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giovedì 18 febbraio 2021

Recensione Narrativa: IL TERZO GIORNO di Lamberto Bava.


Autore: Lamberto Bava.
Anno: 2020.
Genere:  Fantascienza Apocalittica.
Editore: Cut UpPublishing.
Pagine: 84.
Prezzo: 16.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Il master of horror Lamberto Bava, figlio del grande maestro del gotico italiano Mario Bava nonché regista negli anni ottanta di pellicole prodotte da Antonio Avati (Macabro, 1980) e da Dario Argento (Demoni e Demoni 2) torna, dopo sei anni dal suo debutto di scrittore, alla narrativa. Lo fa con uno sci-fi apocalittico, dai toni e dai tratti crepuscolari, ispirato dal furoreggiare del corona virus.
 
Sulla scia dei tentativi più o meno fortunati firmati dai vari Lucio Fulci, Umberto Lenzi e Dario Argento, un altro massimo esponente della cinematografia del terrore nostrana prova dunque a liberare il proprio estro sulla carta stampata. Già ammirato alla corte di Luigi Cozzi (Edizioni Profondo Rosso) in occasione di Solo per noi Vampiri, Bava confeziona un prodotto molto più contenuto (meno di novanta pagine) messo sul mercato dalla Cut Up Publishing a una somma un po' altina (16 euro). Lo stile del narrato non è trascendentale. Bava è immediato, scrive come se stesse stendendo una sceneggiatura. Il risultato finale, peraltro non particolarmente innovativo, è comunque gradevole.
Il Terzo Giorno è un'opera derivativa, non potrebbe essere altrimenti dati gli antichi antenati quali La Nube Purpurea (1901) di Matthew P. Shiel o La Nube Avvelenata (1913) di Conan Doyle. Tutte opere ben conosciute dal maestro, che non nasconde la propria passione per il genere dichiarandosi "innamorato del fantastico" (come dargli torto?). Più che ai classici ora riscoperti anche in edicola grazie alla meritoria attività di divulgazione della collana I Primi Maestri del Fantastico, Il Terzo Giorno guarda a Stephen King (i riferimenti vanno a Cell, per quel che riguarda la componente horror, e a L'Ombra dello Scorpione, per la parte legata al gruppo che si raduna attorno a Mamma Abigail) e a Dan Brown (l'innesco della pandemia è ripreso pari pari da Inferno), con un taglio cinematografico che esalta l'immagine rispetto alla dimensione introspettiva. Risultato finale? Semplice, per chi di mestiere fa il regista: il lettore ha la sensazione di vedere un film.

Dotato di buon ritmo, il soggetto si sviluppa attraverso tre binari che verranno progressivamente a incontrarsi e che porteranno il lettore a capire cosa sia davvero successo. Uno dei tre filoni di storia, che si alternano tra loro, è ambientato ai giorni nostri, gli altri due vanno in scena nel futuro: 26 anni dopo la catastrofe. Ne deriva una novella dai tratti onirici, di grande impatto visivo. Bava mette a frutto il suo passato da specialista dell'horror, connatura il suo virus di un'aggressività e una rapidità tale da manifestarsi e uccidere la persona colpita nell'arco di un minuto. Non ci sono avvisaglie e non c'è modo di difesa. La morte avviene con una modalità che centuplica gli effetti del virus ebola. Come in Cell di King ("gira l'ipotesi che il virus si trasmetta con il web e i cellulari"), un attimo è sufficiente per trasformare un uomo in un mostro deformato dalla sofferenza, col sangue che spruzza fuori da ogni orifizio. "I cadaveri sono tanti, orribili, gonfi. Un incubo disegnato da Botero." I cadaveri diventano manichini mufficati e si mantengono così al decorrere degli anni, quale bizzarri oggetti della vita del tempo che fu. Non c'è nessuno disposto a sotterrarli. Tutto resta sotto la luce del sole. Roma, sede in cui si snoda l'intero racconto, diventa un cimitero a cielo aperto. Al caos e al disordine iniziale subentra un sepolcrale silenzio. Sopravvivono davvero in pochi. Bava non spiega perché vi sia stata una salvezza. E' interessato solo a costruire il mondo del futuro, assai più semplice del nostro e all'insegna di un ritorno a una primordiale comunità dal retogusto hippie.
 
