisibili) pur coesistendo su un medesimo piano esistenziale (così in Un Autre Monde). L'autore sembra tuttavia essere interessato alla compenetrazione tra l'uomo e gli esseri dell'altrove, un'impostazione che sembra derivare da Arthur Machen (si veda The Great God Pan, 1895, o The Green Round, 1933) volgendo però il tutto dal pessimismo all'ottimismo. Le relazioni interrazziali del francese generano "mostri buoni", che cercano di accettare sé stessi, conquistare l'amore dell'uomo e, al tempo stesso, farsi comprendere dalla scienza. Così avviene ne La Jeune Vampire (1911), ma anche in Un Autre Monde (1898) o ne L'Enfant de la Naiade (1904). Le creature dell'altrove non sono malefiche, sono semplicementi altri esseri. Non sempre Rosny è chiaro nel portarle in scena. Spesso l'interferenza avviene senza che sia presentata solida giustificazione, aspetto che pare essere un limite di gestione dell'autore. Ne La Jeune Vampire si assiste a una sorta di possessione spirituale per mano di un essere, proveniente da un mondo di dolore, che si ritrova nel corpo della protagonista dopo che questa era stata dichiarata morta, riportando così in vita il corpo con il nuovo vezzo di suggere sangue alla maniera di una sanguisuga e un pallido colorito sul volto. "Non sono cattiva, sono disgraziata" rivela la vampiressa, costretta a nutrirsi col sangue umano per non morire. Così come lo spirito è penetrato all'interno del corpo, però, alla stessa maniera ritorna nella sua dimensione, gettando nella confusione la giovane donna, di nuova tornata all'interno del proprio corpo, e lasciando il tutto in sospeso tra paranormale e delirio psichico. Interessante anche l'atteggiamento di coloro che si trovano alle prese con la vampiressa. Questi, infatti, non cercano di uccidere l'essere o di liberare il corpo, non giudicano la vampiressa e non cadono vittima delle superstizioni, anzi accettano l'evento come dato di fatto e cercano di prestare soccorso e studiare il fenomeno per comprendere i misteri.

In Un Autre Monde l'insorgere del paranormale resta misterioso anche per il protagonista, che nasce diverso rispetto a tutti gli uomini, con la sua pelle violetta e gli occhi così neri da offrire agli interlocutori la sensazione di essere alle prese con un cieco. Più veloce nel pensare e nel muoversi, eppure impacciato e indaffarato nel parlare e nello scrivere, l'essere si ritrova capace di vedere in modo diverso al punto da intravedere un mondo altro popolato da strane creature immateriali e dominato da colori inimmaginabili all'uomo. Diventerà oggetto di studio. Ne L'Enfant de la Naiade l'ibrido deriva dall'unione tra un uomo e una ninfa che, ogni sera, esce dalle spume di un lago per abbracciare il suo amore umano. Rosny è tutt'altro che bacchettone. Il prodotto dell'interazione con gli esseri dell'altrove non conduce alla perdizione o al vizio, né vi è traccia di peccato o ammonimento. Ciò che spicca è il forte desiderio di integrazione, la volontà di fuggire dalla solitudine e farsi accettare. La diversità diviene un qualcosa che punta a trasformarsi in valore aggiunto e non in un orrore da esorcizzare. "Che me ne facevo del mistero dei viventi, e persino della dualità di due sistemi vitali che si attraversavano a vicenda senza conoscersi? Quelle cose avrebbero potuto inebriarmi, riempirmi di entusiasmo e di ardore, se avessi potuto comunicarle o condividerle in qualche modo" sostiene il protagonista de Un Autre Monde. Rosny è ottimista, vede nella scienza e negli scienziati degli amici del diverso, individui pronti al soccorso e alla comprensione in vista di un progresso che possa apprendere dal soprannaturale senza preconcetti e posizioni cristallizate dall'incontestata fede nel dato empirico.

