Elenco

  • Cinema
  • Ippica
  • Narrativa
  • Pubblicazioni Personali

martedì 18 maggio 2021

Recensione Graphic Novel: CERNOBYL LA ZONA di Francisco Sanchez e Natacha Bustos


Autore: Francisco Sànchez & Natacha Bustos.
Anno: 2011.
Genere:  Graphic Novel drammatica
Editore: Tunué s.r.l., 2016.
Pagine: 176.
Prezzo: 16.90 euro.

 
Commento a cura di Matteo Mancini. 

Graphic novel proveniente dalla Spagna, pubblicata dalle Ediciones Glénat Espana nel 2011 a firma Francisco Sànchez e Natacha Bustos. Ex redattore al debutto nel fumetto il primo (classe 1962), autrice dei disegni la seconda (venti anni più giovane), Cernobyl è la prima uscita sul mercato italiano della coppia. Decretato miglior fumetto all'Imaginamàlaga Festival 2011, biglietto da visita che ne ha agevolato l'esportazione e il successo in Francia, ad Angouleme, al FIBD aggiudicandosi il Prix Tournesol 2012, il volume è arrivato in Italia nel 2016, in occasione del trentesimo anniversario della catastrofe di Cernobyl. A credere nel progetto è stata la Tunué srl, per la collana Prospero's Books. Un'uscita quanto mai calibrata e in anticipo di tre anni sulla mini-serie televisiva anglo-americana che ha fatto incetta di riconoscimenti nel mondo, conquistando, tra gli altri, due Golden Globe, tre Emmy e un Grammy Award riaccendendo di fatto l'interesse sulla cittadina di Prip'yat, la città fantasma che sorge a tre chilometri dal reattore, e alimentando il giro turistico che da anni porta curiosi da ogni angolo del mondo a passeggiare, sotto le istruzioni degli stalker (le guide), nelle vie fagocitate da una natura così forte da vincere quelle radiazioni che persisteranno nella zona per ancora 100.000 anni.

Sanchez, con pochi dialoghi e molte immagini, sceglie come struttura narrativa la via del punto di vista dei cittadini e propone il disastro dalla prospettiva delle tre generazioni di una famiglia immaginaria (nonni, genitori e figli). La graphic novel si apre nelle campagne limitrofe a Prip'yat, mostrando la desolazione e la disperazione di una coppia di coniugi che vivono grazie ai prodotti del terreno e del loro allevamento, preoccupati delle conseguenze che potrebbero derivare dall'esplosione a cui hanno assistito. La sensazione di disperazione e di malinconia è resa ancor più manifesta dall'attenzione ai dettagli. Calendari, quadri di Lenin appesi laddove noi teniamo quadretti sacri, ma soprattutto foto di famiglia, matrioske, orsacchiotti e animali che brucano l'erba, disinteressati al disastro. Ci spostiamo poi a Prip'yat, alcuni giorni prima dell'evento. Qui facciamo la conoscenza della famiglia della figlia dei coniugi anziani. La giovane è in dolce attesa ed è felice per il parto, anche perché è previsto per l'1 maggio, una data simbolo per la società sovietica. Proprio in quel giorno è prevista anche l'inaugurazione del parco giochi. “Se ti comporti bene, andremo all'inaugurazione” assicura la madre al primo figlio. Questo, piccoletto, vede il poster pubblicitario affisso in un muro e lo guarda con espressione sognante, alla stregua di un evento straordinario. Non sta nella pelle. Appena trova il nonno, gli indica le nuove attrattive e pretende di farsi immortalare con lui, la nonna e la mamma sotto la ruota. Il click è il ritratto della felicità. 

