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domenica 5 agosto 2018

Recensione Narrativa: UN FRAMMENTO DI VITA / IL POPOLO BIANCO di Arthur MAchen.



Autore: Arthur Machen.
Titolo Originale: A Fragment of Life / The White People.
Anno: 1904.
Genere: Dittico Fantastico.
Editore: Edizioni Hypnos, 2018.
Traduzioni: Elena Furlan.
Pagine: 234.
Prezzo: 21,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Torniamo a interessarci della collana Biblioteca dell'Immaginario delle Edizioni Hypnos di Andrea Vaccaro con una pubblicazione dell'anno ancora in corso.
Ci imbattiamo così in un dittico di racconti, più un racconto brevissimo inedito in lingua italiana posto a corredo dell'opera, che evidenziano il pensiero filosofico di uno degli scrittori più importanti del panorama orrorifico di primo novecento. Stiamo parlando di Arthur Machen, autore gallese affiliato all'Ordine Esoterico della Golden Dawn, su cui ci siamo già soffermati nel corso delle nostre peregrinazioni narrative.
L'occasione odierna ci è propizia per elogiare il lavoro della casa editrice, seppur a metà, per aver rispolverato dall'oblio un imporante inedito scritto da un Machen ai tempi del maggior fulgore. Ho scritto "a metà" perché, a mio avviso, sarebbe stato preferibile associare alla giusta e meritoria riscoperta di un racconto sconosciuto dal pubblico di lettori italiani (eccettuati i puristi della lingua inglese) un ulteriore racconto inedito, in luogo del conosciutissimo (per i lettori di Machen) The White People. Vaccaro spiega il motivo della scelta, reputando (non a torto) complementari i due testi che evidenziano, in ambo i casi, la necessità dell'uomo superiore (la c.d. grande tente) di manlevarsi dal materialismo sociale che ha, di fatto, appiattito i valori e reso cieca la razza umana.
"Stregoneria e santità, queste sono le sole realtà. Ciascuna è un'estasi, un ritirarsi dalla vita comune" così si apre il racconto The White People e così, ci sembra di poter dire, dimostrano le Edizioni Hypnos presentando due racconti, scritti l'uno a seguito dell'altro, che incarnano le due diverse categorie a confronto. Due distinte visioni, entrambe lodevoli rispetto all'inerzia dell'uomo del novecento (e di quello del duemila), che, a loro modo, si innalzano sulla banalità della vita contemporanea fatta di "creature indifferenti e spaesate che vivono al mondo senza rendersi conto del significato del senso profondo delle cose."

Il primo dei due racconti, quello inedito in lingua italiana, A Fragment of Life, viene dato alle stampe nel 1904 sulla rivista Horlick's Magazine da Arthur Machen, ma ha una gestazione assai lunga e risulta esser stato completato con importante scarto temporale tra il suo inizio e la relativa fine. L'autore gallese lo inizia a scrivere nella prima metà del 1899, quando ha già alle spalle molti dei suoi più famosi successi, tra i quali Il Gran Dio Pan (1894) e i racconti de I Tre Impostori (1895). La stesura dell'inizio è veloce e procede senza battute di arresto. Completato il primo capitolo però, complice problemi familiari, Machen interrompe la stesura. Il testo finisce nel dimenticatoio pur continuando a ronzare nella mente dell'autore che, cinque anni dopo, decide di riprenderlo in mano non appena terminata la stesura del racconto Il Popolo Bianco (1904). Rimessosi al tavolino armato di penna, il gallese completa l'opera in pochi mesi, ma qualcosa non lo convince. Lotta col testo, cerca una convincente conclusione, eppure resta sempre insoddisfatto. Confeziona un finale di circostanza, che sa più di resoconto giustificativo del testo che precede, vergato in stile totalmente diverso rispetto al racconto fin lì sviluppato. Pur non soddisfatto dal risultato finale, Machen presenta l'elaborato a una rivista, così da raggranellare qualche sterlina. La lettura del racconto, a ogni modo, lo lascia assai perplesso tanto da portarlo a bocciare l'epilogo giudicandolo, a ragione, “rabberciato e pessimo”. Intenzionato a offrire un finale migliore a un elaborato dotato di potenzialità inespresse, l'autore torna a ragionare sul testo e riesce a trovare un epilogo che faccia al caso. Sostituisce così l'intero quarto capitolo con uno nuovo e ripubblica il tutto nella raccolta The House of Souls, che vede la luce nel 1906. Il responso che gli viene offerto dai lettori è più che soddisfacente. Qualcuno arriva a giudicare il lavoro come il miglior testo firmato Machen, aspetto che inorgoglisce e non poco l'autore solitamente attaccato (in modo becero) dalla critica. “Da molte parti mi è giunta assicurazione che sia la cosa migliore che abbia mai scritto” ricorderà in sede di presentazione. Un'opinione che può trovare solo parziale adesione, a nostro avviso, poiché se il romanzo manifesta un importante contenuto filosofico, di certo non offre uno spunto tale da incollare i lettori alle pagine. Pur essendo scorrevole e scritto in modo elegante, pecca in svariati punti di pathos tanto da offrire l'idea, nelle prime pagine, di essere alle prese con un romanzo rosa o comunque con un testo teso a evidenziare momenti di vita familiare del primo novecento inglese (da qui la scelta del titolo). Ciò premesso, scendiamo nel merito. 

