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sabato 4 luglio 2015

Recensione Saggi: EROI AL VOLANTE - TRENTA STORIE OLTRE LA LEGGENDA di Michael John Lazzari.




Autore: Michael John Lazzari.
Genere: Saggio Sportivo.
Anno: 2013.
Edizioni: Ultra Sport.
Pagine: 190.
Prezzo: 16,50.

ARTICOLO DI MATTEO MANCINI.
Aneddoti sull'acquisto.
Recensire Eroi al Volante ha un gusto particolare per il sottoscritto. Ricordo che appena giunsi a casa, dopo averlo preso, mi misi subito seduto in terrazzo a sfogliarlo rimanendo molto colpito dall'introduzione dell'autore; penso di poter dire la cosa più bella del testo, non perché quello che segue non sia interessante, ma perché da essa traspira la passione e la volontà di tributare dei personaggi che hanno regalato emozioni e a cui ciascun sportivo, amante del settore, ha legato un ricordo più o meno personale, magari relativo alla propria vita privata. Poco importa poi se si è al cospetto di campioni che hanno macinato vittorie su vittorie o di chi non abbia mai conseguito un punto mondiale, non è questo a valere. Il fine dello sport non deve essere la vittoria (che è comunque il risultato cui tendere) bensì lo spettacolo, la funzione di metaforizzare la vita e di regalare sensazioni indelebili a chi assiepa le tribune e anche a chi pratica certe attività. Io, a esempio, ricordo perfettamente cosa feci e dove mi trovavo quando morirono Roland Ratzenberger e Ayrton Senna, ma anche quando Mika Hakkinen, per il quale facevo il tifo fin dal debutto in Formula 1 (ricordo che in una delle sue prime gare, trasmesse in Italia in prima mattina, quando correva con la Lotus, mio padre mi disse, visto che io non mi ero alzato: il tuo pilota si è ritirato e quando è sceso dalla macchina aveva la mano del cambio sanguinante), vinse la sua prima corsa in F1 (mio padre, tifosissimo Ferrari visse un giorno da incubo e mi tirò dietro persino una ciabatta dandomi del vergognoso in quanto da italiano non facevo il tifo per gli italiani, cosa peraltro non vera essendo stato Ivan Capelli, che io chiamavo Cappelli, il primo pilota per cui ho fatto il tifo: leggendario quel secondo posto con la Leyton-House rimasta quasi senza benzina lo ricordo ancora... Ivan con le due braccia alzate al cielo), per non parlare di quando ebbe quel tremendo incidente in Australia con gli occhi, che affioravano dalla visiera spaccata, persi nel vuoto (credo di possedere ancora alcune pagine della Gazzetta dello Sport di quel giorno).

Un libro assimilabile a questo era poi nei miei programmi di scrittura da svariati anni, come ho avuto modo di scrivere anche su queste pagine, ma che poi non ho mai fatto limitandomi a scrivere qualche articolo (il migliore, forse, proprio su quel tragico week-end di Imola del 1994). E' stato quindi un immenso piacere quando l'ho visto esposto nella sezione sport della libreria della Feltrinelli di Pisa, dove stavo cercando, avendo la postepay fuori gioco, Anarchico e Testabalorda di Nicola Roggero. Avevo infatti appena terminato di leggere L'importante è Perdere, proprio di Roggero e ne ero rimasto molto impressionato, al punto da cercare un suo nuovo libro. Inoltre si trattava di un giorno particolare ovvero del giorno mondiale dedicato alla FESTA DEL LIBRO (24 aprile) e io, che in un anno compro anche qualcosa come una trentina di volumi, non potevo e non volevo mancare all'appuntamento. Perché? Perché come direbbe il buon Ringo, di matrice Gemma e non il clone De Martino, è una questione di principio.  Comprai quel dì, per un totale di 55,05 euro (quasi a voler emulare un leggendario film comico di ambientazione sportiva, ma senza il De del regista sopra ricordato) altri due volumi a tema ovvero Portieri Figli di Puttana di Fausto Bagattini (stessa casa editrice del volume qui in esame) e il più costoso Il Tempo dello Sport di Maria Aiello, trasformando così il giorno della festa del libro nel giorno della festa dello sport raccontato su carta stampata.

i TRE acquisti del 24 aprile con relativo scontrino fiscale.

L'Autore.
Autore del volume è un giornalista italiano di origini inglesi ovvero MICHAEL JOHN LAZZARI scomparso, questo lo scopro ora, circa un mese prima del mio acquisto sebbene fosse ancora molto giovane. Bolognese del 1970, ironia della sorte di SAN LAZZARO, Lazzari era conosciuto per la passione a 360' per lo sport, sia da osservatore che da praticante, ma anche per la musica della sua adolescenza, qualcuno di basketcity.net, dove Lazzari credo collaborasse, intona ancora un ritornello che fa "mare forza nove, fuggire si ma dove..." Voce di Radio International Bologna dove conduceva vari programmiamava in particolare commentare le partite del calcio inglese ma anche i tornei di Wimbledon (tennis). Si dice persino che avesse una "fede cieca in Verstappen" (credo che il riferimento vada a Jos, il sottoscritto ce l'aveva invece in Gachot quindi lo capisco bene) e un debole per El Maestro. Molto colorito nel parlare, aveva espressioni e neologismi che per i colleghi sono diventati dei modi di dire decodificati da utilizzare quasi in una sorta di omaggio di stampo cinematografico. Un suo vezzo particolare, un po' come il tennista Ivanisevic in una famosa partita (mi pare proprio a Wimbledon) prese a fare con il commissario di campo scimmiottando John McEnroe, era quello di riprendere coloro che gli storpiavano la pronuncia del nome. Odiava farsi chiamare Michele e penso persino con quel Michail con cui veniva storpiato, da alcuni, il nome di Schumacher (uno che ha avuto a che fare sia con Verstappen che con Gachot, i due citati assai poco convenzionali quando le persone comuni pensano ai campionissimi). La pronuncia correct (come disse Hakkinen a Schumacher dopo il pazzesco sorpasso a tre a Spa) era Maicol, un po' come quel soggetto scuola Gavardina, figlio di Capo Nord, che da perfetto brocco si trasformò in un notevole saltatore al punto da essere schierato, quasi con i galloni del favorito, nel Corona di Milano.
Questo, più o meno, il ricordo di questo sfortunato giornalista che ha salutato la compagnia a soli 45 anni, lasciando di sé però un ricordo piuttosto marcato oltre che una figlia che potrà comunque sentir parlare un gran bene del padre. Ricordo che sarà vivo non solo in chi lo ha conosciuto di persona, ma anche in chi possiede i suoi articoli, i suoi video o i suoi libri. Prima di Eroi al Volante si era già confrontato (dopo una sorta di almanacco evoluto in un'antologia di ricordi, scritta a più mani, legata al Bologna Calcio) con l'automobilismo con il volume ATS la Scuderia Bolognese che Sfidò Ferrari (2012, Maglio Editore), in cui parlava della girandola di licenziamenti che videro protagonista la scuderia Ferrari, proseguendo poi con Teodoro Zeccoli. Cuore Alfa, biografia di un asso italiano che ha battuto fior fiori di piloti e ha resistito alle lusinghe di Enzo Ferrari, per concludere con un interessante volume (che credo comprerò) dedicato alla figura della donna nell'automobilismo e intitolato Donne da Corsa. In F1, Rally, Prototipi, Indycar e Nascar, una sorta di scuderia in rosa. Dunque il ricordo è e sarà sempre vivo, perché se c'è una cosa che possa rendere magica la "letteratura", sia essa creativa o sia essa saggistica, piuttosto che il cinema, o l'arte in genere, è la possibilità per coloro che ne entrano a far parte (sia passivamente, sia attivamente) di sfuggire alla morte, un po' come disse un certo James Dean, uno che quando si parlava di Eroi al Volante non si tirava mai indietro e che se ne andava in giro con un Porsche con scritto sul retrotreno Little Bastard.

