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sabato 2 aprile 2016

Recensione Cinematografica: RACE - IL COLORE DELLA VITTORIA di Stephen Hopkins



Produzione: Karsten Bruenig, Luc Dayan, Stephen Hopkins, Kate Garwood, Jean-Charles Levy, Nicolas Manuel, Louis-Philippe Rochon e Domenique Seguin.
Anno: Canada, Germania e Francia, 2016.
Soggetto e Sceneggiatura: Joe Shrapnel e Anna Waterhouse.
Regia: Stephen Hopkins.
Montaggio: John Smith.
Colonna Sonora: Rachel Portman.
Interpreti Principali: Stephan James, Jason Sudeikis, Jeremy Irons, Carice van Houten, William Hurt, Shanice Banton, David Kross, Barnaby Metschurat, John MacLaren.
Durata: 134 min.

Commento Matteo Mancini.

Grandissimo film distribuito in Italia il giorno dell'anniversario della scomparsa di Jesse Owens, venuto a mancare il 31 marzo di trentasei anni fa.
Race, il Colore della Vittoria si candida quale uno dei migliori film della stagione 2016, di certo sul versante sportivo ma a mio avviso anche oltre il contesto di riferimento. È un'opera che sa miscelare senso del ritmo, gusto per lo spettacolo e la regia ma soprattutto fa leva su una sceneggiatura, per il tema affrontato, notevole. Scritto dai promettenti sceneggiatori in erba (curriculum scarno) Joe Shrapnel e Anna Waterhouse, già insieme in occasione di Frankie e Alice (2010) e ai box da sei anni, Race è un contenitore di sotto trame e temi che vanno dalla storia, ai rapporti umani, ivi compresi tematiche quali antisemitismo, razzismo, pari opportunità, corruzione, manipolazione massmediatica, senza mettere in secondo piano la componente sportiva, i valori olimpici e le gare. Funzionale a tutto questo sono le Olimpiadi del 1936 (le ultime prima dello scoppio della seconda Guerra mondiale, si dovranno poi attendere dodici anni), ma soprattutto le performance di un atleta da considerarsi un vero e proprio eroe della pista, dotato di un fascino e una potenza, alimentate da un atteggiamento ostracista sia in patria che sul campo di gara (la Germania Nazista), che ne fecero un simbolo assoluto di rivalsa e di affermazione dei giusti valori contro il razzismo americano, la logica del superuomismo ariano nazista e la segregazione ebraica. Dunque uno sportivo che ha valicato il confine dello sport per entrare nella storia con la “S” maiuscola, riuscendo in questo semplicemente facendo quello che più riusciva a fare: correre e saltare. Quattro medaglie, record su record mondiali e imprese che non riuscì a oscurare neppure la pesante mano del genio del male dell'informazione massmediatica Joseph Goebbels (il ministro della propaganda nazista dal '33 fino alla caduta), costretto, suo malgrado, a sottostare in compagnia di Adolf Hitler, alle vittorie di un afroamericano che dimostrava, dati alla mano, la scelleratezza di certe basi ideologiche e culturali presentate come incontestabili, in chiaro stile pitagorico ipse dixit, dal regime locale.