Romanzo breve, diviso in quattro capitoli per poco meno di centodieci pagine. Si tratta di un elaborato a grande intensità mistica, caratterizzato da un preminente imprinting filosofico che domina sulla narrativa considerata in senso stretto. È lo stesso Machen a specificare quale debba essere, a suo modo di vedere, il ruolo di un romanzo degno di tal nome, vale a dire “tentare di esporre la verità sulla natura autentica dell'uomo, quella verità che non potrà mai esser detta in altro modo dal momento che vi sono dei segreti che possono esser svelati soltanto per mezzo di simboli.” Se questo è il fine ricercato da Machen non si può che concludere che A Fragment of Life centri appieno la funzione a cui è chiamato ad adempiere. L'autore, infatti, utilizza il canale comunicativo del racconto per offrire la propria visione trascendente della vita, sovraordinando la stessa visione alla filosofia materialista che imperversa nella società moderna. Il maestro vuol così comunicare al lettore la necessità di ritornare alle origini e di liberarsi dalle catene della vita comune, costituite dalla visione capitalistica, viste quali freni inibitori per lo sviluppo dell'anima.
Machen vede nell'evoluzione storica della razza umana un decadimento spacciato per progresso. “Una moltitudine di influenze si sono combinate per mutare una razza di sommi pontefici in una di galeotti” è la sentenza che si legge nel corso del testo. La razza umana viene così vista quale razza divina, per il suo essere in potenziale armonia con la natura, da intendersi quale forza medianica che pone in relazione l'uomo col divino. Una posizione privilegiata che però l'uomo ha perso, inseguendo valori e bisogni prettamente terreni, del tutto insulsi al fine di cogliere il vero senso dell'esistenza. Il traguardo dell'uomo, suggerisce a livello subliminale Machem, non è da cogliere nella vita terrestre, piuttosto nell'ulteriore (ovvero quella celata alla vista) ed è da raggiungere riuscendo a purificare in vita l'anima e guarire le dolorose ferite dello spirito.
Il mondo intero non è che una grande cerimonia o sacramento, che insegna in forme visibili una dottrina nascosta e trascendente.” Vien da se che per poter cogliere gli insegnamenti di questa dottrina occorre risvegliare la luce che alberga all'interno di ogni uomo e che è stata ottenebrata dagli insegnamenti dettati dalla società capitalistica figlia della rivoluzione industriale. “Ci hanno insegnato che potevamo diventare saggi studiando libri sulla scienza, ma coloro che si sono sbarazzati di queste assurdità sanno che non si devono leggere libri di scienza, ma messali, e che l'anima è resa saggia dalla contemplazione di cerimonie mistiche e riti elaborati e bizzarri.” Vediamo dunque espressa da questa citazione la dicotomia dettata tra il contrasto tra il mondo spirituale e quello materiale.Ci hanno assicurato in continuazione che il vero mondo era quello visibile e tangibile, il mondo in cui un solido e onesto lavoro poteva esser barattato con una certa quantità di pane, manzo e spazio abitabile e che l'uomo che non perdeva denaro in modo sciocco era un uomo buono che adempiva al fine per cui era stato creato.” Machen, per tramite dell'alterego protagonista del racconto, specifica invece che “l'uomo è creato mistero per misteri e visioni, per la realizzazione nella sua coscienza della beatitudine ineffabile, per una grande gioia che trasforma il mondo intero e