Michael J. Lazzari consegna la coppa al pilota Biagi, quello col berretto.

La Recensione di EROI AL VOLANTE
Il volume di Lazzari è dedicato alla Formula Uno, ma più specificatamente a chi in pista ha dato il cuore meritandosi il riscatto della propria anima, a volte minacciato dalle tentazioni infernali di logiche e massime più commerciali che altro, grazie a a gesta che hanno emozionato spettatori disseminati nei più reconditi angoli del mondo. Lazzari non realizza un volume dedicato ai più vincenti, bensì si concentra su chi ha dato tutto sé stesso finendo, in quasi tutte le circostanze, col salutare i suoi tifosi proprio sulla pista, come un soldato che cade sul campo di battaglia dopo aver condotto una battaglia da altri tempi. Ci sono comunque delle deroghe tra i trenta soggetti scelti dall'autore, c'è chi come Graham Hill, Carlos Pace o David Purley sono venuti a mancare in altre circostanze (tutti caduti con l'aereo) o chi, come Michael Hawthorn (inglese d'oc e dunque attenzione alla pronuncia del nome, come vi direbbe Lazzari), si era ritirato quasi a voler sfuggire da quel destino che, molto spesso, come dice Hill (Terence), lo si incontra proprio sulla strada presa per evitarlo.

L'introduzione dell'autore, specie se si considera che si sta parlando di una persona con cui non è più possibile parlare, è commovente e mi ha trovato in perfetta sintonia. Ho trovato inoltre molto divertenti i ricordi personali, che in libri del genere potrebbero sembrare irrilevanti (secondo qualcuno) ma che invece sono quelli che fanno fare il salto di qualità a un libro, perché proiettano il lettore nel mondo dell'autore. Così Lazzari ricorda sé stesso quando da bimbo tracciava nel cortile le curve dei vari circuiti per lanciarci le riproduzioni delle monoposto del mondiale ricreate dalla Polistil, ricordo che ha la potenza magica di innescarli a centinaia tra tutti i lettori che stanno leggendo e che si immedesimeranno nella situazione ricordando a loro volta sé stessi da bimbi. Riporto le parole tratteggiate dalla penna dell'autore perché sono esemplificative, a mio avviso, della vera natura dello sport: "E' stato come fare una sorta di piacevole tuffo nel passato e, in un certo senso, il libro è il mio personale modo di ringraziare tutti i protagonisti della F1 di allora, una competizione molto più romantica di quella odierna capace di suscitare forti emozioni... Eroi al volante rappresenta una chiusura del cerchio rispetto a tutto ciò che ci hanno donato, senza chiedere nulla in cambio; d'accordo, era il loro mestiere, erano pagati per questo e la loro ambizione era di vincere, ma i sentimenti che hanno suscitato in noi non hanno avuto prezzo, sono impagabili.

Per un tragico gioco del destino, a mio avviso, l'unica parte dell'introduzione che è stata forzata (perché nel testo ci sono piloti che hanno mostrato in pieno tutto il loro talento ottenendo quanto avevano seminato, penso ai vari Senna, Alboreto, Graham Hill, Jim Clark) si adatta invece alla perfezione al suo autore e anche a un pilota di cui, fino a qualche tempo fa, in Italia vedevo poco ricordato il nome e che scomparve a Spa in un duello con il più blasonato, su carta, compagno di team. Non dico quale sia questa parte, perché la lascio scoprire a chi comprerà il volume.

Lazzari, pur proponendo le storie dei trenta prescelti con taglio più giornalistico che narrativo (a differenza invece di Roggero che protende più sul secondo) presentandole in rigoroso ordine alfabetico, impreziosisce i dati relativi alla carriera in pista (gli aneddoti extra corse sono risicati), talvolta freddi e asettici, con frasi e massime dei vari piloti che smorzano un po' la struttura da saggio più legato alla concretezza delle cifre piuttosto che alla filosofia e ai vezzi dei vari driver. Ragioni di spazio, chiaramente, limitano la portata delle informazioni che, in linea di massima, vengono contenute dalle cinque alle sette pagine per pilota.

L'importanza del testo ricade sopratutto sull'aver riportato a "galla" personaggi che non dovrebbero mai trovarsi sui fondali della memoria e su cui, per assurdi modi di pensare riconducibili a ragionamenti legati al mondo del marketing e della moda (si tende sempre a vedere, ascoltare o leggere contemporanei, perché si crede superato tutto ciò che sta dietro non capendo che questo è un modo di fare indotto da chi commercializza). Il volume è importante soprattutto per i tifosi e gli appassionati della nuova generazione, perché va a gettare luce, peraltro in modo certosino con descrizione e sintesi di corse disputate dai futuri campioni della F1 in categorie inferiori (gare in salita comprese), su eventi e personaggi ormai confinati indietro negli anni. Se non ci fossero libri come questo cadrebbe un velo talmente spesso da trasformare personaggi meritevoli di ricordo in dei perfetti fantasmi scopribili solo da esperti cacciatori di spettri o da addetti del settore. E questo sarebbe del tutto intollerabile, esistendo le figure di appassionati in primis, giornalisti in secundis e scrittori infine, a coronamento di una triade che ha il piacere, l'onore (da leggersi a piacimento spostando l'accento un po' in qua e un po' in là) e il dovere morale di perpetrare certe gesta consegnandole così alla storia di un dato settore in modo da realizzare qualcosa che possa servire sia da ricettore capace di raccogliere emozioni e di diffonderle in circolo, sia di ricostruire epoche non più conosciute o comunque sbiadite nella memoria in modo da salvare quel complesso di informazioni che determinano ciò che, certi critici che si riempiono la bocca di parolone ed di latinismi (non ricevendo mai una bella cassata di pomodori), si definisce con una sola parola: "cultura".