Le immagini in quel di ROMA del film L'ULTIMO UOMO SULLA TERRA (1964)
particolarmente indicate per il romanzo di Lamberto Bava.  
 
La tragedia diviene occasione di riflessione e di comprensione della follia su cui si regge il mondo a noi contemporaneo. L'ottimismo dell'autore è tale da intravedere nella catastrofe un terreno fertile per permettere ai valori positivi di proliferare. Le conseguenze della pandemia sono un "aumento del valore della vita, del senso di amicizia, di soccorso, di fratellanza: impossibile anche pensare di far male o uccidere qualsiasi essere vivente." Una prospettiva in totale controtendenza rispetto ai post-apocalittici in voga negli anni ottanta presso i nostri cinema. Si pensi a pellicole come 2019 Dopo la Caduta di New York, Endgame - Bronx Lotta Finale, I Nuovi Barbari, I Guerrieri dell'Anno 2072 o Rats Notte di Terrore, diretti tra il 1983 e il 1984 dai vari Sergio Martino, Joe D'Amato, Enzo G. Castellari, Lucio Fulci e Bruno Mattei, in cui la catastrofe era occasione per far emergere bande di reietti e desperados in contesti dominati dalla tribale legge della foresta. La catastrofe, allora, generava ulteriore violenza e spazzava via ogni remora etica. Il più forte sottometteva ed eliminava il più debole. Bava capovolge il trend, mutando quella che è sempre stata una costante del genere, anche nelle fortunate pagine di narrativa esaltate negli anni settanta dalla collana Urania: Si pensi ai primi romanzi di James G. Ballard, a La Pista dell'Orrore (1969) di Roger Zelazny, a Tra Gli Orrori del 2000 (1978) di Chelsea Quinn Yarbro o a Spedizione verso il Niente (1972) di Koontz. Non a caso la comunità in cui vivono i superstiti si chiama "Comunità Paradiso", in un vaghissimo rimando a I Danzatori di Noyo (1973) di Margaret St. Clair. Bava traccia le coordinate di un eden che si apre nella desolazione più totale, alle porte della landa in cui sopravvivono le rovine della civiltà e con esse le migliaia di uomini cristallizzati che ricordano, visti dall'alto, le statuette di un presepe. Da questo punto di vista il romanzo è davvero spassoso. Ai superstiti del nuovo millennio poco importa dell'umanità del tempo che fu. La percepiscono come lontana, incomprensibile, anche se non sono passati neppure trent'anni. La violenza è un qualcosa di cui non si comprende ragione. Le armi strumenti diabolici rigettati. L'uomo del futuro vive in armonia con gli animali, è in rapporto quasi fraterno con loro. Persino i famelici lupi o i grifoni giganti divoratori di ossa sembrano atteggiarsi con l'uomo come si potrebbe fare con un essere della medesima specie. In questo, oltre che nel contesto scenografico, risiede l'aspetto più innovativo e geniale dell'opera del maestro romano. Un'armonia che si crea nella distruzione e che trasforma l'epidemia mondiale "in un'inaspettata occasione di riscatto." La sensazione personale è che siano sopravvissuti gli eletti e che quello che Bava rappresenta sia una sorta di paradiso terrestre.
 
Tante le citazioni, dai nomi degli scienziati che hanno liberato il virus (ricordano i nomi dei critici scuola Notturno, la mitica rivista dedicata al cinema bis italiano) all'epilogo in una Roma spettrale con l'ultimo superstite che rievoca le immagini del film di Ubaldo Ragona L'Ultimo Uomo sulla Terra (tratto dal capolavoro Io Sono Leggenda di Richard Matheson), mentre Vincent Price vaga disperato contornato dai cadaveri nella città eterna, con l'intento di regalare ai posteri il mistero della fine del mondo.
Da estimatore del genere apocalittico e soprattutto del Bava regista, di cui si ricorda anche la fortunata serie fantasy Fantaghirò, non potevo non recuperare questo volume.  

Carino, altamente visionario e di facile lettura. Non brilla per originalità, ma presenta spunti interessanti in nome di quell'ottimismo da cui si deve ripartire dopo i mesi assai tribolati di cui il romanzo costituisce evidente (ma purtroppo non più di tanto) estremizzazione.

Il regista e autore LAMBERTO BAVA

 "C'è ancora vita se c'è l'amore. La vita è solo amore!"

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