sconfigge ogni dolore.” Non aver compreso questo o, ancor peggio, aver cercato di trovare una chiave di lettura diversa, per Machen, ha comportato l'impoverimento dei valori con conseguenziale, seppur inconscio, stato di infelicità mentale che ha indotto l'uomo a regredire al rango di bruto sotto ogni punto di vista (dalla musica, al lessico adottato fino al modo di vivere e di intendere il creato). Nel quarto capitolo originario, poi tagliato (ma riproposto dalla Hypnos nelle ultime pagine del libro), Machen, peccando di didascalismo, chiarifica alcuni concetti che nella versione definitiva, come giusto che sia, restano sfumati. Scrive che “la felicità è una condizione puramente mentale” e che il servo della gleba di un tempo era molto più felice degli impiegati della società industrializzata, perché “la fede assoluta e incondizionata nella lettera dogmatica si dimostrava essere la via per la vera conoscenza dello spirito”. Nel 1900 (figurarsi nel 2000) gli uomini pensano di aver superato certe versioni arcaiche, eppure non si rendon conto di perdersi a ragionare su aspetti banali privi di ogni prospettiva ascetica. Machen riesce a trasmettere questa insulsità nei primi capitoli del romanzo. La vita di tutti giorni - fatta di scelte di rapporto di coppia, elettrodomestici da sostituire, management familiare, routine lavorativa, gestione dei risparmi, tradimenti amorosi e litigi con i vicini - viene qualificata addirittura quale il contrario di quella che dovrebbe essere. “Viveva in quel grigio mondo spettrale, affine alla morte, che è riuscito a ottenere di esser chiamato vita dalla maggior parte di noi... scambiando la morte per vita, la follia per buonsenso, e spettri vaganti senza scopo per esseri reali.” Ecco che allora occorre sfuggire da questa presunta realtà, vedere il mondo con occhi diversi, ricercare la bellezza nella naturalezza dell'ambiente incontaminato che ci circonda, poco oltre le vie urbane e il chiasso quotidiano. Solo così si potrà superare lo stato di ignoranza che soffoca l'uomo moderno, abbindolato dalle frivolezze dell'industrializzazione, così da recuperare il sapere arcano necessario a fendere il velo che impedisce di accedere al vero traguardo cui è diretta la vita dell'uomo ovvero la conquista del Graal, un concetto metaforico da intendersi quale luce eterna che permette di realizzare la visione perfetta del creato. Questa è la vera ricchezza da perseguire, l'onniscenza totale e la pace dei sensi. “Quello che ho visto è ancora lì, ma né la gente in ufficio né gli altri sembrano aver visto le cose che ho visto io” sostiene il protagonista “quelle cose si presentarono ai miei occhi in una nuova luce, come se stessi indossando gli occhiali magici della favola.” Ecco allora che “la realtà non è una questione di cucine economiche, di risparmiare qualche scellino o di interrogarsi circa il fatto se il rabarbaro sia un frutto o un vegetale”, questa è solo una visione superficiale dettata “dalla pressione dell'opinione accreditata rivolta a soffocare la vera conoscenza” e così radicata da consentire il recupero della verità solo con un percorso assai angoscioso e tribolato. Machen rincara la dose scrivendo che l'uomo “si interessa a questioni a cui non si sarebbe mai dovuto interessare, che sta perseguendo scopi che non avrebbe mai dovuto perseguire, che sia come una pietra fatata di un altare che fa da parete a un porcile. La vita è una grande ricerca...”