A dimostrazione della perfetta atipicità di questa recensione, oggi che la Mercedes ha conquistato le prime quattro postazioni nella griglia di partenza del Gran Premio di Inghilterra, a Silverstone (che un tempo si correva nella settimana del mio compleanno e che, se non ricordo male, è un tracciato derivato da una vecchia base militare), proprio davanti alle Ferrari, voglio omaggiare l'evento con un ricordo pazzesco, di cui non ero a conoscenza, e che ho compreso proprio leggendo Lazzari. Non vi dirò chi è il soggetto in questione e ometterò anche le date. Così M.J.L. "Il suo talento appare lampante anche con le normali berline. Il xxx se ne ha un esempio lampante: per inaugurare il rinnovato Nurburgring, viene indetta la COPPA MERCEDES-BENZ, una sorta di RACE OF CHAMPIONS, a bordo del nuovo modello 190. Gli organizzatori invitano i quattordici campioni del mondo viventi,e  soltanto in cinque declinano l'invito: Fittipaldi e Andretti impegnati nelle qualificazioni delle 500 Miglia di Indianapolis, Stewart che tiene fede alla promessa di non correre più dalla morte di Cevert, Fangio che a 72 anni ha problemi di salute e Piquet... X (non Jackie, ma omissis) non ha il pedigree  per partecipare, visto che ha disputato appena TRE gran premi, ma riesce a convincere gli organizzatori che può essere impegnato come sostituto al posto di Fittipaldi (manco fosse James Hunt alla McLaren, nota del recensore). La trattativa giunge a buon fine. X a bordo della vettura numero 11 (toh, lo stesso numero di Hunt, pensate un po', nota del recensore) è subito secondo in prova alle spalle del PROFESSORE: sul circuito bagnato, il francese parte meglio, ma viene superato al termine del primo giro da X, che lo oltrepassa con un contatto di forza. Una volta rientrato in pista, il Professore impatta con l'italiano per il quale Colin Chapman fece volare per l'ultima volta il berretto ed entrambi finiscono nelle posizioni di retrovia. X conduce da par suo la gara, vuole battere tutti i migliori e interpreta la gara in maniera professionale: LA VINCE, TRA LO STUPORE DEI COLLEGHI, ALCUNI DEI QUALI LO SENTONO NOMINARE PER LA PRIMA VOLTA (alle sue spalle, sul secondo gradino, finisce chi ha detto una frase oggi ricordata a Vettel da un giornalista RAI ovvero "Un pilota per vincere deve essere un egocentrico bastardo")... A fine gara, viene comunicato che la vettura vincitrice finirà al Museo di Stoccarda. Sulle prime, i vertici Mercedes non sono entusiasti che abbia vinto uno sconosciuto, poi col passare degli anni si ricrederanno riguardo al valore del pilota (e saranno parecchio, ma parecchio parecchio, contenti dell'esito di quella gara.). Nick Mason, componente di uno dei gruppo musicali che hanno fatto la storia del rock mondiale (non certo i Prozac+, col dovuto rispetto), sentito dai giornalisti RAI che ne hanno trasmesso oggi l'intervista dopo le qualifiche, parafrasando la sua ottima considerazione relativa a certi assi del volante - ovvero "Il coraggio che aveva quella gente, o forse dovrei dire la follia, non ha eguali... riferendosi poi dopo a un pilota tedesco domani in pista. Sarebbe il colmo se fossi io a dare i consigli a Bernie Ecclestone" (uno che faceva sempre correre un pilota italiano nelle sue macchine, nota del recensore) - avrebbe detto (sarebbe il colmo se lo dicesse davvero): Bello (o) F-olle?

Anche se non si inizia mai un periodo con un gerundio, tornando a Lazzari credo di poter dire che quanto da lui sperato sia stato centrato in pieno. "Mi piacerebbe che il libro riuscisse, anche solo in minima parte, a trasmettere le emozioni che i trenta eroi al volante hanno suscitato nel sottoscritto: i lettori della mia generazione magari si ritroveranno una sorta di chiave magica per aprire il libro dei ricordi, i più giovani invece avranno modo di conoscere piloti sicuramente più carismatici e temerari rispetto a quelli della stagione 2013. Eroi al volante è un libro sulla memoria, sul modo per ricordare e tenere vivo nel nostro cuore chi ha portato, anche solo per un istante, una ventata di felicità nella nostra vita." Che altro dire? Credo proprio che l'autore sia riuscito nel suo intento e comprate il volume, se siete fan della formula uno. Non eccellentissimo, ma buono e costruito su eccellenti basi.




"Credo ci sia una forma di grandezza per l'uomo. Se un uomo può colmare il vuoto tra la vita e la morte. Voglio dire, se riesce a vivere anche dopo che è morto, allora forse quello era un gran uomo. Per me l'unico successo, l'unica grandezza, è l'immortalità" (James Dean.)



martedì 16 giugno 2015

Recensione Narrativa: LA VERGINE DI NORIMBERGA di Bram Stoker.




Autore: Bram Stoker.
Anno: 1914.
Edizioni: Longanesi, 1978.
Genere: Narrativa dell'orrore.
Pagine: 137.
Prezzo: Fuori catalogo.

Commento di Matteo Mancini.
Pubblicazione Longanesi data alle stampe a metà anni '70 quale estratto dell'antologia Dracula's Guest & The Other Weird Stories pubblicata in Inghilterra nel 1914, due anni dopo la morte dell'autore, dalla moglie Florence Balcombe. Sono sei le storie scelte dalla casa editrice di Milano, all'epoca diretta da Mario Monti, tra le nove originali, con la scelta di un titolo che antepone un'altra storia a quella che, per ragioni commerciali, dava il titolo all'antologia. Qualche decennio dopo, la Stampa Alternativa proporrà l'intera antologia originale sotto il titolo de L'Invitato di Dracula. Stiamo infatti parlando dell'autore di Dracula ovvero l'irlandese Abraham Stoker, meglio conosciuto come Bram Stoker, una vera e propria leggenda della narrativa gotica e horror.
Nato nella periferia di Dublino, Irlanda, al numero 15 di Marino Crescent, nel novembre del 1847  da una famiglia di impiegati, Stoker trascorre un'adolescenza problematica. Viene colpito da una malattia che lo costringe a subire un importante handicap che gli impedisce di potersi sostenere sulle gambe. Fino a otto anni Stoker non cammina e deve vivere sacrificato su un letto, finché d'improvviso, senza che i medici riescano a capirne la ragione, guarisce del tutto. All'epoca si parla di miracolo tanto che Stoker inizia a interessarsi di sport, in particolare il rugby e l'atletica, e diviene uno studente modello. Si laurea in matematica al Trinity College di Dublino da cui era uscito anche il maestro irlandese John Sheridan Le Fanu, sponda giurisprudenza, di cui lo stesso Stoker diverrà presto accanito lettore. La specializzazione in matematica porta Stoker ad accettare l'impiego da contabile presso l'amministrazione pubblica, anche se la vera passione per lui è il giornalismo e il teatro. Forte di uno stipendio sufficiente a campare, il giovane irlandese accetta di scrivere recensioni teatrali per Dublin Evening Post senza percepire compensi. E' il giornale presso il quale lavora anche Le Fanu e dove Stoker inizia a frequentare il padre di Oscar Wilde, anch'esso conosciuto al Trinity College. Tra i due, grandi amici, scoppia un pazzesco duello epistolare per strappare il cuore (visto il calibro dei due coinvolti mi sembra il termine più appropriato) di Florence Balcome. La spunterà Stoker che la sposerà il 4 dicembre del 1878, per la sventura del regista tedesco Murnau che, nel 1922, si troverà contro una donna assatanata per non aver ricevuto i diritti di autore consequenziali all'uscita di Nosferatu, evidente plagio al Dracula del marito. Risultato finale? Bancarotta dei produttori del film, con la Balcome che, incassata un'ingente quantità di soldi, farà orecchie da indiana non sentendo giustificazioni alcune e arrivando a chiedere la distruzione della pellicola!!! Quando si dice una donna vampiro e la citazione non va ai genitori di Sergio Leone che nove anni prima, con la regia del padre e l'interpretazione della madre (tale Bice Waleran), daranno in proiezione La Vampira Indiana che, a differenza della fatica di Murnau, è oggi introvabile.
Stoker pubblica il suo primo racconto nel 1872, The Cristal Cup cui fanno seguito una serie di altre opere che scompariranno presto nell'oblio. La seconda svolta nella vita di Stoker, dopo la guarigione prodigiosa, si concretizza nel 1878 quando diviene grande amico nonché confidente e successivamente procuratore dell'attore Henry Irving da cui era rimasto impressionato nove anni prima vedendolo recitare al teatro di Dublino. E' quest'ultimo a introdurlo nel mondo culturale inglese, Stoker si trasferisce a Londra e ricopre l'incarico di direttore del Lyceum Theatre di Irving che lo mette poi in contatto con la cerchia di scrittori facente parte dell'ordine esoterico della Golden Dawn, tra questi Conan Doyle (con cui Stoker instaurerà una lunga amicizia esaltata da continue collaborazioni, scambiandosi reciproche prefazioni l'uno ai lavori dell'altro) e William B. Yeats.

