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lunedì 18 aprile 2022

Recensione Narrativa: L'ULTIMO UOMO di Mary Shelley.

Autore: Mary Shelley.
Titolo Originale: The Last Man.
Anno: 1826.
Genere: Fantascienza / Drammatico.
Editore: Jouvence (2020).
Pagine: 592.
Prezzo: 19.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

UN INSUCCESSO COMMERCIALE

The Last Man è un classico di Mary Shelley, la celebre autrice di Frankenstein, rimasto per anni introvabile persino in Inghilterra pur se uscito con grandi auspici. Non a caso Mary Shelley lo ha sempre definito la sua migliore opera. Pubblicato a Londra, il 23 gennaio del 1826, dopo un interesse addirittura internazionale (pubblicato lo stesso anno a Parigi e nel 1833 a Filadelfia), motivato dai successi marcati sia dal romanzo che dall'adattamento teatrale del Frankenstein, The Last Man è caduto vittima di un'eclissi durata circa centoquaranta anni. Si pensi che in Italia, pur essendo libero da diritti di autore, è arrivato solo nel 1996 grazie all'impegno delle Edizioni Danilo che hanno avuto il merito di anticipare, di un anno, la Mondadori. Romanzo imponente, circa seicento pagine, scritto con uno stile poetico e ridondante, è stato stroncato dalla critica coeva che lo definì “il prodotto di un'immaginazione malata e di gusto assolutamente corrotto” (The Monthly Review) o “un elaborato pezzo di cupa follia” (The London Magazine). Opinioni che contribuirono, non poco, a decretarne il totale insuccesso, sia di critica che economico. Invenduto sugli scaffali ed evidente motivo di imbarazzo per la Shelley, quasi al punto da impedirle di ripresentarsi sul mercato. Al fine di accedere a successive proposte editoriali, la Shelley si trovò costretta, a ogni sua nuova proposta, ad assicurare agli editori di aver scritto un nuovo libro “con migliori possibilità di successo rispetto a The Last Man”.

Tuttavia, come ben sanno coloro che si interessano di critica letteraria e cinematografica, il tempo è la giusta misura di ogni cosa. Rispolverato in Inghilterra nel 1965, dopo le fortune della narrativa post apocalittica sulla scia di romanzi quali I Am Legend (“Io Sono Leggenda”, 1954) e film come L'Ultimo Uomo della Terra (1964), The Last Man ha avuto modo di ottenere apprezzamenti ed elogi prima di allora mai sospettati da alcun amante del genere, così da vivere nuova vita. La cosa non deve sorprendere. Pur se estremamente denso e infarcito di riferimenti autobiografici caricati di una drammaticità fin troppo manifesta, è innegabile il contenuto innovatore e antesignano tanto da farne un precursore del sottogenere apocalittico e post apocalittico.


GLI ANTENATI DEL GENERE

In realtà la Shelley non ha inventato nulla, per quanto concerne il contesto e l'idea di realizzare un'opera sulla fine del mondo. Molti sono i precursori che dimostrano un certo interesse, nel primo ventennio dell'ottocento, alla tematica.

Una delle principali ispirazioni arriva dal romanzo Le Demier Homme (1805), del prete cattolico francese Jean Baptiste Cousin, tradotto in Inghilterra nel 1806. Da quest'opera Mary Shelley riprende l'idea della profezia decriptata, all'interno di una grotta, dagli uomini del presente e vertente sul destino finale dell'umanità. Caricata di un evidente spirito religioso, l'opera di Cousin mostra le vicende dell'ultimo uomo della terra che vaga in cerca di compagnia. A differenza del romanzo della Shelley, che si chiude nell'indeterminatezza più assoluta, il protagonista di Cousin incontra l'ultima donna ma l'ammonimento di Dio lo porterà a rinunciare all'accoppiamento, poiché la natura della razza umana è maligna ed è opportuno riscattare l'episodio della cacciata dall'Eden così da vincere le tentazioni della carne e ascendere al cielo.

Scenari apocalittici erano altresì ravvisabili nelle poesie Darkness (1816) di Lord Byron, in cui si immaginava un'umanità spazzata via dal progressivo spegnimento del sole, e The Last Man (1822) di Thomas Campbell, oltre che nella ballata di Thomas Hood, ancora una volta intitolata The Last Man (1826), incentrata, alla stessa maniera del romanzo della Shelley, sullo strazio dell'unico uomo sopravvissuto a un'epidemia di peste, dopo che gli ultimi due superstiti hanno deciso di fronteggiarsi l'uno contro l'altro.