Prip'yat è un fiore all'occhiello della società sovietica, il cuore pulsante dell'impero russo. È qui che sorge la più grande centrale nucleare della federazione ed è qui che è installata un'antenna militare di settecentocinquanta metri di lunghezza e centocinquanta di altezza che dovrebbe garantire l'intercettazione di ogni segnale missilistico americano. Vivere a Prip'yat è un onore, in città c'è tutto quello che altrove, in Unione Sovietica, non ci si può neppure immaginare. Sono trascorsi solo sedici anni da quanto è stato murato il primo mattone. Una città sorta dal nulla, in mezzo a una palude vicino alla quale sorge il fiume che ha dato il nome alla città stessa. Il centro urbano, bellissimo e spazioso dalle visioni aeree, è in continua espansione, con un'età media di ventisei anni, i lunghi viali, i palazzoni grigi di sedici piani, il cinema, un centro commerciale, una discoteca, murales, e una piscina olimpica in cui vengono ad allenarsi atleti da ogni parte della Russia e dell'Ucraina. Il verde domina incontrastato tanto che la città è anche detta la “città dei fiori” o “la città del futuro. Ed il futuro è tutto dalla parte di Prip'yat prossima a diventare il brillante dell'ingegneria sovietica, un modello di riferimento per tutte le altre città ma, c'è un ma... un mostro silente, che non ha ancora palesato la sua vera natura e che si innalza ad appena tre chilometri di distanza; è visibile da ogni angolo della città, eppure venerato alla maniera di una divinità a cui portare doni per benedirne la sua stessa esistenza. E' il King Kong di Skull Island o il Godzilla che dorme sotto le coperte del mare nipponico, solo che questo essere è di cemento, grafite e uranio; è la grande bestia di Holocaust 2000 di Alberto De Martino. Il mostro è fonte di denaro, benessere, la ragione stessa che ha generato la vita a Prip'yat: la città atomica. Laggiù lavora la quasi totalità degli abitanti. La città è una atomgrad (città atomica), ogni abitante vive in funzione della centrale. Direttamente o meno, tra chi è ingegnere, chi vigile del fuoco, chi maestro o professore (i bimbi in città sono un numero spropositato) e chi esercita le attività lavorative fondamentali per il funzionamento della città. Servono infatti giardinieri, commessi, poliziotti, autisti, burocrati e via dicendo. “Anche suo marito lavora alla centrale?” si legge nel testo. “C'è qualcuno che non lo fa?” commenta la giovane madre.

Non può succedere niente a Prip'yat, tutto è stato previsto perché in Unione Sovietica non può succedere un disastro. E così la felicità continua a persistere anche dopo l'incidente. Le autorità non comunicano cosa è successo, sfruttano la fiducia del popolo per non far scoppiare il panico. “Se fosse grave ci avrebbero avvisato, non crede?” si commenta per le strade, mentre i ragazzini giocano a pallone, scorrazzando come niente fosse. Il mostro è là, sullo sfondo, libero da trappole contenitive e completamente fuori controllo. Eppure la paura e l'incertezza continuano a essere precluse dalla dedizione totale dei cittadini verso chi detiene il potere. Anche quando in città si cominciano a vedere soldati e poliziotti con mascherine e attrezzature di rilevamento radioattivo la paura non serpeggia. Probabilmente è un'esercitazione... niente di serio.

Intanto, a tre chilometri e lontano da occhi indiscreti, la mattanza prosegue. I pompieri cadono a decine, preda di vomito e di strane ustioni. La morte è quasi immediata, in una deformazione e trasformazione fisica che ha del malefico. Occorre celare, nascondere oltre ogni possibilità. Quello che succede non sta succedendo. La pelle brucia, cambia di colore, si riempie di paghe che rendono glabri i crani. Che diavolo si sta combattendo? Si decide il trasferimento a Mosca dei primi contaminati, ma ai parenti si dice che va tutto bene. È tutto sotto controllo. In Unione Sovietica le cose non possono andare storto, mica siamo in un paese capitalistico. Il fuoco però divampa, rilascia uno strano colore nel cielo. Uno spettacolo di morte così eloquente da indurre i cittadini ad ammirarlo di notte dai ponti, alla stregua di una manifestazione pirotecnica. Nessuno comprende cosa stia succedendo. Il nucleare è sicuro, lo hanno detto fior fiori di luminari ed è fonte di benessere e di privilegi, non può essere un nemico. Neppure 36 ore dopo, quando arriva l'ordine di evacuazione, si intuisce il disastro. “Sarete evacuati per appena tre giorni” ripetono i megafoni che echeggiano in città. Un infinito schieramento di bus giunge da ogni parte della Russia. È una misura precauzionale, soprattutto per il benessere dei bimbi ma, sia chiaro, niente per cui preoccuparsi. Almeno, così dicono e se lo dicono loro, c'è da stare tranquilli, si è pur sempre cittadini di una super potenza. L'evacuazione è tuttavia imposta, prima a Prip'yat e poi nelle campagne limitrofe. Gli animali non possono esser portati, giusto per non creare confusione e stressarli inutilmente. 47.000 sfollati, solo a Prip'yat, ma per un gita di qualche giorno e poi, cascasse il mondo, tutti potranno fare ritorno. Sanchez non è sensazionalista, come potreste pensare leggendo queste righe, anzi. Calibrato, essenziale ed efficace. Mostra quanto è sufficiente per delineare la portata della tragedia e lo fa portando il lettore a immedesimarsi. Protagonisti sono i cittadini costretti ad abbandonare le proprie case, i propri effetti personali. Si vede una ragazzina che tiene stretto al petto il suo cagnolino. Non vuol separarsene. "Non me ne andrò senza di lui." Un militare però le garantisce che penserà lui ad accudirlo. E' gentile, ha persino una ciotolina. Mentre il bus si avvia sul cammino verso Kiev, l'animaletto viene abbattuto dal militare dietro un'abitazione. “Non ne deve rimanere vivo nessuno. Trasportano le radiazioni nel pelo” la sentenza è eseguita. 