Il nuovo incarico porta Stoker a vagare in giro per il mondo, al seguito di Irving. Il legame tra i due è talmente forte che lo scrittore irlandese mette al proprio primo genito il nome di Irving. Compie una trasferta negli Stati Uniti che lo porta a stringere una profonda amicizia con Mark Twain e a perseverare, senza grande fortuna, nella scrittura. E' allora però che si verifica il terzo punto focale nella genesi dell'artista. Nel 1890 Stoker conosce un professore ungherese, Arminus Vambery, che gli racconta la storia di due personaggi: l'impalatore rumeno Vlad Tapes III e la contessa sanguinaria Erszebet Bathory. Le storie ravvivano l'humus culturale di Stoker, il quale si ricorda dei racconti di Le Fanu (Carmilla su tutti) e di Polidori e inizia a interessarsi in modo netto alla narrativa macabra. Scrive due buoni racconti, che confluiranno nell'antologia voluta dalla moglie nel 1924, The Judge's House (1891), rivisitazione in termini molto più lugubri e sinistri de Il Ritratto di Nikolaj Gogol che fungerà da ispirazione a Lovecraft sia per Il Modello Pickman ma soprattutto per I Ratti nel Muro, e, guarda caso, The Squaw (1893) ovvero "L'indiana", storia di vendette feline e di strumenti di tortura (si parla della Vergine di Norimberga, cioè lo strumento preferito dalla Bathory)! Questi due racconti sono i primi assaggi di Stoker all'orrore e segnano i primi mattoncini che portano alla grande costruzione, il capolavoro dell'autore e dell'intero genere: Dracula, che, dalle sue tenebre, vede la luce nel 1897 dando vita alla quarta fase dello scrittore, il quale, da qui in avanti, vivrà sui proventi delle proprie opere, complice anche la morte di Irving.

Stoker inizia a pubblicare romanzi su romanzi, molti dei quali di significato estoterico/occulto tanto che una famosa raccolta saggistica francese arriverà a porsi un curioso interrogrativo: "lo scrittore ha voluto iniziare a qualcosa i suoi lettori, così come lui stesso era stato iniziato alla Golden Dawn? La domanda è stata posta ma non risolta" (cfr I Maestri della Letteratura Fantastica, edizioni Edipem, pag.65). Sebbene lo scrittore realizzi opere di tutto rispetto, quale il soprannaturale di ambientazione egizia Il Gioiello delle Sette Stelle (The Jewel of Seven Stars) o il più famoso e ancora esoterico La Tana del Serpente Bianco (The Lair of the White Worm) - quest'ultimo peraltro trasposto nel 1988 in una sgangheratissima versione cinematografica diretta da un regista di calibro ovvero l'irriverente Ken Russell che molti ricorderanno per l'iper satirico e blasfemo I Diavoli (1971) - il suo nome resta quasi esclusivamente legato a Dracula. Si tratta di una sorte ingiusta, poiché, pur essendo inferiori, le opere successive, avviate da Il Mistero del Mare (The Mystery of the Sea, 1902) incentrato sul tema della preveggenza e tale da esaltare Conan Doyle, sono indubbiamente dotate di gran fascino. Ne è una conferma la narrativa breve di cui la raccolta qui oggetto di esame costituisce la summa e la sintesi, tanto da scomodare Stephen King che definirà questi racconti "assolutamente magnifici."


Abbiamo già parlato della genesi di questo volume, qui possiamo aggiungere che viene realizzato mettendo insieme nove racconti (nel testo curato dalla Longanesi saranno sei, quattro in quello curato dal regista teatrale Riccardo Reim, nel 1993, per la Newton) di genere orrorifico, scritti in un arco temporale superiore a venti anni e con alcuni di essi inediti, mentre altri usciti su giornali o riviste periodiche. Difficile esprimersi su quale di essi sia superiore, poiché si tratta di un lotto molto equilibrato, caratterizzato da un evidente gusto del macabro e dall'innegabile capacità del suo autore nello scandire un ritmo sollecito (eccetto il dilatato Le Sabbie Mobili).
Tra i sei racconti scelti dal trio Tasso-Usellini-Volta spicca L'Ospite di Dracula, testo tra i più famosi dell'autore per via della leggenda che lo vorrebbe quale prologo di Dracula e addirittura quale scritto eliminato dal romanzo stesso. Nella realtà si tratta di un racconto uscito postumo alla morte dello scrittore, con abile scelta commerciale voluta dalla moglie, una che certo non era disinteressata a un tema quale il diritto d'autore. Protagonista è un giovane inglese caratterizzato nel modo tipico amato da Stoker, cioè quale intrepido amante dell'avventura che non ha paura di niente e nessuno, almeno finché non gli si presenta sotto gli occhi l'imponderabile (così l'autore irlandese presenta tutti i suoi personaggi, in un'ottica da superuomismo quasi nietzschiano). A nulla servono i tentativi del cocchiere tedesco, che il protagonista non riesce a seguire perché parla un'altra lingua, di dissuaderlo dalla volontà di andare a visitare un cimitero antico disperso nella foresta nera di Monaco. E' infatti la Notte di Valpurga, giornata simbolo nei rituali sabbatici (esaltata da un celebre romanzo, peraltro, dell'austriaco Meyrink), e di fatti l'inglese, abbandonato dal suo cocchiere, si troverà al cospetto di creature della notte e in particolare di un lupo famelico che sarà sul punto di sbranarlo, se non fosse per l'arrivo di certi cavalieri... Il colpo di genio, per il buon esito dell'antologia, sta nella sorpresa finale quando si scoprirà che a salvare il temerario, in forma indiretta, è stato il Conte Dracula in persona che, con un'epistola da Bistrita (luogo affrontato dalla Florence quella Viola in una trasferta in coppa Uefa qualche anno fa), ammonisce le autorità tedesche: "Abbiate cura del mio futuro ospite: la sua sicurezza è per me preziosa... E' un inglese, quindi ama l'avventura... Non perdete un solo istante se avete qualche preoccupazione per lui. Ho i mezzi per ricompensare il vostro zelo." Grande epilogo per un racconto che fa del fascino e del gusto per il necrofilo il proprio biglietto da visita, eloquenti in tal senso le scene nel cimitero silvano. Non a caso, a mio modo e molto alla lontana, lo omaggiai in un racconto intitolato L'Alchimista (2010) e presente nella mia antologia Sulle Rive del Crepuscolo (2011), edita dalle GDS di Milano.

La raffigurazione clou del racconto L'Ospite di Dracula.