Massimo Del Pizzo, grande studioso di Rosny, parla dell'autore quale “il più visionario dei naturalisti e il più naturalista dei visionari.2

Eppure in Italia il nome Rosny è stato del tutto ignorato dagli studiosi. Allo stesso modo del Dizionario dell'Orrore di Gianni Pilo, le guide Odoya ignorano del tutto lo scrittore, ivi comprese quella della Letteratura dell'Orrore (2014) e quella della Letteratura di Fantascienza (2013), così come lo aveva ignorato la Guida della Longanesi degli anni settanta. Per trovare dei cenni all'autore si deve ricorrere al volume di derivazione francese Les Maitres de l'Étrange (1981), tradotto in Italia nel 1983 dall'Edipem, e a un articolo panoramico sulla narrativa fantastica francese firmato da Cesare Buttaboni3 che individua Rosny quale precursore lovecraftiano.

La ragione del disinteresse è alquanto oscura e incomprensibile, dal momento che la prima traduzione italiana dell'autore risale al lontano 1905, quando la Sonzogno dette alle stampe Il Milionario. Proprio la casa editrice milanese, insieme alla Delta (Il Testamento Rubato) e alla Bietti (La Cortigiana Appassionata), nei primi anni del novecento, ha proposto numerose opere di Rosny ainé, tra cui L'Eredità, Il Vello d'Oro, L'Altra Donna, Amore Etrusco, Vamireh, La Donna Scomparsa e soprattutto La Guerre du Feu (1909), romanzo d'avventura tra i più famosi dell'autore grazie anche alla trasposizione cinematografica del 1981 di Jean-Jacques Annaud, poi ristampato nel corso degli anni, sempre da Sonzogno, nel 1932 e nel 1959, oltre che da Bompiani (1982) ed Editrice Nord (2000). Anche L'Etonnant Voyage de Hareton Ironcastle è stato pubblicato, sotto il titolo Terra Inesplorata, da Sonzogno nel 1937 e nel 1960. Interessante poi l'antologia Altri Mondi curata dall'Editrice Nord che, nel 1988, ha pubblicato quattro racconti lunghi, tra cui il celebre Les Hipehuz, indicato quale la prima opera fantascientifica in cui sono concepite intelligenze estranee all'umanità che pensano in modo non umano, e La Mort de la Terre, dove si narra l'avventura dell'ultimo uomo sulla terra.

L'interesse verso l'autore belga è di nuovo esploso negli ultimi dodici mesi. La Palindromo, casa editrice di Palermo, nel marzo del 2020 ha pubblicato, corredando il tutto con valido apparato saggistico, Les Navigateurs de l'Infini (I Navigatori dell'Infinito) e Les Astronauts (Gli Astronauti), due racconti lunghi al centro della produzione fantascientifica dell'autore. Sette mesi dopo, la Hypnos, tramite Elena Furlan, ha cercato di completare il campo offrendo uno sguardo sulla narrativa del terrore o comunque macabra dell'autore, proponendo per la prima volta in italiano il classico La Jeune Vampire, rivisitazione in chiave originale del vampirismo, seguito da altri quattordici racconti sospesi tra fantastico e realismo macabro con punte grandguignolesche. A undici mesi dalla pubblicazione della Palindromo, le Edizioni Profondo Rosso hanno completato l'offerta proponendo Gli Orrori dell'Inferno Verde, a corredo di una trilogia che comprende anche I Navigatori dell'Infinito e La Forza Invisibile.

È pertanto non del tutto corretto sostenere, come fatto da Ivo Torello nella dotta analisi pubblicata al termine del volume Hypnos, che solo recentemente, grazie alla Palindromo, i lettori nostrani hanno potuto avvicinarsi alla produzione di questo autore. I romanzi editi dalla Sonzogno nel primo ventennio del novecento, infatti, sono facilmente acquistabili sul mercato dell'usato, ma nonostante ciò i saggisti italiani sembrano essersi dimenticati dell'autore che, riproposto di recente sul versante fantascientifico e fantastico, resta in Italia non ancora adeguatamente approfondito per quanto concerne la produzione avventurosa. Rosny è infatti famoso oltralpe per i “romanzi preistorici”, tra cui Le Felin Geant (1918) e Helgvor du Fleuve (1930), opere da cui emerge una visione della creazione non antropocentrica, essendo l'uomo una mera creatura, emersa dal grande magma dell'universo, destinato a regnare nell'immensità della creazione per una breve e risibile parentesi. Un'impostazione, questa, in anticipo sulla cosmogonia di Lovecraft ma, a differenza del solitario di Providence, caratterizzata da uno spiccato romanticismo non minato dal pessimismo e dall'ineluttabilità della condizione umana. Rosny è pertanto uno scrittore particolarmente moderno rispetto agli anni che lo vedevano in opera, allineato su valori che fanno dell'integrazione e del rispetto della natura i capisaldi di un artista che riconduce l'uomo nella dimensione di semplice componente di una realtà assai più vasta, un universo su cui non può certo ergersi a dominatore incontrastato.

