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giovedì 24 marzo 2022

Recensione Narrativa: LA PESTE di Albert Camus.

Autore: Albert Camus.
Titolo Originale: La Peste.
Anno: 1947.
Genere: Drammatico.
Editore: Bompiani (2017).
Pagine: 336.
Prezzo: 13.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

La Peste è un'ideale conclusone di un percorso avviato nel 1349 dal Decameron di Boccaccio, proseguito nel 1722 da The Journal of the Plague Year di Daniel Defoe e un secolo dopo da I Promessi Sposi di Alessandro Manzoni; un percorso che ha visto un progressivo affrancamento della tematica peste dalla realtà fenomenica che ha investito le sorti dell'umanità verso una narrativa di pura ideazione artistica. L'opera di Camus costituisce l'apice di questa evoluzione sebbene l'autore, che dieci anni dopo sarà insignito del Premio Nobel (per la letteratura), vi giunga, forse, un po' fuori tempo massimo, pubblicando il romanzo quando la malattia era scomparsa da secoli dall'Europa. Lo scrittore francese abbandona ogni proposito di ricostruzione storica (si parla di un'ondata di peste realistica ma di totale invenzione) e plasma un'opera narrativa a tutto campo. La peste, presente con le caratteristiche già indicate dagli autori sopramenzionati (sia in forma bubbonica che polmonare), colpisce una prefettura francese della costa algerina (Orano) e qui viene isolata e contenuta. L'inizio lascia intendere un romanzo dal discreto ritmo e dalle tonalità macabre. Una strage di topi funge da preludio all'arrivo della malattia che, sulle prime, si cercherà di nascondere con quella sorta di “trufferia di parole” che racconta Manzoni nei Promessi Sposi. A poco a poco il lettore si rende però conto che le attenzioni dell'autore si concentrano sulla condizione dell'uomo quale essere vivente, in un'ottica che vada al di là della mera valutazione materialistica. La malattia, pertanto, pur essendo costantemente al centro della narrazione in quella che è una sorta di cronaca di fantasia attraverso la quale presentare il progressivo diffondersi del contagio, funge da metafora di altro. Se Manzoni, da perfetto cattolico, confidava sulla divina provvidenza, Camus, che invece era un ateo, sembra non schierarsi in favore di nessun orientamento, quasi fosse un sofista che non accetta trovare risposte univoche al cospetto di ciò che non è a misura d'uomo.

Il background di filosofo dell'autore emerge all'ennesima potenza nella caratterizzazione dei tanti personaggi e soprattutto nei dialoghi tra questi (vero punto di forza del romanzo). La religione, il concetto di Dio, la violenza, la pace, l'eroismo, la separazione dalle persone amate e soprattutto l'amore, inteso quale unico sentimento per il quale si dovrebbe morire, divengono la vera ragione che sta a fondamento del romanzo. La peste, degna rappresentante del male nel mondo, è allora occasione di riflessione, un qualcosa che sospende i ritmi abitudinari, impone una pausa e spezza quel ciclo giornaliero che rende cieco l'uomo e gli fa intuire che le supposte verità in cui esso confida sono fragili e tendenti al falso. In questo consiste l'allontanamento dell'uomo dal sacro. Non è sufficiente pregare o andare a messa per essere investiti dal sacro, una condizione a cui si può tendere anche senza ammettere l'esistenza di un Dio, suggerisce Camus.

Qual'è allora il senso della vita? Camus dimostra il suo genio non tanto nell'intreccio, che avrebbe anche qualche sbavatura (i ristoranti, i bar, i cinema e i teatri restano aperti per tutto il corso della peste, da aprile a gennaio), bensì nel proporre le tante sfaccettature della questione. Lo fa impiegando personaggi ben distinti, dal medico Rieux per il quale la vita è una continua lotta contro il male a prescindere da ciò che si celi oltre, al gesuita Paneloux che invece vede nel male un'occasione di elevazione attraverso la quale imboccare la via verso l'eternità in un'ottica per la quale il male non va combattuto ma accettato quale volontà divina. In mezzo a queste due posizioni estreme si colloca Tarrou, che ambisce a diventare santo a prescindere dall'esistenza di un Dio, ripudiando la violenza in ogni sua forma e vedendo in essa la vera peste che flagella l'uomo e che porta lo stesso ad acconsentire alla morte di suoi simili trovando per buone le ragioni e i principi da cui la stessa è derivata. Un'ottica per la quale il senso della vità diverrebbe la conoscenza e dunque il superamento dei limiti umani che portano sempre al male.

Posizioni diverse che trovano la giusta alleanza in una situazione contingente in cui è indispensabile fare fronte comune.

Camus è un pacifista, evidenzia il suo no alla guerra e ai totalitarismi, tanto che più di un critico ha visto nel romanzo una metafora della piaga del nazismo.

Si intuisce pertanto la natura autoriale del romanzo, a tratti pesante e tendente a ripetere alcuni concetti, quali quello della separazione, del ripudio della morte e dell'ingiustizia di un Dio che si scaglia sugli innocenti (i bambini). La conclusione a cui sembra giungere Camus è che “l'uomo non sia più capace di amore” anche se il romanzo termina con la conclusione, un po' ottimista, per la quale “ci sono negli uomini più cose da ammirare che cose da disprezzare” e che, pur non potendo ambire a essere santi e rifiutando di accettare i flagelli, “tutti gli uomini si sforzano di essere medici”, intendendo con quest'ultimo sostantivo coloro che lottano contro il male che contamina, prima di tutto, l'amore degli uomini e li rende, per questo, pestilenziali e contagiosi (violenza genera violenza). Alta letteratura quindi per un romanzo che necessita più di una lettura per essere compreso in ogni suo substrato.

 
L'autore ALBERT CAMUS

Ne ho abbastanza di gente che muore per un'idea. Non credo all'eroismo, so che è fin troppo facile e che uccide. A me interessa che gli uomini vivano e muoiano per ciò che amano.”

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