Se L'Ospite di Dracula è l'elaborato più famoso, anche per essere stato inserito in un numero interminabile di antologie dedicate al tema "vampiri", merita, a mio avviso, un cenno approfondito il testo Sabbie Mobili, Crooken Sands. Stoker tira in ballo la tematica del doppelganger, citando direttamente un autore tedesco (Heinrich von Aschnberg). Si tratta di una tematica all'epoca molto in voga dopo il racconto William Wilson di Poe, ma soprattutto dopo The Strange Case of Doctor Jeckyll & Mister Hide di Stevenson. Stoker però aggiunge qualcosa di nuovo, va, a suo modo, in profondità dando vita a un racconto che, rispetto a esempio a L'Ospite, tocca temi più profondi. Protagonista è un certo Markam (omaggio a H.P. Lovecraft? Non lo escluderei, poiché la moglie del Solitario di Providence, tale SONIA GREENe, era legata agli ambienti frequentati da Stoker) che si reca in vacanza nelle Highlands (fatto pure io, alla maniera di Salgari, nel racconto Sotto le Stelle di Orione) vestendosi in modo tale da dare la parvenza di essere un capo clan, così come questi erano raffigurati nelle litografie e nelle operette. L'uomo, padre di famiglia e piuttosto facoltoso, è infatti rimasto impressionato da Il Re Burlone che ha visto in scena all'Empire. Decide così di scimmiottare questi soggetti, suscitando l'ilarità generale. Un vecchio pescatore di balene però, che vive in solitudine e viene considerato matto da tutti, lo ammonisce: "Vanità delle vanità. Guardate i gigli del campo essi non si affaticano per farsi belli, non tessono, eppure Salomone (nome non a caso se si conoscono certe c.d. chiavi care a Stoker e riconducibili a un certo Liddell MacGregor Mathers, prima ancora di lui a un certo manuale) in tutta la sua gloria non ne raggiungeva nemmeno uno in bellezza. Uomo! Uomo! La vanità è pari alle sabbie mobili che inghiottiscono tutto quello che viene a loro portata. Guardati dalla vanità! Guardati dalle sabbie mobili che bramano di averti, e che ti inghiottiranno! Abbi occhi per vederti. Impara a conoscere le tue vanità. Trovati a faccia a faccia con te stesso, e in quel momento conoscerai la forza fatale delle tue vanità". Markam sul momento reputa un pazzo scriteriato il suo interlocutore, poi però resta protagonista di una strana avventura in cui per poco non resta morto. Scivola infatti in una pozza e scopre di esser preda di sabbie mobili, prima di cadere aveva visto davanti a sé un altro uomo, vestito come lui e in tutto e per tutto identico. Gli incubi cominceranno a perseguitarlo e graviteranno sempre attorno al pescatore e a quelle sabbie. A generare il caos mentale è il vestito da capo clan che sembra aver offeso delle forze dell'altrove e che sembra avere quell'influenza che certi maestri della letteratura (Machen su tutti) ricollegano ai simboli, uno su tutti un certo Chevalier che ha scritto persino un copioso manuale a tema. Scoprirà poi che si tratta di qualcosa ben superiore a un incubo, qualcosa che lascia segni indelebili nella realtà. "E' una cosa molto strana, ma sembra che l'uomo disponga di un dono particolare" gli diranno i cittadini della zona, un posto in una baia vicina a Yellon, "che si tratti della seconda vista, cui noi scozzesi siamo pronti a credere, o qualche altra forma di intuizione, non saprei, ma niente di tragico succede in quel posto senza che gli uomini con cui egli vive non siano pronti a riferire parole premonitrici." Anche qua Stoker piazza un finale doppio, che offre una duplice chiave di lettura della vicenda. Da una parte la componente esoterica multidimensionale al cui cospetto l'uomo è un idiota arrogante che crede di saper tutto e che invece è un perfetto ignorante, dall'altra quella più concreta e reale legata all'esperienza del comune vivere e al concetto relativo al fatto che "c'è una spiegazione per ogni cosa". Dicotomia vecchia quanto il mondo e su cui Socrate, pur non scrivendo rigo, ha fatto scuola. Al lettore scegliere la soluzione che preferisce... Sta in questo il fascino della narrativa fantastica di serie A.

Molto sottovalutato ma bellissimo è Le Mani Insanguinate, A Dream of Red Hands, storia di delitti, incubi dettati dal pentimento e dal senso di colpa, sogni premonitori e redenzione, il tutto in proiezione di una vita ulteriore, quella davvero reale, da conquistare col sacrificio. Sembra quasi un testo di Arthur Machen, dotato di una grandissima forza visionaria e soprattutto di un underground religioso, chiaro esempio di racconto archetipo di una certa scuola britannica dell'epoca.
"So che questo sogno non esce da quella silenziosa oscurità dove i sogni abitano, ma è mandato da Dio come punizione! Mai, mai riuscirò a passare il cancello, perché quelle mie mani insanguinate sempre insanguineranno la mia veste!" così si esprime il protagonista, che soffre di insonnia, all'amico confidente. Stoker offre un bellissimo squarcio dell'aldilà, mostrando l'accesso alla porta del paradiso, sorvegliato da angeli cherubini muniti di spade infuocate. Davvero un bell'esempio di racconto fantastico, un po' sulla scia di Delitto e Castigo, ma in salsa totalmente esoterica e pur sempre gravitante attorno alla necessità, per l'uomo nobile di animo (come lo è il protagonista che si è macchiato di una colpa dovuta a un amore troppo forte per la donna sbagliata), di espiare in vita le proprie colpe così da liberarsi da quei fardelli che trascineranno nell'abisso una volta superato l'ostacolo costituito dalla vita di tutti i giorni. Lo definisco ostacolo perché come si potrebbe definire un qualcosa che potrebbe generare insidie per lo sviluppo o il benessere successivo? Ditemi un po' voi... prego.

Gli altri tre testi sono meno potenti e convergono in direzione della narrativa di intrattenimento. Si tratta comunque di elaborati che suscitano emozioni, come il convulso Il Funerale dei Topi (The Burial of the Rats, uscito inedito nell'antologia voluta dalla Balcome), action-movie in terra parigina e in mezzo ai topi, col protagonista braccato dai vecchi soldati napoleonici ormai divenuti barboni e costretti a vivere ai margini della città. Stoker qua dimostra un grande senso del ritmo e un gusto per il truculento, per l'epoca, assai spiccato. Lo stesso può dirsi per The Squaw, L'Indiana, da noi tradotto con il meno idoneo La Vergine di Norimberga (1893). Storia di vendette feline, strumenti di tortura e vecchi racconti di maledizioni indiane. Stile rapido, scorrevole e dettagli all'insegna dello splatter. Bel racconto del terrore ma nulla più, con un protagonista che cade vittima della propria superficialità e del continuo desiderio arrogante di beffeggiare la morte e le creature dell'altrove. Sulla stessa lunghezza d'onda è La Casa del Giudice, che riprende la tematica dei topi che corrono tra i muri di una vecchia casa abbandonata e l'idea dei personaggi immortalati in un quadro che fuoriescono per generare scompiglio (Gogol docet con Il Ritratto). Anche questo è un signor racconto dell'orrore, come abbiamo detto ispirerà due racconti di Lovecraft, ma non scava oltre non avendo come fine ultimo quello di cercare metafore o ammonimenti ai c.d., in certa narrativa di genere, viaggiatori sprovveduti che si addentrano tra righe che farebbero bene a evitare prima di sparare certi sproloqui.