Il film però non è solo questo. Non si limita alla storia e alle difficoltà incontrate da Jesse Owens, ma va oltre. Parla soprattutto di quelle Olimpiadi di Berlino, che sono da considerare tra le Olimpiadi più bizzarre della storia della competizione, vuoi per la magnificenza ricercata (e centrata in pieno) dai tedeschi, vuoi per il clima surreale che aleggiava attorno ai campi gara (con i rastrellamenti ai danni degli ebrei, sottolineati anche nel film), vuoi per la spinta di usare lo sport come strumento di carattere politico, quasi come antipasto della futura guerra, atto a dimostrare la supremazia di una nazione sull'altra. Situazione paradossale che portò gli Stati Uniti a minacciare di disertare la manifestazione (come faranno poi in Unione Sovietica, e come in quell'occasione fecero, per motivi diversi, Unione Sovietica e Spagna) per poi prendervi parte, a ranghi ridotti, dopo una soffertissima votazione con un voto decisivo a evitare un pazzesco ex aequo (tutto mostrato nel film). Decisione questa a sua volta spaccata all'interno della squadra olimpica, con ulteriori sotto votazioni messe in atto da atleti (colored ed ebrei) anch'essi combattuti tra il prendere parte o meno al fine di dissociarsi dall'ideologia del regime tedesco e da quel poco di notizie che giungevano oltreoceano dall'Europa (farà altrettanto il calciatore tedesco di vedute socialiste Breitner ai Mondiali di Argentina 1978, restando a casa per protesta contro il locale regime fascista dei colonnelli). Una situazione, questo il film non lo dice, che porterà al trionfo della squadra nazista capace di vincere 33 ori contro i 24 dei fin lì dominatori americani (8 oro per gli italiani, quarti nel medagliere generale, con la prima medaglia oro in assoluto ottenuta da un'atleta, nella nostra storia, ovvero Ondina Valla primatista negli 80m ostacoli), però a entrare nella storia saranno questi ultimi grazie a Owens, indicato da tutti come l'uomo copertina dell'edizione.

Il film parla poi di metacinema, con la storia della coraggiosa Leni Riefenstahl (pupilla del Fuhrer) che convinse il sagace Goebbels (grande bastardo, ma sempre sulla breccia in fatto di astuzia nel manovrare le informazioni) a sfruttare l'occasione per essere il primo a divulgare nel mondo le immagini di un'Olimpiade. Le fu così commissionato dal Fuhrer in persona il diritto di girare un film sulle olimpiadi del '36 e che uscirà col titolo Olympia (attualmente considerato uno dei migliori film dedicati allo sport). Personaggio monumentale, anche questo, nella promozione dell'ideale nazista ma capace di resisterne al crollo, per il fatto di esser votata alla ricerca di un certo realismo artistico nella ripresa, nella fattispecie dell'evento sportivo piuttosto che a ricercare valenze politiche, teso a esaltare l'eroicità dei gesti, la magnificenza dei contesti ambientali o la superiorità atletica dei campioni della pista. Spesso in contrasto con le intromissioni di Goebbels, che tentò di censurare nelle olimpiadi del '36 i successi degli indesiderati (come, a esempio ordinare di non riprendere la finale dei 200 metri dove Owens era il grande favorito), riuscì a salvare la propria opera per la libertà datale dal Fuhrer in persona e così vediamo Owens in tutto il suo splendore e cogliamo addirittura un'espressione di scoramento del Fuhrer in persona nella storica gara di salto in lungo con il fortissimo Luz Long.

Lo SPORT OLTRE POLITICA E IDEOLOGIE
lo scambio di complimenti tra LONG e OWENS
sopra gli attori KROSS e JAMES, sotto gli originali.