 
Il dittico proposto dalle Edizioni Palindromo.
 

La recensione dell'antologia

La Giovane Vampira e Altri Misteri propone quindici racconti, scelti da Elena Furlan, scritti tra il 1885 e il 1923, così da allestire un campionario variegato utile a rappresentare in modo onnicomprensivo l'anima nera di Rosny ainé. Troviamo, in prevalenza, racconti brevissimi, in aggiunta a tre novelle di lunghezza compresa tra le cinquanta e le trenta pagine circa, che spaziano da un fantastico che guarda a un soprannaturale su cui la scienza cerca di comprenderne gli enigmi a una tipologia di racconto nero di impronta realistica vicino a quel naturalismo che rientra nel solco tracciato da Emilé Zola. Inutile sottolineare la maggiore qualità della prima tipologia di racconti. Rosny ha il merito di cercare di liberarsi dalle maglie del gotico ottocentesco. I suoi racconti fantastici tentano di riscrivere il genere metabolizzando figure archetipiche quale il mostro, il vampiro o il doppelganger, per riproporle sotto una diversa luce. Interessante, per l'apporto apparentemente innovativo, è Un Autre Monde (1898), in cui Rosny immagina l'esistenza di una serie di creature invisibili agli occhi umani, ma non a quelli del protagonista, che convivono senza saperlo al mondo in cui noi stessi viviamo. Si tratta di un'idea che, nel periodo, era stata accennata da Arthur Machen, autore gallese che qualche anno dopo espliciterà il concetto in modo poi non troppo dissimile da Rosny. Se però Machen intravede una possibilità, seppur remota, di interrelazione (nefasta) tra i due mondi coesistenti, Rosny tende a escluderla. Inoltre il mondo occulto del francese è estremamente originale, estraneo al folklore e persino incomprensibile alle limitate conoscenze umane. Un aspetto che viene ripreso anche da quello che è il vero e proprio capolavoro dell'antologia: La Jeune Vampire (1911), un racconto molto allusivo, che lascia tanto all'immaginazione del lettore.. Qui Rosny parte dalla tradizione vampiresca portata al successo definitivo da Bram Stoker, ma già in auge in Inghilterra e Francia, per riscriverla in un'ottica del tutto nuova. Il vampiro, o meglio la vampiressa, viene liberato da ogni carica di corruzione sessuale e da ogni caratterizzazione negativa, prendendo la veste del diverso da aiutare e comprendere. La vampiressa è una disgraziata, un essere costretto a cibarsi di sangue per sopravvivere, che brama l'amore puro e casto. Se Van Helsing e i suoi collaboratori praticavano iniezioni di sangue, qua il dottore protagonista porta cavie umane che si prestano a farsi succhiare la linfa vitale guidati da una solidarietà che ha del commovente. I morsi del vampiro infatti non condannano alla dannazione, rispondendo più a un desiderio animale che satanico. Pur se cadaverica nel colorito, la vampiressa non sfodera i tradizionali canini ma tende a suggere il sangue alla maniera di una sanguisuga, aspirandolo senza infliggere ferite lacero contuse. Ogni riferimento religioso viene cancellato, resta soltanto il riferimento a un mondo altrove, un'esistenza sfuggevole agli umani, incomprensibile, dove la sofferenza è di casa e da cui le anime possono fuggire (non si spiega né come né perché) per prendere possesso di corpi liberati dalle anime trapassate. Rosny introduce una sua riflessione sull'amore, tendendo a riconoscerlo nella passione e nell'attrazione della carne piuttosto che nel cosiddetto coinvolgimento cerebrale. Il protagonista si innamora del corpo della donna, al punto da seguirla anche nell'eventuale dannazione, poco importando chi sia l'essere interiore che guida la stessa. In questo ricorda molto il protagonista di Lady of the Shroud (La Dama del Sudario, 1909) di Bram Stoker. Quando il corpo subisce il cambiamento dell'anima, dovuto dal passaggio dello spirito del vampiro e poi al ritorno dell'originale anima che guidava la macchina umana, il protagonista persiste nel nutrire i medesimi sentimenti, non gli importa chi sia realmente la persona che ha davanti. Ciò che conta è il corpo. Valore aggiunto al testo è l'unione carnale tra l'uomo e l'essere mostro, una trovata che, partendo da The Great God Pan (1895) di Machen, anticipa di anni il capolavoro Rosemary's Baby (1967) di Ira Levin, proponendo l'amore incondizionato dei genitori verso il figlio “mostro”. Machen tuttavia ammiccava al peccato, alla trasgressione e alla liberazione degli impulsi animali. Rosny no, il francese è un poeta guidato dall'ottimismo e dalla fiducia sia nel diverso che nello sconosciuto, un artista che suggerisce la fusione tra creature diverse in vista del progresso (approccio assai diverso da Lovecraft). Temi già presenti in Un Autre Monde, ma qua resi in modo più manifesto. Segue la medesima via, pur se più convenzionale e allineata alla produzione di Algernon Blackwood, L'Enfant de la Naiade (1904). Rosny ipotizza l'esistenza, in tempi remoti, di creature quali satiri, oreadi e naiadi. “Mi domando se questa terra che abitiamo non sia stranamente cambiata negli ultimi tre o quattromila anni... Se per esempio non siano realmente esistite oreadi, satiri e naiade.” Il racconto, ovviamente, suggerisce una risposta positiva. Il protagonista narra una serie di incontri amorosi intrattenuti con una ninfa, “vestita solamente del suo manto di capelli bluastri”, emersa per un'intera estate dalla spuma delle acque di un lago. Come ne La Giovane Vampira dall'unione con la creatura fantastica nasce una figlia che, ovviamente, incarna caratteristiche sovrumane. Ancora una volta però non vi è traccia di condanna sessuale o di perversioni da cui è bene tenersi lontani.