Questo è quanto per un'opera sicuramente da avere in biblioteca e per uno scrittore che è rimasto vittima del suo stesso personaggio, Dracula, tanto forte da succhiare linfa e notorietà a tutti i fratelli pieni generati dalla medesima penna. In conclusione, un ultimo e doveroso saluto all'attore Christopher Lee ovvero il Dracula per eccellenza della settima arte. Ho l'orgoglio di poter affermare che ha lavorato in un film girato dietro casa mia, negli Studios Pisorno di Tirrenia, e che è definito il film più fedele dell'opera del maestro irlandese: Il Conte Dracula (1970), a cui prese parte anche l'indimenticabile Soledad Miranda che ha vissuto, per il tempo strettamente necessario, proprio a Tirrenia. Cronache di un fantastico tempo che fu, quando il nome di Tirrenia girava in giro per il mondo.

Proprio di Lui parlai lo scorso anno, dal palco, con l'autrice de TUTTO QUEL NERO (Giallomondadori)
con lo sceneggiatore di DRACULA 3D (Dario Argento) e con l'esperto
di B-Movie nonché grandissimo appassionato di Jess Franco.
Moderatore lo sceneggiatore de IL COLORE VENUTO DALLO SPAZIO
a LA SERRA TREMA.
Non perdete la prossima puntata, che andrà in scena il prossimo week-end, e che verterà su 
DYLAN DOG.


sabato 13 giugno 2015

Recensione Cinema JURASSIC WORLD di Colin Trevorrow



Regia: Colin Trevorrow.
Anno: 2015.
Genere: Fantascienza.
Prodotto: Patrick Crowley e Frank Marshall.
Produttore Esecutivo: Steven Spielberg.
Budget: 150 milioni di dollari.
Soggetto: Rick Jaffa e Amanda Silver.
Sceneggiatura: Rick Jaffa, Amanda Silver, Colin Trevorrow e Derek Connolly.
Interpreti Principali: Chris Pratt, Bryce Dallas Howard, Ty Simpkins, Nick Robinson, Vincent D'Onofrio e Jake Johnson.
Fotografia: John Schwartzman.
Colonna Sonora: Michael Giacchino.
Durata: 130 minuti.

Commento di Matteo Mancini.
Era il lontano 1993, un pomeriggio di settembre, quando, in compagnia di due amichetti dodicenni, vidi in un cinema di Livorno Jurassic Park. Fu amore a prima vista tanto che convinsi mia madre a comprare una serie di inserti De Agostini che uscirono in edicola poco dopo il film, finché un giorno non mi vidi rispondere che quella roba non serviva a niente e che non mi sarebbe stata di alcun aiuto per lo studio. Così fine della collezione, che comprendeva anche uno scheletro gigante fosforescente al buio di un T-Rex, da costruire pezzo per pezzo come il galeone di Dylan Dog. In compenso però uscì l'album delle figurine e Piero Angela fece trasmettere dalla RAI una catena di documentari sui dinosauri in uno speciale dal nome inequivocabile: Il Pianeta dei Dinosauri. Uscirono poi film clone, di livello assai inferiore, come Carnosaur (1993) o addirittura la parodia di Jerry Calà Chicken Park (1994). Qualche anno dopo entrai in possesso di un bomber nero griffato "Jurassic Park", che possiedo e indosso ancora, con l'immagine sul retro di un Velociraptor. Fu dunque uno degli ultimi film che fece, a suo modo, epoca, segnando anche il passaggio tra la computer grafica, allora agli albori, e l'effettistica legata sia all'impiego di robottoni giganti, un po' come fatto quasi venti anni prima da Spielberg in occasione de Lo Squalo, sia alla vecchissima stop motion ideata da Harryhausen. Non mancarono i sequel, sia dei cloni che dell'originale. Ho ancora viva nella memoria l'immagine della locandina de Il Mondo Perduto (1997) incollata su un cartellone stradale in quel di Cecina. Non lo andai a vedere al cinema e feci bene, anche perché quando lo guardai in televisione non mi entusiasmò come il primo. Lo stesso Spielberg, probabilmente, non ne fu soddisfatto, peraltro stravolse del tutto il secondo romanzo di Michael Crichton, padre letterario della saga, andando a effettuare una poco felice commistione tra Io Sto con gli Ippopotami e King Kong. Ancora meno convinto pur se, a mio avviso, divertente fu il terzo episodio, uscito a distanza di quattro anni dal secondo. Rispetto ai precedenti passò quasi inosservato nei cinema (fu addirittura candidato al razzie award quale peggior sequel della stagione). Determinante, in negativo, fu la scarsa cura della sceneggiatura (sviluppo risicatissimo, durata addirittura inferiore all'ora e mezzo, con sequenze scartate dai primi due capitoli), una serie di ingenuità e soprattutto il passaggio di consegne di Spielberg a favore di un suo galoppino che avrebbe dovuto già girare Il Mondo Perduto: Joe Johnston. La costante parabola discendente intrapresa della saga, comunque sempre capace di recuperare i fondi spesi, non spinse Spielberg alla resa, anzi... Fu subito intavolata una trattativa prima con Alex Proyas, il regista de Il Corvo, che avrebbe voluto coinvolgere i rettili marini, quindi direttamente con Michael Crichton, per dare il là al quarto episodio. La scomparsa prematura dello scrittore americano, avvenuta a inizio 2008, fece naufragare il progetto proprio nel momento in cui era stata dichiarata la volontà di stenderne il copione. Solo a distanza di sette anni, quattordici dal terzo episodio e addirittura ventidue dal giorno di uscita del primo, il quarto capitolo ha visto la luce, per volontà di un giovane regista capace di convincere Spielberg con una sola pellicola. Nasce così Jurassic World.



E così a 22 due anni da quel settembre del 1993 e a quasi due dalla mia ultima presenza in sala (vidi Rush di Ron Howard), mi rilancio nei cinema per non perdermi questa sorta di remake. A Pisa è in programmazione solo al Cinema Odeon di Piazza San Paolo all'Orto, quello delle quattro Repubbliche Marinare, per via dei nomi attribuiti a ognuna delle quattro sale che lo compongono. Scelgo la versione 2D che è in programma in Sala Venezia (in sala Pisa c'è la 3D) e attendo, essendo giunto con un anticipo di quaranta minuti. Probabilmente sono uno dei pochi reduci della vecchia guardia a essere ancora presente e, in tutta sincerità, non sono neppure tanto convinto che sia un film di valore, ma la presenza di Steven Spielberg mi ha convinto ad acquistare il biglietto. Sebbene sia venerdì, sulle prime, non sembra esserci una gran calca. Molti genitori con prole al seguito (un po' come successe a me nel lontano '93), qualche coppia di fidanzatini e un discreto caldo umido a corollario per la leggera pioggerella scesa nel pomeriggio. Sono il terzo a entrare in sala, in scia però ai primi due, sarò poi il primo ad abbandonarla non appena sullo schermo correranno via i titoli di coda. Ricevo in sorte un biglietto che pare essere un simpatico scherzo del destino: poltroncina 22, come gli anni che separano il film dal primo capitolo, fila H che sarà poi la lettera su cui, a fine film, si poserà il grande protagonista del primo capitolo per lanciare il suo tremendo urlo al cielo, quasi come una sorta di esultanza visto l'epilogo finale, a simboleggiare il successo sia sull'uomo che sulla sua scienza, rappresentato dalla ripresa del controllo dei dinosauri sull'isola stuprata da chi cerca sempre di tramutarsi in Dio. Sono appena le 20.40, la sala è abbastanza vuota penso quasi anche a scegliermi la poltroncina nel caso in cui il cinema resti vuoto e invece comincia a entrare un gran numero di persone. In un amen la sala si riempie e calano le luci dopo il trailer del nuovo Terminator in programmazione a luglio. Lo spettacolo ha inizio...