È un Machen ottimista e naturalista, ma soprattutto spiritualista quello che traspare dalle pagine di quest'opera. L'autore utilizza così lo strumento narrativo per sviluppare la sua visione di una realtà mendace che cela la vera realtà a cui dovrebbe mirare la ricerca dell'uomo. Machen qua non mira all'intrattenimento, bensì al sovvertimento della realtà di tutti i giorni da operare con l'adesione e la comprensione del meraviglioso mondo legato alle tradizioni antiche, una via da intraprendere instaurando un filo diretto con la natura necessario per risvegliarsi dal sonno e manlevarsi dalla sovrastruttura materialista imposta dall'opinione prevalente nella società moderna.
Ne deriva un romanzo che si distingue in modo netto dalla classica narrativa weird per rientrare nel filone mistico e iniziatico proprio della filosofia macheniana, che proseguirà con La Collina dei Sogni (1908), Il Grande Ritorno (1915) e Il Segreto del Graal (1922), con fortissima impronta spiritualistica. Ecco allora che A Fragment of Life diviene un'ottima occasione per approfondire lo studio dell'autore, un elaborato recuperato dalla Hypnos che consente agli studiosi di fantastico di avviare ulteriori percorsi di studio su una figura di importanza monumentale per il genere, ma che difficilmente potrà generare gli entusiasmi dei lettori comuni, in special modo coloro che definiscono (assai superficialmente e con scarso spirito critico) una certa narrativa con l'epiteto “horror.” Il romanzo è un vero e proprio percorso di risveglio del protagonista che, grazie ai vagabondaggi per le vie periferiche di Londra (soluzione che ispirerà nel 1924 la stesura di The London Adventure or the Art of Wandering), riesce a richiamare antichi episodi di gioventù che gli permetteranno di recuperare impressioni e sensazioni legate all'ambiente campestre e agricolo. “In quel lontano giorno d'estate, un incantesimo (dovuto al contatto e alla contemplazione della natura, ndr) aveva pervaso tutte le cose comuni, tramutandole in un grande sacramento, facendo risplendere le opere terrene con il fuoco e la gloria della luce eterna” un ricordo lontano, che assumerà valenza profetica di quel percorso che il protagonista riuscirà a completare, grazie anche allo studio delle proprie origini genealogiche, così da centrare il fine ultimo per cui era stato creato.