LA STRUTTURA

Mary Shelley articola il romanzo in tre parti, le cui prime due incentrate sulle caratterizzazioni dei personaggi e su aspetti di fanta-politica che, probabilmente, ispireranno autori quali Bram Stoker e romanzi come The Lady of the Shroud (“La Dama del Sudario”, 1909). In questa parte l'opera si incentra sul valore centrale dell'Inghilterra quale forza internazionale capace di tutelare e promuovere l'indipendenza degli altri stati europei (nella fattispecie la Grecia) contro il pericolo turco (ottomano). Un ruolo che, nella realtà, sarà sottratto all'Inghilterra dagli Stati Uniti (qua rappresentati quali gretti e pericolosi). Protagonisti sono i rappresentanti inglesi, vicini alla corona d'Inghilterra (nel frattempo sostituita da una Repubblica), che conducono una guerra a Costantinopoli caratterizzata da tecniche e armamenti tipicamente ottocenteschi. Centrali divengono i rapporti sentimentali, le storie di amore dove le donne (a differenza dei romanzi di Stoker) restano ai margini, infelici, al fianco di uomini che, seppur eroici e rappresentanti dei grandi ideali della società borghese dell'ottocento, antepongono l'interesse collettivo a quello familiare (da questo approccio, metaforicamente, si diffonderà la peste nel mondo). Un alto senso della drammaticità accompagna questa parte, trasformandosi in una teatralità degna di un romance (si veda il suicidio della vedova che preferisce morire piuttosto che vivere nel dolore per la perdita del marito). Anche questo racconto fa parte dell'artificio costituito da una serie di scritti profetici, rinvenuti nella grotta della Sibilla (a Napoli) da una turista inglese (probabilmente la stessa Mary Shelley, in quell'anno presente sul posto in compagnia del marito Percy), che introducono a quello che sarà il vero tema del romanzo: la fine del mondo.

Solo in quest'ultima parte, la terza, dopo circa duecentocinquanta pagine, si entra nel cuore della vicenda. Dal 2073 la storia si snoda per ventisette anni, fino al 2100, tra Grecia, Turchia, Inghilterra, Francia, Svizzera e Italia. Proprio in questo si ravvede uno dei principali difetti della struttura scelta dall'autrice. A differenza di un autore come Jules Verne, la Shelley non ha alcun proposito o spunto di anticipazione, forse perché la fantascienza come noi oggi la conosciamo non era ancora presente. La visione di una società del futuro nella scrittrice inglese è totalmente assente. Non vi è alcun tentativo di immaginare le nuove tecnologie, i nuovi usi e la vita del futuro. Tutto il romanzo è imperniato da un'atmosfera tipicamente coeva alla Shelley. I personaggi si muovono appiedati o in sella a cavalli, navigano su imbarcazioni che affondano nell'Adriatico (nella traduzione italiana definito “oceano”), si parla di Roma come città afflitta dalla malaria e i combattimenti sono assalti alla baionetta.

Aspetti, forse, digeribili a un lettore dell'ottocento, ma totalmente “scaduti” al lettore del duemila (ma anche a quello del primo novecento) in quanto incompatibili alla società del futuro.

ROMANZO AUTOBIOGRAFICO

Tra gli aspetti più interessanti del romanzo vi sono i contenuti fortemente autobiografici di cui lo stesso si fa portatore.

Mary Shelley trasla nell'opera le esperienze della sua vita e forse anche per questo arriverà a definire The Last Man il suo romanzo preferito. Ne è un esempio il naufragio a largo di Ravenna dove perdono la vita due dei tre superstiti di tutta l'umanità. Il dolore, la disperazione e l'alta tragicità dell'episodio sono ben rese dalla Shelley che perse in tal modo il marito Percy, naufragato a largo di Livorno.