Queste sono le tre anime su cui gli sceneggiatori muovono la storia del film. La storia inizia nel '33 con l'arrivo del giovane Jesse Owens all'Università dell'Ohio. Famiglia povera, come quasi tutte quelle di origine afroamericana, ma orgogliosa. Grande dedizione alla fatica, una figlia piccola da mantenere e una fidanzata lontana che fa la parrucchiera per sbarcare il lunario. Lo studio come speranza per manlevarsi da una situazione difficile, anche perché a Columbus i colored non vanno troppo a genio alla popolazione. A dare però la grande occasione al ragazzo è un allenatore un po' matto (allena con la musica, abitua i propri ragazzi alla pressione, è insensibile alle critiche stolte dei colleghi) che, qualche anno prima, ha perduto la possibilità di prender parte alle olimpiadi per una stupidata e ora cerca di rifarsi cercando campioni in erba. Gli studenti che ha per le mani gli danno risultati scadenti e così gli passa sotto gli occhi la scheda di un nuovo ragazzo su cui sono appuntati i tempi in gara. Lo va a vedere in allenamento, lo fa convocare e lo mette sotto allenamento. Ha così inizio il fortunato sodalizio tra Jesse Owens e Larry Snyder. Un rapporto all'inizio spigoloso, per i modi autoritari del trainer, ma che poi diventerà via via amichevole, alla fine persino fraterno con l'allenatore che andrà a sue spese in Germania per seguirlo in quanto escluso dalla squadra olimpica e poi riammesso per le difficoltà di adattamento di Owens con i trainer titolari (succederà qualcosa del genere anche al trainer di Mennea). I successi però minano la tranquillità del ragazzo, che finisce preda delle tentazioni figlie della notorietà crescente. Rischia di rompere con la fidanzata storica per un flirt con una appariscente ballerina da night che lo tenta non poco, alla fine però prevale il valore della famiglia e può così partire per Berlino dopo aver ragionato sull'opportunità o meno di prendere parte all'Olimpiade (sarà decisivo il rivale di colore che lo ha battuto in più di un'occasione in America, ma che si è infortunato prima dell'evento chiudendo la carriera: “Devi andare a Berlino per spaccare il culo a Hitler per tutti noi! Io, ormai, ho chiuso...”). Segue la storia a Berlino, tra accordi più o meno taciti tra i rappresentanti della delegazione Americana e Goebbels. Rapporti accesi, filtrati da interpreti diplomatici che smussano i contenuti al vetriolo di entrambe le parti. Terribile la battuta di Goebbels quando Brundage, presente ai lavori funzionali all'ultimazione dell'enorme stadio di Berlino, manifesta il rischio che gli Stati Uniti, che rappresenta, non partecipino a causa dell'operato della Germania. Il ministro dai modi freddi e distaccati (mostruosa interpretazione del berlinese Barnaby Metschurat, sebbene sia un attore prevalentemente televisivo, bravo a simulare la freddezza omicida e apatica di questo uomo dai modi degni di uno squalo bianco, specie quando, senza scomporsi, dice alla regista: "La rendo forse nervosa?") replica: “Forse, agli americani, non piacciono i nostri bagni...?” Un'espressione che vuol equiparare gli ebrei e le c.d. razze inferiori a un qualcosa finalizzato a esser scaricato... Davvero un'espressione forte che caratterizza il personaggio, ripeto interpretato in modo favoloso da Metschurat. Emergono poi i tentativi di corruzione operati sulle autorità estere, la pretesa di escludere gli ebrei dalle squadre altrui (cosa che andrà a segno, con Brundage che, minacciato dai tedeschi per via degli accordi presi, farà escludere i due ebrei della nazionale americana dalla 4 per 100), il tentativo platonico (inteso che deriva dalla Repubblica di Platone) di fare accoppiare gli atleti migliori con le donne migliori raccontato da Luz Long, con le femmine utilizzate alla stregua di fattrici del regime. Su tutti poi, per fortuna, ci sarà il responso della pista a ricordare la vera essenza dello sport, una dimensione libera da ogni ingerenza, dove (almeno in apparenza, si veda la prima finale di coppa del mondo vinta dalla Germania ai danni dell'Ungheria) non contano poteri, razze e arbitri, ma solo sé stessi, le proprie gambe e la propria mente (come spiega il trainer a Owens, si vince prima nella propria testa ed è un insegnamento che sta alla base dell'attuale PNL applicata in ambito sportivo). Tra i passaggi più belli del film è grandioso l'atteggiamento del tedesco Long (gli da corpo il freddo David Kross, già visto nello spielberghiano War Horse), campionissimo europeo di salto in lungo, che agevola il salto dell'avversario indicandogli il punto dove staccare e poi lo esorta a migliorare la prestazione, dopo che i due si sono superati a suon di record battuti l'uno dall'altro in serie (un duello che ricorda certe sfide Bubka vs Vigneron, che saltavano però con l'asta), per la felicità dell'aristocratica Leni Riefenstahl (la perfetta olandesona van Houten lanciata dal connazionale Paul Verhoeven e già ammirata, quale moglie di Cruise, in Operazione Valchiria) che riprende ben contenta simil spettacolo tale da scuotere le corde emozionali persino di Goebbels e Hitler in tribuna. Finale da vero spirito sportivo, commentato in questo modo dai gerarchi nazisti: “Cosa sta facendo Luz: vuol rovinarsi la carriera?” Il tedesco, felice di esser stato battuto da chi ha piazzato un record mondiale (capisce da lungimirante di aver preso parte a una finale storica), peraltro piazzato su suo invito dopo che ormai aveva già perso la gara (rendendo apparentemente inutile l'ultimo salto dell'avversario), decide di fare un giro d'onore con il forte avversario. La cosa costerà cara al tedesco, ma non importa: i veri uomini si vedono dai gesti che hanno compiuto in vita e ancora oggi Long viene applaudito per questo (ci vogliono GRANDI PALLE per far quello che ha fatto e che era giusto da fare... tanto di cappello al signor Luz Long). Divertente la scena con Owens che si presenta a fine gara nella stanza del rivale con una cassa di Coca-Cola: “A me hanno mandato queste dagli Stati Uniti” per festeggiare, l'altro un po' frastornato invece replica: “A me hanno mandato una donna nella stanza che voleva accoppiarsi con me, penso che gli abbiano ordinato di farsi mettere incinta!”