Un quarto racconto che prende le mosse dalla tradizione fantastica, questa volta legata a E.T.A. Hoffmann e ad E.A. Poe, è L'Assassin Surnaturel (1923), dove la tematica dei delitti delle camere chiuse si incontra con quella del doppelganger. Rosny, più abile che altrove nel creare un'atmosfera opprimente, intesse un intreccio giallo che tiene in costante tensione il lettore (aspetto non presente negli altri testi). Da questo punto di vista è di gran lunga l'elaborato migliore dell'antologia, grazie a una trama gialla che, a poco a poco, scivola in un fantastico che ammoderna i più tradizionali cliché utilizzati. Il doppelganger diviene effettivo e caratterizzato da una sua autonomia rispetto alla fonte originaria. La morte del doppio, per intenderci, non porta alla morte dell'altro, come ne Il Ritratto di Dorian Gray o in William Wilson. Esso infatti è una concreta emanazione dell'uomo, un qualcosa che acquisisce indipendenza (si veda certa narrativa di Stephen King) e costituisce la materializzazione della lotta che un animo inquieto fa con sé stesso. Interessante la caratterizzazione fisica, senza peso specifico, che il doppio ha, tradendo una natura che di umano ha il solo involucro esterno. Una particolarità che getta nello sconforto i poliziotti chiamati a indagare sul caso e il tradizionale scienziato rosnyano subito pronto ad accettare il sovrannaturale per permettere alla scienza di compiere progressi. Un bel racconto, poco da dire.

Un quinto racconto degno di nota è La Plus Belle Mort (1912), breve testo in cui Rosny riprende le tematiche care ad Ambrose Bierce trasformando però ancora una volta in una prospettiva positiva l'evento tragico con cui chiude il narrato. Ambientato sul teatro di scontro della guerra di secessione, la storia propone l'amore tra due giovani innamorati che, durante un pausa tra una battaglia e l'altra, si concedono il loro primo bacio, venendo nell'esatto istante della congiunzione delle labbra decapitati da una cannonata. “Non restarono che due corpi allacciati, due corpi decapitati da cui il sangue sgorgava a fiotti.” Rosny parla del momento quale apice massimo nella vita di un uomo, in una prospettiva che trasforma il sarcasmo macabro dell'autore de Il Dizionario del Diavolo in un romanticismo tipico della penna del francese. Romanticismo che si ripropone, in tonalità più strazianti, nel poetico Le Jardin de Mary (1895), in cui si parla degli attimi immediatamente precedenti alla dipartita della persona amata.