Mary Shelley amplifica tutto questo caratterizzando i suoi personaggi sul modello degli affetti a lei più cari, quali Percy Shelley, Lord Byron e altri effettivamente conosciuti. “Posso ben descrivere i sentimenti di quell'essere solitario, dato che io stessa mi sento come l'ultima sopravvissuta di un'amata specie, tutti i miei compagni sono morti prima di me” scrive nei suoi diari l'autrice. “Gli anni migliori della mia vita erano trascorsi con lui. Tutto quello che io avevo posseduto, ricchezze, felicità, conoscenza, virtù lo dovevo a lui. Con la sua persona, il suo intelletto e le sue qualità eccezionali, aveva dato alla mia vita uno splendore che senza di lui non avrei mai conosciuto.” dice uno dei protagonisti del romanzo, rappresentando la stessa autrice che pensa al marito.

Il dolore e il senso di solitudine che giostrava le sorti del Frankenstein tornano all'ennesima potenza in questo romanzo, quasi a voler sottolineare il disagio di Mary Shelley nel non essere più capace di provare un nuovo grande amore. Il protagonista vede morire la propria donna e i propri figli (sorte in comune con l'autrice), oltre che l'amico del cuore (nientemeno che l'erede alla corona d'Inghilterra) e tutto il resto del mondo. Si ritrova pertanto a vagare per l'Italia e altri luoghi cari a Mary Shelley, contemplando opere d'arte e libri raccolti nelle tante biblioteche e librerie rimaste incustodite. Tutto questo però non basta.

Nel vedere gli animali che vivono come se niente fosse successo, dal momento che la tragedia riguarda solo la razza umana, il protagonista dice: “Soltanto io non ho un compagno a cui esprimere i miei molteplici pensieri... Sono soltanto io a essere solo io...Essi non hanno forse delle creature che gli sono simili? Non ha ciascuno di loro il proprio compagno?” Ecco che il rimando autocitazionista a Frankenstein è palese e lo è ancor più nella scena in cui il protagonista, sul finire dell'opera, si vede riflesso in uno specchio non riconoscendosi più. Al suo cospetto ha una sorta di mostro, uno spauracchio della gloriosa civiltà perduta. L'uomo è ormai divenuto leggenda allo stesso modo dei dinosauri, un qualcosa di mostruoso in un mondo che vive meglio senza la sua presenza ingombrante. Animali e vegetazione prendono possesso delle grandi città, utilizzando le case quali nidi o rifugi, mentre il protagonista vaga tracciando con vernice dei segnali che possano indicare ad altri eventuali superstiti un segnale di vita. “Un tempo l'uomo era il beniamino del creatore...Dov'erano la sofferenza e il male? Non nell'aria calma o nell'oceano tumultuoso, non nei boschi o nei fertili campi, né tra gli uccelli che facevano risuonare nei boschi le loro canzoni, né tra gli animali che nel pieno dell'abbondanza si crogiolavano al sole.

Trapela l'amore per l'Italia, ci sono citazioni dirette a città come Pisa in cui l'autrice ha vissuto, ben esemplificate da frasi quali “Roma: incomparabile monumento del mondo”. Ancora una volta, come era in uso alla letteratura gotica di inizio ottocento, il fantastico fa tappa in Italia e sulle sponde del Mediterraneo, visti (contrariamente a quanto si è soliti pensare) quali luoghi prediletti per queste storie, un po' come già fatto da Horace Walpole, Matthew G. Lewis, Ann Radcliffe e John Polidori.

 