Il regista COLIN TREVORROW.

Il film viene prodotto, grazie alla collaborazione di Steven Spielberg, da una serie di individui che hanno nell'ex regista Frank Marshall e nell'ex direttore delle seconde unità Patrick Crowley i soggetti più rappresentativi. Entrambi ormai da anni nel mondo delle produzioni cinematografiche vantano un passato importante anche in tutt'altra veste. Marshall, da non confondere con Neil Marshall (quello di The Descent), è un fedelissimo di Spielberg (a cui ha fatto da aiuto e da direttore delle seconde unità in svariati film, non ricoprendo più questo ruolo da Seabiscuit) per aver prodotto film quali I Predatori dell'Arca Perduta (1981), Poltergeist - Demoniache Presenze (1982), L'Impero del Sole (1987), Il Sesto Senso (1999), Signs (2002), SEABISCUIT - UN MITO SENZA TEMPO (2003), Young Black Stallion (2003) The Bourne Supremacy (2004), Indiana Jones e il Regno del Teschio di Cristallo (2008) e molti altri ancora in una carriera che ha avuto inizio a partire dagli anni '70. Ha inoltre ricoperto il ruolo di produttore esecutivo in una lunga serie di film di grosso successo con perle assolute quali WAR HORSE (2011), Cape Fear -  Il Promontorio della Paura (1993), Ritorno al Futuro III (1990), Indiana Jones e l'Ultima Crociata (1989), Ritorno al Futuro (1985), Ai Confini della Realtà (1983), I Guerrieri della Notte (1979) e molto altro ancora, tentando con minor fortuna persino la carriera di regista (Aracnofobia, Congo, Alive). Una carriera quindi prestigiosa per un professionista che è stato primo protagonista nella storia del cinema degli ultimi anni. Più giovane e dunque meno qualitativo, ma non secondario, il curriculum di Crowley che ha inizio nel 1979. Parte subito come direttore della seconda unità de La Signora in Rosso (1979) lavorando in tutta una serie di B-Movie, per tutti gli anni '80, tra cui anche i due sequel di Robocop con i quali inizia ad avere ruoli importanti sotto il profilo produttivo, producendo il terzo capitolo.Compie il salto di qualità grazie alla saga avviata da The Bourne Identity (2002) che produce integralmente, intervallandola con alcune pellicole minori quali I Poliziotti di Riserva (2010).
Sono 150 milioni i dollari che i due, con la benedizione di Spielberg, affidano a Colin Trevorrow per la realizzazione del film, qualcosa che suona quasi quanto il triplo del budget avuto per Jurassic Park. E' una somma importante messa nelle mani di un regista semisconosciuto che si è fatto apprezzare con una sola pellicola indipendente, peraltro autoprodotta: Safety not Guaranteed (2012). Scelta alquanto coraggiosa, curiosa e per questo lodevole, a favore di una nuova leva che si trova a lavorare da un low budget (750.000 dollari) a un kolossal nel giro, come direbbe un Jucas Casella provetto, dello schiocco di dita di una mano. Trevorrow si porta dietro lo sceneggiatore di origine irlandese Derek Connolly, avuto nel suo unico precedente film, ed è quasi un omaggio e un'iniezione di fiducia verso un altro perfetto sconosciuto, proprio per questo ultra motivato e galvanizzato dall'importante occasione ricevuta. E' con lui che va a rielaborare il copione scritto da due astri nascenti del cinema di intrattenimento americano. Si tratta dell'affiatatissima coppia Rick Jaffa e Amanda Silver, salita agli onori della cronaca a fine anni '90 con lo sci-fi horror Relic (1997), trasposizione cinematografica (non troppo riuscita) da Preston Douglas, ma soprattutto con la saga avviata da L'Alba del Pianeta delle Scimmie (2011), dagli stessi scritta e prodotta, che li andrà a spalancare l'accesso ai super blockbuster Avatar II e Avatar III che dovrebbero rispettivamente uscire nel 2017 e nel 2018. Un lotto di individui composto da grande esperienza da una parte, giovani promesse sul punto di esplodere definitivamente dall'altra e nel mezzo perfetti sconosciuti con un'occasione che appena tre anni fa non avrebbero mai immaginato e a tirare il redini del gioco lui... il numero uno: Steven Spielberg.