Questi sono, di gran lunga, gli elaborati più riusciti. Per il resto, l'antologia è formata da testi rapidi, scritti in modo immediato e non troppo elaborato. Rosny fornisce spesso la sensazione di non sviluppare a dovere le sue trame, limitandosi a brevi cenni narrati da un personaggio a un altro, alla maniera di leggende metropolitane. Storie spesso drammatiche, imbevute da toni macabri se non addirittura grandguignol. Omicidi brutali, in alcuni casi compiuti da bambini più o meno consapevoli delle loro azioni (“Le Pendu”, “Le Clou”, “Le Hanneton” e “Le Dormeur” ), eventi tracciati da un destino ineluttabile a cui, nel bene o nel male, non si può sfuggire (“Mystere”) e storie di accennata licantropia, più mentale che fattuale ma non per questo meno concreta (“Le Lion et le taureau”), si alternano. Non mancano racconti sarcastici che giocano sulla superstizione (“Le Mouvais Oeil”) o testi in cui la superstizione dimostra di avere basi solide che superano la scienza (“Le Mage Rustique”).

Questo il mondo macabro di Rosny che le Edizioni Hypnos finalmente propone, rendendo giustizia a un autore che meritava di esser sdoganato in Italia oltre alla dimensione fantascientifica fin qui divulgata. Testo forse non per tutti, talvolta un po' datato, più adatto agli studiosi di fantastico che a coloro che sono alla ricerca del mero intrattenimento. Elegante il formato tascabile garantito dall'appartenenza alla collana Impronte. Perfetta la traduzione di Elena Furlan.

1Così ne Maestri della Letteratura Fantastica, Edipem, 1983, p. 78.

2Massimo Del Pizzo, Il più visionario dei naturalisti e il più naturalista dei visionari, in La Guerra del Fuoco, 2000, Editrice Nord.

3Cfr Cesare Buttaboni, La Letteratura del Terrore in Francia, in Hypnos 10, Hypnos, Autunno 2019, p.92-93.

 
L'autore J. H. Rosny ainé
 
"Il giorno in cui dovessimo ottenere nozioni precise sui fatti dell'Aldilà, non ci sembrerebbero più sorprendenti del prodigio del nostro corpo, o dei milioni di fibre nervose che coordinano le rivelazioni del mondo esterno. Sono quasi certo che innumerevoli esseri invisibili si muovano attorno a noi; l'universo così mi sembrerebbe molto più logico e coerente che se supponessi degli spazi vuoti di energia e di vita."

martedì 18 maggio 2021

Recensione Graphic Novel: CERNOBYL LA ZONA di Francisco Sanchez e Natacha Bustos


Autore: Francisco Sànchez & Natacha Bustos.
Anno: 2011.
Genere:  Graphic Novel drammatica
Editore: Tunué s.r.l., 2016.
Pagine: 176.
Prezzo: 16.90 euro.

 
Commento a cura di Matteo Mancini. 

Graphic novel proveniente dalla Spagna, pubblicata dalle Ediciones Glénat Espana nel 2011 a firma Francisco Sànchez e Natacha Bustos. Ex redattore al debutto nel fumetto il primo (classe 1962), autrice dei disegni la seconda (venti anni più giovane), Cernobyl è la prima uscita sul mercato italiano della coppia. Decretato miglior fumetto all'Imaginamàlaga Festival 2011, biglietto da visita che ne ha agevolato l'esportazione e il successo in Francia, ad Angouleme, al FIBD aggiudicandosi il Prix Tournesol 2012, il volume è arrivato in Italia nel 2016, in occasione del trentesimo anniversario della catastrofe di Cernobyl. A credere nel progetto è stata la Tunué srl, per la collana Prospero's Books. Un'uscita quanto mai calibrata e in anticipo di tre anni sulla mini-serie televisiva anglo-americana che ha fatto incetta di riconoscimenti nel mondo, conquistando, tra gli altri, due Golden Globe, tre Emmy e un Grammy Award riaccendendo di fatto l'interesse sulla cittadina di Prip'yat, la città fantasma che sorge a tre chilometri dal reattore, e alimentando il giro turistico che da anni porta curiosi da ogni angolo del mondo a passeggiare, sotto le istruzioni degli stalker (le guide), nelle vie fagocitate da una natura così forte da vincere quelle radiazioni che persisteranno nella zona per ancora 100.000 anni.