LA MALATTIA

A differenza di altri autori, tipo Albert Camus (“La Peste”), la Shelley non analizza nei particolari la malattia. Si sa poco o nulla di questa. Si parla di peste, ma i dettagli sono assenti. Sappiamo che la mortalità è ben superiore a quella della malattia conosciuta, visto che da questa non è possibile guarire e la mortalità è del 100%. Solo il protagonista ne viene colpito e misteriosamente riesce a vincerla. Tutti gli altri, colti da intensa febbre, muoiono dopo alcuni giorni di agonia. I vettori di trasmissione sono sconosciuti, ma tali da investire l'intero mondo sebbene gli spostamenti avvengano molto lentamente (aerei, mezzi meccanici motorizzati e vaporetti sembrano non esistere). Domina ancora l'idea del miasma contagioso. “L'aria è avvelenata, ogni essere umano inala la morte” si legge, suggerendo l'idea che farà fortuna con The Purple Cloud (“La Nube Purpurea”, 1901) di Matthew P. Shiel. Viene menzionata una leggenda metropolitana, dal retrogusto weird e fantastico che evidenzia lo spiccato estro visionario dell'autrice e che sembrerebbe suggerire un ruolo magico o trascendente alla base dell'arrivo della peste. “Si diceva che, prima di mezzogiorno, il 21 di giugno si fosse levato un sole nero; un orbe dalle dimensioni di quell'astro, ma scuro, ben definito, i cui raggi erano delle ombre, si era levato da occidente (moto dunque contrario rispetto al sole); nel giro di circa un'ora aveva raggiunto il meridiano ed eclissato il luminoso genitore del giorno. La notte era caduta su ogni paese, la notte improvvisa, oscura totale. Erano spuntate le stelle, che sparsero il loro vano scintillio sulla terra vedova della luce. Ma presto l'orbe oscuro era passato oltre il sole e aveva indugiato in basso, a est, nella volta celeste. Mentre discendeva, i suoi foschi raggi avevano incrociato quelli brillanti del sole e li avevano affievoliti o distorti. Le ombre delle cose avevano assunto forme strane e spettrali. Gli animali selvaggi nei boschi si erano spaventati di fronte alle ombre sconosciute che si proiettavano a terra. Erano fuggiti senza sapere dove, e gli abitanti delle città erano stati presi dal più profondo terrore, dallo sconvolgimento che spinse i leoni nelle strade civili. Uccelli e aquile dalle ali potenti, improvvisamente accecati, erano caduti sulle piazze dei mercati, civette e pipistrelli erano usciti fuori a dare il benvenuto alla notte precoce. A poco a poco il corpo pauroso sprofondò dietro l'orizzonte, e fino all'ultimo proiettò i suoi raggi di tenebra nell'aria altrimenti radiosa. Questa era dunque la storia giuntaci dall'Asia, dall'estremità orientale dell'Europa...”

Pur non approfondendo la questione, la Shelley dimostra di conoscere la tematica peste, poiché cita Daniel Defoe (“A Journal of the Plague Year”) e utilizza la guerra quale condizione che agevola la diffusione del male. In quest'ultimo aspetto però è da ravvisare un utilizzo della peste in chiave metaforica quale “male che porterà alla fine dell'uomo” ovvero l'egoismo e l'ambizione alla scalata sociale, atteggiamenti (alla base della guerra) che portano all'inevitabile subordinamento della famiglia (reputata sacra dalla Shelley e centrale) a un ruolo secondario, sacrificata in favore di battaglie, politica e grandi ideali sociali. Se ne percepisce il disagio dell'autrice, un rammarico per la sua condizione di vita e, probabilmente, una critica a Percy Shelley (per altri versi esaltato per le virtù intellettuali, così come sono esaltati i protagonisti del romanzo).

A migliaia morirono senza esser compianti, perché al cadavere ancora caldo giaceva disteso, reso muto dalla morte, chi quel morto piangeva” si legge.

Come raccontato da Manzoni, anche qua le autorità, sulle prime, cercano di dissimulare i sintomi, lasciano i negozi aperti e garantiscono gli spostamenti dei viaggiatori, perché il denaro è il primo aspetto che si cerca di tutelare. Alla fine però l'isolamento diviene inevitabile ma, prima di questo, si assiste a un fenomeno incontrollato di migrazione in Inghilterra (visione profetica) da parte dei cittadini degli stati del sud Europa flagellati per primi dal morbo. Gli accordi di Boris Johnson con il Ruanda non fanno parte della profezia ed ecco concretizzarsi il fallimento delle banche e dei mercanti, i primi a pagare i sintomi commerciali dovuti al blocco delle esportazioni e importazioni. Il senso del dovere viene meno. Si smette di lavorare e di studiare, ma non di abbandonarsi alla dissolutezza e ai divertimenti. Chi si ammala viene abbandonato a sé stesso, lasciato indietro nei trasferimenti proprio come avverrà ai contaminati di The Scarlet Plague (“La Peste Scarlatta”) di Jack London.