È tempo dei liquidatori, giovani uomini costretti a salvare il salvabile in una gara contro il tempo e contro un mostro che minaccia di rivoluzionare la vita, non solo dell'Unione, ma di tutto il mondo. Compiere l'impresa equivale a una sentenza di morte, ma molti ancora non lo sanno e anche se lo sapessero non avrebbero scelta. Siamo in Unione Sovietica, non nel paese del bengodi. Qui non si pensa o si crede, qui si eseguono gli ordini. Su Prip'yat la radioattività tocca un livello cinquecento volte superiore a quello abituale. È una maledizione invisibile, letale e insapore che ferma anche i robot, pizzica la pelle dando la sensazione di tramutasi in gocce d'acqua vomitate da un cielo plumbeo che osserva imparziale la disfatta della scienza. Il tempo continua a scorrere, implacabile. A ogni ora la porta dell'inferno si fa più vicina, imminente, perché il nocciolo scende e va giù, sempre più giù, nel ventre della Terra. Il seme infetto pronto a generare morte, concependo l'aberrazione in uno stupro non tollerato dalla natura. Le falde acquifere sono minacciate e anche l'intera centrale rischia di saltare in aria. Hiroshima e Nagasaki diventano bazzecole al cospetto di quanto potrebbe succedere.Le poltrone a Mosca scottano.

Il sacrifico è l'unica via. Il miracolo, per i limiti del possibile e sotto lo sguardo dell'intero mondo, viene compiuto, a un prezzo incalcolabile in termini di vite umane. Tumori, deformazioni, cambiamenti di vita non sono quantificabili. Il governo però è categorico: i morti sono 32 ed è il mostro è imbrigliato. Omettono però di dire che sia vinto. La battaglia è solo rimandata. L'arroganza dell'uomo è stata tale da aver partorito un qualcosa la cui potenza è sfuggita di mano. È la fine di un sogno, la morte di una città che avrebbe dovuto brillare nella gioielleria del regime ed è anche il crollo dell'Unione Sovietica. I giochi sono finiti e il rimpianto e il dolore sono i fedeli compagni della malinconia. Gli Stati Uniti hanno vinto. La guerra fredda è finita.

La parte terminale della graphic novel è dedicata al ritorno nei luoghi dell'adolescenza e in quelli in cui si sarebbe dovuti nascere e vivere. Una prospettiva di vita cancellata da una sliding door che ha decretato la morte di un luogo che tutti avrebbero indicato quale astro nascente dell'Unione. Ciò che era stato sovietico ora è terra Ucraina, una sorta di museo a cielo aperto. La centrale è dismessa, ma il mostro è sempre là. Silente, ma ancora cattivo e pronto a fare morti. Vediamo il ragazzo, un tempo bimbo, portare la sorella, nata alcuni giorni dopo del disastro, in ciò che resta del loro appartamento. A distanza di venti anni, il ragazzo entra nella casa in cui ha passato l'infanzia. Dentro c'è ancora qualcosa di quel lontano passato. Un disegno, qualche oggetto. Il passato torna a vivere, purtroppo solo nella mente. E poi la visita sotto quella ruota simbolo di una felicità stroncata sul più bello. La lacrima scende a solcare i volti, a testimonianza di un dolore che strozza il cuore nel momento in cui si apre la pagina dell'ultimo ultimo disegno. In formato gigante, vediamo il contenuto di una scatola consegnata ai due ragazzi dai vicini dell'abitazione in cui erano a ritornati a vivere i nonni, anni dopo la tragedia. Dentro c'è il ricordo della spensieratezza dei giorni felici, di una vita che non è stata e soprattutto c'è una foto... la foto di famiglia sotto quella ruota panoramica pronta a entrare in funzione. L'anima di Prip'yat non c'è più, della città resta il solo scheletro.

Che dire... Cernobyl – La Zona è una graphic novel da regalare a un pubblico molto giovane, un'occasione per cercare di spingere le nuove generazioni a documentarsi sull'evento. Un modo per ricordare e non dimenticare, una lettura da cui partire per documentarsi in modo più approfondito. Non ci sono pretese autoriali, non c'è un'attività di indagine per ricostruire i motivi che hanno portato al disastro. Al centro ci sono i cittadini, le conseguenze che hanno dovuto subire e il dolore di aver perduto tutto. Il sogno si è tramutato in un incubo da cui, ogni giorno, Prip'yat spera di risvegliarsi, aprendo gli occhi al sorgere del sole, per rivedere i suoi ordinati viali alberati curati dai giardinieri, le auto divorare l'asfalto,i bimbi che giocano per le vie e quella ruota che volteggia tra applausi e risate sopra la pista dell'autoscontro. In una vita alternativa, ne siamo certi, Prip'yat vive. 

I due autori.

 

Nessun commento:

Posta un commento