Copertina inglese del romanzo breve
Un Frammento di Vita.

Ha indubbiamente bisogno di minori presentazioni il secondo racconto rispolverato dagli "amici" della Hypnos. Scritto anch'esso nel 1904, The White People costituisce uno dei fiori all'occhiello della produzione orrorifica e, al tempo stesso, fatata di Arthur Machen. Non a caso, Adalberto Cersosimo la definisce, nella Guida alla Letteratura Esoterica, "una storia all'apice dell'estetismo macheniano dell'orrore."
Pubblicato già in svariate antologie, con titoli quali Il Popolo Bianco o Le Creature Bianche, il racconto torna a esser riproposto in una nuova traduzione che segue quella (a mio avviso ottima)  realizzata nel 1982 da Giuseppe Lippi inclusa nell'imperdibile antologia Il Gran Dio Pan e Altre Storie Soprannaturali e poi confluita nell'antologia collettiva I Miei Orrori Preferiti (1994) per la Newton & Compton.

Il Popolo Bianco, alias The White People (1904), è, a mio avviso, il capolavoro dello scrittore gallese. Un testo molto apprezzato anche da H.P. Lovecraft che lo valutava superiore, per atmosfera e pregio artistico, al più noto Il Gran Dio Pan. Allineandomi a quanto detto dal maestro di Providence, il sottoscritto rileva, oltre a una resa superiore sul versante onirico/fantastico, una maturità autoriale più accentuata rispetto ai precedenti impegni di Machen. Inoltre, grazie a una premessa iniziale, appare esplicita l'intenzione di portare il lettore a interpretare quanto andrà a leggere nei capitoli successivi fornendogli fin da subito la chiave di lettura attraverso la quale decriptare il racconto che segue. Fondamentale, al riguardo, è l'eccezionale prologo che potrebbe vivere anche di vita autonoma quale saggio filosofico/spirituale. Dopo di esso viene proposta la parte narrata in cui Machen fa sognare il lettore, abbondando con descrizioni immaginifiche di scenari desolanti e immensi, con scenografie costituite da pietre animate che imprigionano volti, boschi opprimenti, canyon, accompagnate da una colonna sonora fatta di litanie e sibili di vento. E' la magia dei contorni campestri del Galles.
Si può dunque affermare che con Il Popolo Bianco Machen abbandoni le atmosfere da giallo e le ambientazioni urbane londinesi che avevano fatto da cornice alle precedenti avventure (proseguirà, in parte su questa linea, col sopra analizzato A Fragment of Life). Ciò che persiste è il taglio metaforico, lo stimolo allo studio, alla ricerca della verità e la grande passione per l'esoterico visto quale chiave per forzare la serratura dello scontato.

Abbiamo già detto che il racconto si apre con un primo capitolo a metà strada tra la filosofia e la spiritualità. Protagonisti di questa parte sono un saggio alquanto bizzarro e un suo ospite (quasi uno studente) intenti a discutere sui concetti di santità e malvagità. Entrambe sarebbero caratterizzate da una matrice comune, qualificate alla stregua di un traguardo benedetto dalla trascendenza e capace di regalare l'estasi dei sensi a chi lo completi mediante il ritiro dalla vita comune e il rifiuto delle convenzioni più banali. Eloquente, per comprendere il concetto, il seguente passaggio: "la trascendenza è prodiga con i suoi figli. Molti di loro mangiano pane e acqua, ma sono infinitamente più ebbri dell'epicureo. La vocazione per il bene così come per il male sarebbero passioni solitarie, occupazioni per anime solitarie."

Machen, da cultore dell'esoterismo, lascia intuire ai lettori la forte stima che nutre per coloro che ricercano la spiritualità, siano essi mossi da intenti malvagi o benigni, arrivando a dire che i grandi uomini, quale che sia il loro stampo morale, tralasciano la copia imperfetta e cercano l'originale perfetto. L'autore gallese arriva a specificare cosa si debba intendere per male e lo fa con grande cultura filosofica e una saggezza che può possedere solo un autentico maestro (non solo letterario). Il male, ci spiega Machen, non è quello che viene percepito dalla società attraverso le violazioni dei precetti penali o delle norme dettate dal senso etico. Gli assassini, così come i delinquenti, non sono veri peccatori, ma bestie poiché agiscono in base a impulsi negativi. Il male invece è sempre positivo, anche se opera dalla parte sbagliata. Per tale motivo è raro da riscontrare nella società moderna, addirittura molto più raro della santità in quanto più originale ed estremo. Bellissimo la descrizione che Machen fa dell'intento del male: "l'essenza del peccato sta nel dare l'assalto ai cieli con la violenza dell'uragano."
In altre parole, i peccatori sarebbero coloro che, spinti da una grande forza d'animo e dedizione nello studio, ricorrono a qualunque mezzo per trascendere ed entrare nelle più alte sfere, ricorrendo a mezzi proibiti. Il loro scopo sarebbe quello di conquistare la beatitudine e la sapienza proprie degli angeli e mai appartenute agli uomini. I santi invece, rispettosi verso Dio e più umili nel loro approccio di studio, si sforzerebbero di recuperare la felicità che apparteneva agli uomini prima della caduta, senza andare oltre. Le persone comuni invece, in quanto prive di desiderio di ascesa o di discesa (per effetto delle menzogne del materialismo) non si pongono problemi di sorta accettando passivamente la vita così come essa viene loro presentata e restando pertanto confinati nella mediocrità (evidente critica di Machen all'uomo del suo tempo). I geni, d'altro canto, avrebbero un po' del santo e un po' del peccatore, inquadrati alla stregua dei ribelli.