Sanchez, con pochi dialoghi e molte immagini, sceglie come struttura narrativa la via del punto di vista dei cittadini e propone il disastro dalla prospettiva delle tre generazioni di una famiglia immaginaria (nonni, genitori e figli). La graphic novel si apre nelle campagne limitrofe a Prip'yat, mostrando la desolazione e la disperazione di una coppia di coniugi che vivono grazie ai prodotti del terreno e del loro allevamento, preoccupati delle conseguenze che potrebbero derivare dall'esplosione a cui hanno assistito. La sensazione di disperazione e di malinconia è resa ancor più manifesta dall'attenzione ai dettagli. Calendari, quadri di Lenin appesi laddove noi teniamo quadretti sacri, ma soprattutto foto di famiglia, matrioske, orsacchiotti e animali che brucano l'erba, disinteressati al disastro. Ci spostiamo poi a Prip'yat, alcuni giorni prima dell'evento. Qui facciamo la conoscenza della famiglia della figlia dei coniugi anziani. La giovane è in dolce attesa ed è felice per il parto, anche perché è previsto per l'1 maggio, una data simbolo per la società sovietica. Proprio in quel giorno è prevista anche l'inaugurazione del parco giochi. “Se ti comporti bene, andremo all'inaugurazione” assicura la madre al primo figlio. Questo, piccoletto, vede il poster pubblicitario affisso in un muro e lo guarda con espressione sognante, alla stregua di un evento straordinario. Non sta nella pelle. Appena trova il nonno, gli indica le nuove attrattive e pretende di farsi immortalare con lui, la nonna e la mamma sotto la ruota. Il click è il ritratto della felicità. 

Prip'yat è un fiore all'occhiello della società sovietica, il cuore pulsante dell'impero russo. È qui che sorge la più grande centrale nucleare della federazione ed è qui che è installata un'antenna militare di settecentocinquanta metri di lunghezza e centocinquanta di altezza che dovrebbe garantire l'intercettazione di ogni segnale missilistico americano. Vivere a Prip'yat è un onore, in città c'è tutto quello che altrove, in Unione Sovietica, non ci si può neppure immaginare. Sono trascorsi solo sedici anni da quanto è stato murato il primo mattone. Una città sorta dal nulla, in mezzo a una palude vicino alla quale sorge il fiume che ha dato il nome alla città stessa. Il centro urbano, bellissimo e spazioso dalle visioni aeree, è in continua espansione, con un'età media di ventisei anni, i lunghi viali, i palazzoni grigi di sedici piani, il cinema, un centro commerciale, una discoteca, murales, e una piscina olimpica in cui vengono ad allenarsi atleti da ogni parte della Russia e dell'Ucraina. Il verde domina incontrastato tanto che la città è anche detta la “città dei fiori” o “la città del futuro. Ed il futuro è tutto dalla parte di Prip'yat prossima a diventare il brillante dell'ingegneria sovietica, un modello di riferimento per tutte le altre città ma, c'è un ma... un mostro silente, che non ha ancora palesato la sua vera natura e che si innalza ad appena tre chilometri di distanza; è visibile da ogni angolo della città, eppure venerato alla maniera di una divinità a cui portare doni per benedirne la sua stessa esistenza. E' il King Kong di Skull Island o il Godzilla che dorme sotto le coperte del mare nipponico, solo che questo essere è di cemento, grafite e uranio; è la grande bestia di Holocaust 2000 di Alberto De Martino. Il mostro è fonte di denaro, benessere, la ragione stessa che ha generato la vita a Prip'yat: la città atomica. Laggiù lavora la quasi totalità degli abitanti. La città è una atomgrad (città atomica), ogni abitante vive in funzione della centrale. Direttamente o meno, tra chi è ingegnere, chi vigile del fuoco, chi maestro o professore (i bimbi in città sono un numero spropositato) e chi esercita le attività lavorative fondamentali per il funzionamento della città. Servono infatti giardinieri, commessi, poliziotti, autisti, burocrati e via dicendo. “Anche suo marito lavora alla centrale?” si legge nel testo. “C'è qualcuno che non lo fa?” commenta la giovane madre.