Questo il contenuto del film messo nelle mani di Stephen Hopkins, un regista tutt'altro che stellare solitamente specializzato negli horror di seconda fascia, ma che qua, al suo undicesimo film, offre il meglio di sé scandendo un ritmo serrato e avendo un grande gusto per lo spettacolo (senza tralasciare, come abbiamo detto, i contenuti che sono omogenei e completi). Una sequenza su tutte è costituita dal piano sequenza che vede Jesse Owens entrare nello stadio di Berlino. Hopkins opta per un'inquadratura circolare attorno al protagonista Stephan James per esaltare la magnificenza dell'impianto e, vi assicuro, ottiene un effetto che visto al cinema è da Sindrome di Stendahl, cioè da vertigini. Davvero una prova sopra le aspettative, quanto meno le mie, per Hopkins che ricordo in sequels horror quali Nightmare 5 (1989) o Predator 2 (1990), o per la nomination alla Palma d'Oro di Cannes con Tu Chiamami Peter (2004), piuttosto che il modaiolo Lost in Space (1998). Assente dal cinema da circa dieci anni (in favore dei serial televisivi), va ricordato dietro alla macchina da presa nella prima serie del fortunato serial 24 (2001). Prossimamente uscirà Houdini & Doyle opera che approfondirà il grande rapporto tra il mago di origine ungherese e il dottore ideatore, tra gli altri, del personaggio letterario Sherlock Holmes. E' Hopkins stesso ad autofinanziarsi (lo aveva già fatto in passato), mettendo però su una squadra infinita di coproduttori (qualcuno pure al debutto) che coinvolgono ben tre nazioni.

Da sx a dx
Sudeikis, Irons e James.