Attraverso i suoi due personaggi, il maestro gallese prosegue in questa disamina, che trasuda passione parola dopo parola, e arriva a dire, giustamente, che il vero peccatore (il vicario di Satana) non sarebbe facilmente individuabile dagli uomini comuni. La ragione naturale di questi ultimi difatti, essendo gli stessi ignoranti e incapaci di vedere oltre la barriera dell'apparenza a causa dell'avvelenamento dei loro spiriti determinato dal cocktail frutto dell'unione di convenzioni, cultura di massa e materialismo, sarebbe divenuta cieca e sorda. Solo i bambini, gli animali e le donne (non sono d'accordo su quest'ultima categoria, ricompresa da Machen probabilmente per ragioni confinate alla sua epoca storica), in quanto creature semplici, sarebbero immuni da tale deficienze e sarebbero in grado di individuare un vero peccatore.
Queste sono le premesse che precedono il racconto vero e proprio che si sviluppa con l'artificio letterario degli appunti di una bambina riportati in un quaderno.

Sulla scia de Il Gran Dio Pan, Machen propone una storia intrisa di una velata (ma al contempo forte) componente erotica e spinge, più dei precedenti lavori, sul pedale della perversione subliminale. A livello superficiale propone l'introduzione graduale di una bambina al mondo della stregoneria. La giovane protagonista alterna vicende di vita vissuta, in cui racconta le sue incursioni in mondi fantastici e desolati (che rappresentano l'Inferno e allo stesso tempo il Paradiso), a favole nere raccontatele dalla balia (una sorta di profeta del male che addestra la piccola) funzionali a spiegare i vari step compiuti dalla protagonista e le conseguenze degli stessi.
Si parla di culti e sabba orgiastici risalenti all'epoca romana, con tanto di statuette di creta che si animano per intrattenere rapporti con le donne che li hanno realizzati. Machen non rende troppo manifesta la natura di questi rapporti, ma la stessa si rivela piuttosto chiara al lettore attento ai particolari. Si tratta di rapporti blasfemi come suggerisce uno stralcio del diario della bambina relativo a una statuetta di creta da lei stessa costruita all'età di sedici anni: "e quando fu finito feci con lui tutto ciò che riuscii a immaginare, ed era molto di più di quanto avesse fatto la balia, perché la mia statuetta aveva la forma di una cosa infinitamente migliore."

Non mancano poi creature bizzarre quali ninfe (ci sono delle pennellate saffiche seppur in minima parte), animali antropomorfi e altri esseri non meglio specificati che escono dal bosco per sedurre gli astanti. Strepitosa, sotto quest'ultimo profilo, la fiaba nera del cacciatore che si lancia alla caccia di un cervo bianco, apparso dopo un'improduttiva battuta di caccia, per giorni e notti finendo in una dimensione ignota e scoprendo di aver seguito la regina delle fate (sarà invece ben altro) camuffata da animale. La donna lo sedurrà, lo renderà suo sposo, ma solo per una notte facendolo poi di fatto ricomparire laddove l'uomo aveva avvistato il cervo in preda a una nostalgia e un'astinenza talmente forte da non baciare più nessun'altra donna poiché, come dice con grande classe Machen, "aveva gustato il vino dell'incanto e per questo non bevve più nessun vino perché nulla lo avrebbe più appagato."

Sensuale, e ancora una volta ammiccante sul piano erotico, il passaggio in cui viene riportato il rito di una strega dalle forme attraenti. Machen scrive: "la signora si sdraiava fra gli alberi e cominciava a cantare una certa canzone. Da ogni parte della foresta venivano allora i grandi serpenti, sibilando e luccicando fra gli alberi; ella tendeva le braccia bianche e i serpenti, cacciando la lingua biforcuta, strisciavano verso di lei. Poi cominciavano ad avvolgersi intorno al corpo, alle braccia, al collo, finché Lady Avelin era tutto un ammasso di serpi e si vedeva solo la testa. L'avvolgevano sempre più finché non ricevevano l'ordine di andarsene. Allora l'abbandonavano, ma sul petto della signora restava una stranissima pietra a forma di uovo e dalle mille sfumature blu, gialle, rosse e verdi e le venature parevano scaglie di serpente".