Non può succedere niente a Prip'yat, tutto è stato previsto perché in Unione Sovietica non può succedere un disastro. E così la felicità continua a persistere anche dopo l'incidente. Le autorità non comunicano cosa è successo, sfruttano la fiducia del popolo per non far scoppiare il panico. “Se fosse grave ci avrebbero avvisato, non crede?” si commenta per le strade, mentre i ragazzini giocano a pallone, scorrazzando come niente fosse. Il mostro è là, sullo sfondo, libero da trappole contenitive e completamente fuori controllo. Eppure la paura e l'incertezza continuano a essere precluse dalla dedizione totale dei cittadini verso chi detiene il potere. Anche quando in città si cominciano a vedere soldati e poliziotti con mascherine e attrezzature di rilevamento radioattivo la paura non serpeggia. Probabilmente è un'esercitazione... niente di serio.

Intanto, a tre chilometri e lontano da occhi indiscreti, la mattanza prosegue. I pompieri cadono a decine, preda di vomito e di strane ustioni. La morte è quasi immediata, in una deformazione e trasformazione fisica che ha del malefico. Occorre celare, nascondere oltre ogni possibilità. Quello che succede non sta succedendo. La pelle brucia, cambia di colore, si riempie di paghe che rendono glabri i crani. Che diavolo si sta combattendo? Si decide il trasferimento a Mosca dei primi contaminati, ma ai parenti si dice che va tutto bene. È tutto sotto controllo. In Unione Sovietica le cose non possono andare storto, mica siamo in un paese capitalistico. Il fuoco però divampa, rilascia uno strano colore nel cielo. Uno spettacolo di morte così eloquente da indurre i cittadini ad ammirarlo di notte dai ponti, alla stregua di una manifestazione pirotecnica. Nessuno comprende cosa stia succedendo. Il nucleare è sicuro, lo hanno detto fior fiori di luminari ed è fonte di benessere e di privilegi, non può essere un nemico. Neppure 36 ore dopo, quando arriva l'ordine di evacuazione, si intuisce il disastro. “Sarete evacuati per appena tre giorni” ripetono i megafoni che echeggiano in città. Un infinito schieramento di bus giunge da ogni parte della Russia. È una misura precauzionale, soprattutto per il benessere dei bimbi ma, sia chiaro, niente per cui preoccuparsi. Almeno, così dicono e se lo dicono loro, c'è da stare tranquilli, si è pur sempre cittadini di una super potenza. L'evacuazione è tuttavia imposta, prima a Prip'yat e poi nelle campagne limitrofe. Gli animali non possono esser portati, giusto per non creare confusione e stressarli inutilmente. 47.000 sfollati, solo a Prip'yat, ma per un gita di qualche giorno e poi, cascasse il mondo, tutti potranno fare ritorno. Sanchez non è sensazionalista, come potreste pensare leggendo queste righe, anzi. Calibrato, essenziale ed efficace. Mostra quanto è sufficiente per delineare la portata della tragedia e lo fa portando il lettore a immedesimarsi. Protagonisti sono i cittadini costretti ad abbandonare le proprie case, i propri effetti personali. Si vede una ragazzina che tiene stretto al petto il suo cagnolino. Non vuol separarsene. "Non me ne andrò senza di lui." Un militare però le garantisce che penserà lui ad accudirlo. E' gentile, ha persino una ciotolina. Mentre il bus si avvia sul cammino verso Kiev, l'animaletto viene abbattuto dal militare dietro un'abitazione. “Non ne deve rimanere vivo nessuno. Trasportano le radiazioni nel pelo” la sentenza è eseguita. 