Campi ricoperti di erbacce, città desolate, cavalli senza cavaliere che si avvicinavano selvaggi erano ormai diventati abituali ai miei occhi; anzi, visioni molto peggiori, di morti che non erano stati seppelliti, e di corpi umani sparpagliati ai bordi delle strade...” In tutto questo, l'uomo non riuscirà a frenare il suo impulso teso a conquistare una posizione di dominio sull'altro. Pur ridotti a poche migliaia, ovviamene inglesi che poi si spostano in una Francia ormai ricoperta di cadaveri abbandonati sulle strade, gli ultimi superstiti finiranno col dividersi in due grandi gruppi uno dei quali gestito da un sedicente profeta intenzionato a muovere guerra contro l'altro. Un'idea che rispecchia la filosofia di Thomas Hobbes (teoria dell'homo homini lupus) e che anticipa la base su cui Stephen King stenderà il suo The Stand (“L'Ombra dello Scorpione”).

Impossibile poi non pensare a I Am Legend di Richard Matheson nella parte finale in cui il protagonista si muove con un cane al seguito oppure passeggia per le vie di Roma come farà il protagonista del film L'Ultimo Uomo della Terra (1964) di Ubaldo Ragona. L'epilogo, indeterminato e disperato, resta in sospeso, aperto a un destino che potrebbe essere anche ristoratore (il sole, del resto, continua a splendere nel cielo). Il protagonista sale a bordo di un'imbarcazione e si dirige verso l'Atlantico, alla disperata ricerca di una compagna. L'idea che possa trovarla, però, è difficile da ipotizzare, dal momento che i superstiti americani, prima di morire, si sono spostati in massa in Irlanda e poi in Inghilterra con un atteggiamento che ricorda molto quello dei pionieri del far west contro le popolazioni native (traspare un'immagine degli americani quali guerrafondai), trovando però pane per i loro denti.

CONCLUSIONI

The Last Man è un'opera assai voluminosa che avrebbe beneficiato di una revisione tesa ad alleggerirne la massa e a snellire la disperazione. La Shelley si fa prendere dalla propria condizione sentimentale, dall'impulso di esprimere e tentare di esorcizzare con la scrittura il suo dolore. Purtroppo questa impostazione rende in molte parti il testo assai pesante e ridondante, difficile da digerire per il suo insistere sulle sensazioni del protagonista e sugli aspetti legati al distacco dai propri cari, ma anche per sulla disperazione e sul pessimismo cosmico. Ne viene a risentirne il ritmo, completamente piegato dall'esigenza di abbondare nelle caratterizzazioni dei personaggi con pagine e pagine che ingessano il prosieguo della storia.

La Shelley dichiara apertamente lo spunto che è alla base della stesura del romanzo, confessando di essersi fatta prendere la mano. “All'inizio pensai di parlare solo della peste, della morte e, alla fine, dell'abbandono; ma mi soffermai con tenero affetto sui miei primi anni, e ricordai con sacro ardore le virtù dei miei compagni.

Ciò premesso, il testo è fondamentale per lo studio dell'autrice e per il successivo sviluppo del genere apocalittico e post apocalittico, un branca della fantascienza (e dell'horror) che deve molto a questa opera. Per l'epoca in cui è stato scritto, The Last Man ha tutte le caratteristiche che avrebbero potuto decretarne un grosso successo. Ha scontato il suo essere, per certi versi, troppo moderno (rispetto all'uscita) e, per altri, troppo vecchio per essere apprezzato dal grande pubblico di oggi. Il suo non esser stato concepito quale romanzo di anticipazione infatti, è un difetto troppo evidente. Diviene così una sorta di memento mori teso a evidenziare quali siano le cose da perseguire durante la vita e, al tempo stesso, riflettere sulla condizione dell'uomo, in un'ottica pacifista e orientata alla contemplazione del bello e alla ricerca dell'amore. Romanticismo e dramma trasudano da ogni pagina, aiutate da uno stile ampolloso tendente al poetico più smodato. A ogni modo e seppure a quasi due secoli dalla sua stesura è diventato un classico anche in Italia, raccolto, tra gli altri, nella collana I Primi Maestri del Fantastico.

 
L'autrice MARY SHELLEY
 
 
"La morte non è morte, e l'umanità non è estinta, ma semplicemente passata ad altre forme che non si assoggettano alla nostra percezione. La morte è una grande porta, una strada maestra per la vita: affrettiamoci dunque a passare, cessiamo di esistere in questa condizione di morte in vita e affrontiamo la fine per poter vivere!"

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