Gianni Pilo, nel suo Dizionario dell'Orrore, analizzando il testo sostiene che, nonostante il tono cupo che permea tutta la storia, Machen non rinuncia alla speranza. Ciò è senz'altro giusto, ma si tratta di una speranza flebile, da individuare in un insidioso percorso (rappresentato metaforicamente dalla descrizione ambientale della bambina fatta di pareti rocciose disseminate con una logica ben precisa, boschi e fiumi, fino agli edifici costruiti da esseri giganteschi) per pochi eletti capaci di percorrerlo per dedizione e intelligenza, piuttosto che per un talento fine a sé stesso o per mera opportunità materialistica. La bambina così come i vari protagonisti delle favole (spesso messi al cospetto dell'esoterico per puro caso), che si alternano ai fatti narrati dalla giovane, finiscono prigionieri e preda dei sortilegi e vanno incontro a una brutta fine piuttosto che all'elezione.

L'insegnamento, e al tempo stesso l'ammonimento, di Machen, in perfetta linea con le opere scritte negli anni precedenti, è esplicito e assume una valenza simbolica che va ben oltre al piano esoterico arrivando all'approccio mentale e psicologico da adottare nella vita di tutti i giorni: "le medicine più benefiche (leggi l'esoterismo, ma io direi anche la psicologia e la filosofia) sono di necessità potenti veleni ed è per questo che vengono tenute chiuse in un armadietto (è, a mio avviso, sottinteso dalla società con tutte le sue convenzioni, le regole e la cultura di massa). Se una bambina (leggi l'uomo che non ha compiuto un certo percorso di studio e pertanto è assimilabile alla cultura di un bambino, per definizione neofita) trova la chiave per caso e ne beve, si avvelena. In altri casi, invece, la ricerca di ciò che è nascosto (da decriptare come ciò che costituisce lo spirito umano) eleva l'uomo: e dopo essersi forgiato da solo le chiavi adatte (leggi dopo aver personalizzato il proprio percorso in base alla propria autocoscienza) egli trova non fiale di veleno, ma squisiti elisir."

Dunque un concetto finale che spinge alla ricerca e al contempo incute timore nel farlo, quasi fosse un ammonimento teso a esorcizzare la voglia del superficiale di chi va alla ricerca dei meri vantaggi materiali.
Tutti questi contenuti intrinseci fanno de Il Popolo Bianco una perla preziosa della narrativa fantastica/orrorifica. Un'opera che trascende dal contesto di appartenenza , quello di genere, ed evidenzia ancora una volta l'abisso sussistente tra autori come Meyrink, Machen, Lovecraft e altri di fine '800 primi novecento rispetto ai più artificiosi Matheson, King e Campbell. Non me ne vogliano i colleghi che continuano a difendere certa narrativa, che il sottoscritto legge ben volentieri ma che non si sognerebbe mai di confrontarla con la narrativa fantastica/orrorifica del tempo che fu.

Per concludere sul volume, assai elegante con la foto di Machen sul retro delle copertine, mi sento di consigliarlo caldamente ai lettori di Machen e a chi intenda completare una biblioteca impreziosita dei grandi capolavori del fantastico. Il discorso cambia, invece, relativamente ai lettori estemporanei o a coloro che sono a caccia del brivido. Per essi, ritengo di poter dire, sarebbe molto più opportuno recuperare Il Gran Dio Pan e Altre Storie Soprannaturali edito dalla Mondadori dove potranno comunque rinvenire The White People. Un grazie comunque alle Edizioni Hypnos per la traduzione di un importante inedito (oltre al fulmineo e beffardo Un Doppio Ritorno) firmato Filius Aquarti.

ARTHUR MACHEN, in
una posa che ricorda molto quelle del protagonista
di A Fragment of Life che può essere considerato,
a tutti gli effetti, un suo alterego.

"I nostri sensi più alti sono talmente ottusi e siamo talmente immersi nel materialismo, che probabilmente non saremmo in grado di riconoscere l'autentica malvagità se la incontrassimo... Nella maggior parte di noi le convenzioni, la civilizzazione e l'educazione hanno accecato e assordato e oscurato la ragione naturale."

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