È tempo dei liquidatori, giovani uomini costretti a salvare il salvabile in una gara contro il tempo e contro un mostro che minaccia di rivoluzionare la vita, non solo dell'Unione, ma di tutto il mondo. Compiere l'impresa equivale a una sentenza di morte, ma molti ancora non lo sanno e anche se lo sapessero non avrebbero scelta. Siamo in Unione Sovietica, non nel paese del bengodi. Qui non si pensa o si crede, qui si eseguono gli ordini. Su Prip'yat la radioattività tocca un livello cinquecento volte superiore a quello abituale. È una maledizione invisibile, letale e insapore che ferma anche i robot, pizzica la pelle dando la sensazione di tramutasi in gocce d'acqua vomitate da un cielo plumbeo che osserva imparziale la disfatta della scienza. Il tempo continua a scorrere, implacabile. A ogni ora la porta dell'inferno si fa più vicina, imminente, perché il nocciolo scende e va giù, sempre più giù, nel ventre della Terra. Il seme infetto pronto a generare morte, concependo l'aberrazione in uno stupro non tollerato dalla natura. Le falde acquifere sono minacciate e anche l'intera centrale rischia di saltare in aria. Hiroshima e Nagasaki diventano bazzecole al cospetto di quanto potrebbe succedere.Le poltrone a Mosca scottano.

Il sacrifico è l'unica via. Il miracolo, per i limiti del possibile e sotto lo sguardo dell'intero mondo, viene compiuto, a un prezzo incalcolabile in termini di vite umane. Tumori, deformazioni, cambiamenti di vita non sono quantificabili. Il governo però è categorico: i morti sono 32 ed è il mostro è imbrigliato. Omettono però di dire che sia vinto. La battaglia è solo rimandata. L'arroganza dell'uomo è stata tale da aver partorito un qualcosa la cui potenza è sfuggita di mano. È la fine di un sogno, la morte di una città che avrebbe dovuto brillare nella gioielleria del regime ed è anche il crollo dell'Unione Sovietica. I giochi sono finiti e il rimpianto e il dolore sono i fedeli compagni della malinconia. Gli Stati Uniti hanno vinto. La guerra fredda è finita.

La parte terminale della graphic novel è dedicata al ritorno nei luoghi dell'adolescenza e in quelli in cui si sarebbe dovuti nascere e vivere. Una prospettiva di vita cancellata da una sliding door che ha decretato la morte di un luogo che tutti avrebbero indicato quale astro nascente dell'Unione. Ciò che era stato sovietico ora è terra Ucraina, una sorta di museo a cielo aperto. La centrale è dismessa, ma il mostro è sempre là. Silente, ma ancora cattivo e pronto a fare morti. Vediamo il ragazzo, un tempo bimbo, portare la sorella, nata alcuni giorni dopo del disastro, in ciò che resta del loro appartamento. A distanza di venti anni, il ragazzo entra nella casa in cui ha passato l'infanzia. Dentro c'è ancora qualcosa di quel lontano passato. Un disegno, qualche oggetto. Il passato torna a vivere, purtroppo solo nella mente. E poi la visita sotto quella ruota simbolo di una felicità stroncata sul più bello. La lacrima scende a solcare i volti, a testimonianza di un dolore che strozza il cuore nel momento in cui si apre la pagina dell'ultimo ultimo disegno. In formato gigante, vediamo il contenuto di una scatola consegnata ai due ragazzi dai vicini dell'abitazione in cui erano a ritornati a vivere i nonni, anni dopo la tragedia. Dentro c'è il ricordo della spensieratezza dei giorni felici, di una vita che non è stata e soprattutto c'è una foto... la foto di famiglia sotto quella ruota panoramica pronta a entrare in funzione. L'anima di Prip'yat non c'è più, della città resta il solo scheletro.

Che dire... Cernobyl – La Zona è una graphic novel da regalare a un pubblico molto giovane, un'occasione per cercare di spingere le nuove generazioni a documentarsi sull'evento. Un modo per ricordare e non dimenticare, una lettura da cui partire per documentarsi in modo più approfondito. Non ci sono pretese autoriali, non c'è un'attività di indagine per ricostruire i motivi che hanno portato al disastro. Al centro ci sono i cittadini, le conseguenze che hanno dovuto subire e il dolore di aver perduto tutto. Il sogno si è tramutato in un incubo da cui, ogni giorno, Prip'yat spera di risvegliarsi, aprendo gli occhi al sorgere del sole, per rivedere i suoi ordinati viali alberati curati dai giardinieri, le auto divorare l'asfalto,i bimbi che giocano per le vie e quella ruota che volteggia tra applausi e risate sopra la pista dell'autoscontro. In una vita alternativa, ne siamo certi, Prip'yat vive. 

I due autori.