Il ruolo del protagonista, dopo la rinuncia del designato John Boyega (impegnato in Star Wars: Il Risveglio della Forza), viene dato al canadese Stephan James, classe 1993 alle prime esperienze e al suo primo ruolo importante. Curiosamente arriva da un film come il premiatissimo Selma – La Strada per la Libertà (2014) che tratta il tema del razzismo e che ruota attorno alla figura di Martin Luther King. Il ventitreenne non se la cava affatto male. Regge bene il peso di essere il protagonista, pur subendo il maggior carisma della spalla costituita dal comico Daniel Sudeikis (nei panni di Snyder) qua in un azzeccato ruolo dai tratti disillusi e per nulla comici (infatti ha rinunciato ad avere una famiglia diversa da quella costituita dalla squadra di atleti che allena).
Nel cast figurano poi i nomi illustri di Jeremy Irons (è il Capo del Comitato Olimpico degli States) e William Hurt (è il rappresentante dei politici contrapposti a Irons che vorrebbero boicottare le olimpiadi) in ruoli di contorno. I due incarnano le due scelte da prendere in  presenza di un fenomeno come quello nazista: o andare e cercare di lottare contro il nemico ("porteremo in Germania ebrei, neri e anche marziani se hanno la cittadinanza americana!") oppure ignorare il tutto non presentandosi e lasciando campo aperto alla follia teutonica. Prevaleranno, per fortuna, i primi, con Owens spinto sempre più avanti dal suo allenatore perché per lui non ci sarà alcuna Next Time. Pettorina 733 e in pista a far vedere i sorci verdi a chi pensava di essere imbattibile! Dunque un cast non stellare, quanto a curriculum, ma che non fa rimpiangere nomi di grosso richiamo, anzi è più bello anche per questo.

Nel cast tecnico molti fedelissimi del regista, a partire da Peter Levy, già in sodalizio con Hopkins dai tempi di Nightmare, ma anche nomi nuovi per lui come la prima donna a vincere un premio Oscar per la colonna sonora ovvero Rachel Portman vincente con Emma (1997) e autrice delle musiche di altri apprezzati film quali Le Regole della Casa del Sidro (1999), Chocolat (2000) e Oliver Twist (2005). Notevole invece la ricostruzione scenografica con auto, costumi e costruzioni, in buona parte presumo realizzate in computer grafica (ma non si nota molto), che lasciano senza fiato e costituiscono quel quid in più che fa del film, a mio avviso, un capolavoro nel settore sport specie se si considera il budget. Davvero sopra ogni mia più rosea aspettativa. Lieto di esser stato presente in sala al primo spettacolo in assoluto in quel di Pisa, Cinema Isola Verde, unico in sala (non mi era mai capitato). Applausi in solitaria e complimenti sentiti a produzione, regista, cast artistico e tecnico. Un film didattico che si dovrebbe far vedere anche nelle scuole per i veri valori olimpici dello sport, per i valori della giusta competizione, per i giusti riconoscimenti che devono esser dati a chi dimostra, con i fatti, il proprio valore. Riconoscimenti che Owens ha avuto solo in tarda età. Hitler, secondo alcune leggende e secondo il film, lasciò la tribuna (secondo altre fece un cenno, ridacchiando, a Owens), Goebbels rifiutò di stringergli la mano e si operò per ostacolarne la diffusione visiva delle sue gesta. Poco diverso l'atteggiamento negli States dove non si poteva elogiare pubblicamente un nero, neppure fare la doccia con loro al termine di un allenamento, arrivando fino al punto da costringerli a entrare in sale e teatri dalle porte secondarie (certo meglio dei nazisti, perché con loro non si entrava neppure, però vergognoso comunque). Grande elogio qua a Hopkins (forse non a caso è Australiano) e agli sceneggiatori per non esser caduti, a esempio come avvenuto con The Program il film su Lance Armstrong, nella demonizzazione dei nazisti ignorando poi il contorno che era sì migliore, ma di certo censurabile sul piano etico e sociale. Commovente il finale dove un bimbo bianco (a sottolineare l'innocenza e la purezza scevra da influenzamenti dettati da culture faziose di stampo fideistico) si avvicina a Owens e consorte (“Lei è Jesse Owens, vero?”) chiedendo un autografo. Questo è il vero sport, al di là del tifo e delle preferenze, questi sono i veri uomini! Un film che fa bene alla cultura sportiva dei giovani di oggi e che serve a ricordare certi periodi neri.


"In pista non esiste bianco o nero, ma solo veloce o lento. Non conta nient'altro, né il colore né il denaro e neanche l'odio. In quei dieci secondi sei completamente libero!"