Il grande coacervo dei soggetti coinvolti a vario titolo nella lavorazione opta per la realizzazione di una specie di remake modernizzato. Si parte da Crichton, scrittore autore del romanzo da cui tutto ha avuto inizio, e dall'idea di Hammond di realizzare un parco divertimenti e la si trasforma in realtà cinematografica. Il Jurassic Park ora è attivo, ha solo cambiato il nome per prendere le distanze dal passato, e si è evoluto in grande stile. Ci sono parchi acquatici dove un enorme Mosasauro si esibisce in numeri da Orca Assassina, palle invisibili per i dinosauri dotate di vetrate antisfondamento e comandi da vettura che permettono ai visitatori di vagare in area ristretta come in una specie di safari, voliere enormi dove volteggiano gli pterodattili e altre dozzine di nuove attrattive. Il pubblico interviene in massa e prende d'assalto la struttura ormai da anni. Questa è la base di partenza per inserire una storia con caratterizzazioni dei personaggi molto vicine a quelle volute da Spielberg nel primo capitolo. Due ragazzotti protagonisti di cui uno, quello più piccolo, "secchione", una coppia di adulti che si respingono pure essendo, di fatto, prossimi a fidanzarsi, il nuovo titolare del parco megalomane, il filo militare idiota che vorrebbe utilizzare i velociraptor quali nuovi soldati da assalto e infine l'informatico sfigato ma simpatico. Come nel primo si verificherà un contrattempo non attribuibile ai limiti della struttura, ma all'atteggiamento superficiale dell'uomo e uno dei bestioni uscirà dal recinto di contenimento generando il panico in giro. Questa in sintesi la trama, per una sceneggiatura che ha comunque il merito di ricercare alcuni spunti interessanti. Primo tra tutti è la relazione tra uomo e animali, col primo che tende a sfruttarli oltre il limite, facendo fare loro cose innaturali (si veda il triceratopo cucciolo costretto a fare da cavallino per i bimbi che si allenano a equitazione), e poi crede quasi di renderli felici. C'è poi chi invece vede in queste bestie estinte 65 milioni di anni fa una risorsa militare, grazie alle evolute ma pericolosissime tecniche di addestramento. Il protagonista, il bravo Chris Pratt nei panni di O.Grady (non per fare il verso allo storico velocista austrialiano che prese la maglia gialla in una clamorosa fuga bidone che gli valse oltre trenta minuti in classifica di vantaggio), si diletta nei panni di un provetto Jean Ray, ammaestrando un lotto di quattro velociraptor. Si tratta probabilmente dell'aspetto più interessante della pellicola, forse lontanamente ispirato a Tentacoli (1977) di Assonitis, dove per uccidere il mostro di turno si misero in scena le orche reputate da tutti delle assassine. Comandi vocali, comandi dettati dal movimento delle mani o dal supporto di strumenti che permettono di trasmettere messaggi cifrati un po' come fatto dalla CIA. Gli sceneggiatori sono bravi a non cadere nel ridicolo, mettendo fin da subito in mostra le grosse difficoltà di controllo su queste creature. "Non è il controllo il punto, ma il reciproco rispetto" ammonisce i colleghi Pratt.
Purtroppo però gli sceneggiatori si concedono qualche libertà di troppo, pur non cadendo nel ridicolo come in alcune sequenze del terzo capitolo. Così fanno entrare in scena un dinosauro nuovo, creato in laboratorio grazie alla genetica, in modo da poter soddisfare le sempre più crescenti richieste del pubblico. Quest'ultimo aspetto è dettato da una giusta lettura degli autori delle cose che ci circondano. Si è ormai persa l'abitudine di apprezzare la bellezza della natura o la semplicità delle cose così piccole che neppur si riesce a vedere, ma si va sempre alla ricerca dell'esagerazione. Eloquente al riguardo la scena successiva al salto fuori dall'acqua del Mososauro, con qualcuno che sugli spalti, spippolando i numeri al cellulare, assiste come se avesse visto emergere un delfino tanto da domandare al fratellino: "la vuoi vedere una cosa davvero pazzesca?" Cambia contesto e vediamo la telecamera soffermarsi in primo piano sullo stemma di una Mercedes, quando è il caso di dire pubblicità non occulta. Così come non sembrerebbe occulto il riferimento al piccolo e sottovalutatissimo b-movie Il Migliore Amico dell'Uomo diretto da Lafia nell'anno di uscita di Jurassic Park. Viene infatti realizzato un dinosauro mettendo insieme tutte le caratteristiche principali dei sauri più letali unite a quelle di creature tutt'oggi viventi. Ne deriva un bestione capace di mimetizzarsi e addirittura di sottrarsi scientemente ai rilevatori di calore (mi pare una boiata) e persino comunicare con i raptor mandandoli all'attacco dell'uomo, nonché uccidere gli altri esseri viventi per il gusto di farlo. Soluzione queste che non portano beneficio alla sceneggiatura, ma che sono strumentali alla spettacolarità della trama. Addirittura questo mostro arriva a falsificare le tracce per depistare gli inseguitori, soluzione inverosimile al mille per mille.
Mi ha convinto poco poi l'atteggiamento da militari idioti, tipo quelli di 28 Giorni Dopo, delle squadre di emergenza che finiranno col fare più danni della grandine. E' proprio questo infatti il modo in cui gli sceneggiatori portano avanti la storia, ogni accorgimento adottato per scongiurare o contenere il disastro andrà ad aumentarne la gravità. Troppo facile inoltre il modo in cui si riuscirà ad aver ragione degli Pterodattili, abbattuti come se fossero piccioni, ma forse questo ci potrebbe anche stare.
Non manca un'evidente citazione a Predator (a voi scoprirla) e un'altra ad Aliens vs Predator, in un epilogo che sembra quasi voler suggellare una pace tra le due creature che avevano animato il primo capitolo e si erano scontrate per l'egemonia del film  negli ultimi minuti di proiezione. Questa volta la parte finale è in perfetto stile Pacific Rim con scontri tra titani, soluzione quest'ultima assai spettacolare al cinema ma che da poco spessore alla trama. Trevorrow è comunque bravo a regalare dettagli, omaggi al primo capitolo (si torna nei luoghi del primo parco con tutti i gadget, le jeep e le sale di allora ormai invase dalla vegetazione) e si dimostra a perfetto agio con un giocattolone come Jurassic World. Alla fine ci si diverte, il ritmo è buono, gli attori simpatici (ci sono quelle battutine che già caratterizzavano il primo film di Spielberg). Tra questi si distingue il protagonista Chris Pratt, 35 enne che cerca di confermarsi quale attore emergente, nei panni di un giovane un po' Brody e un po' Matt Hooper di turno (per citare Lo Squalo), il veterano e militaresco Vincent D'Onofrio (indimenticabile Palla di Lardo in Full Metal Jacket) che esulta (pur non essendone responsabile) per la catastrofe che si sta consumando così da poter avanzare i suoi progetti di sfruttamento bellico, e la bella ma con un personaggio un po' sbadato e scemotto Bryce D. Howard (ammirata nella saga Twilight e in Spiderman 3), figlia proprio di quel RON HOWARD che ho visto per l'ultima volta al cinema prima di ritornare a vedere Jurassic World, chiamata a interpretare una donna in carriera che ha messo da parte la vita privata in favore della lavorativa e che scoprirà il fascino dell'avventura.

Dal punto di vista visivo il film è ottimo, così come gli effetti speciali anche se la computer grafica è davvero tanta e non sempre tale da non tradire la sua provenienza. La colonna sonora ripropone gli storici brani di John Williams, affiancandoli a nuove tracce firmate da Michael Giacchino che però subisce e sente il peso del più blasonato collega.

Tensione, ilarità, azione, scene ai confini dell'horror (senza però andare sullo splatter in modo da rendere fruibile il prodotto anche ai bambini) fanno di questo Jurassic World un ottimo sequel, migliore dei precedenti, che tuttavia paga molto sul versante dell'originalità. Da vedere al cinema per passare due ore di divertimento. In sala nessun risolino e battutacce, ma grande attenzione e atmosfera di chi ha apprezzato la visione. Non delude le attese, forse ce ne sarà un quinto ma questa volta occorrerà ricorrere all'originalità, altrimenti sarebbe giusto fermarsi qui.


sabato 30 maggio 2015

Recensione Narrativa: VIAGGIO AL CENTRO DELLA TERRA (Jules Verne).



Autore: Jules Verne.
Anno: 1864.
Editore: Newton.
Pagine: 220
Prezzo: 7 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Seconda opera in assoluto di un autore che avrebbe fatto scuola, gettando le basi della nascente narrativa di fantascienza e riscuotendo fin da subito un successo commerciale talmente alto da permettergli di vivere nel lusso grazie ai successi delle sue opere. Stiamo parlando di sua maestà Jules Verne, agiato borghese nato a Nantes che sfugge da una carriera da avvocato per interessarsi inizialmente, grazie all'amicizia con Dumas padre, alla sua prima passione: il teatro. Inizia a scrivere relativamente tardi, a ventiquattro anni dando alle stampe il racconto Un Viaggio in Pallone nel 1852. Nella prima parte della carriera alterna la sua passione con il lavoro in borsa, andando a interpretare il ruolo di agente di cambio. E' l'avventura che lo interessa (sia sulla carta che nella vita di tutti i giorni), ma un'avventura orientata alla scienza, con una bravura talmente elevata da anticipare alcune scoperte che il mondo scientifico andrà a conquistare ispirandosi, di fatto, ai suoi romanzi. Verne è un esploratore sia nella fantasia, sia nella vita di tutti i giorni. Ama viaggiare e soprattutto ama esplorare ambienti esotici. Pubblica il primo romanzo nel 1862, Cinque Settimane in Pallone, sottoscrivendo un contratto alquanto bizzarro: si lega per venti anni con un editore parigino. E' successo immediato, saranno oltre ottanta le opere nate dalla penna di questo prolifico scrittore, deceduto quasi alla soglia dei cento anno. Alcuni titoli, che chi legge questa recensione sicuramente conoscerà, sono 20.000 Leghe Sotto il Mare (1869), Il Giro del Mondo in 80 Giorni (1873), L'Isola Misteriosa (1875), Michele Strogoff (1876) e Il Raggio Verde (1882). Pubblicato in Francia e all'estero quando è ancora in vita, riesce persino, indirettamente, a far nascere un movimento di studiosi della sua opera che si dichiarano convinti che nell'opera del maestro si racchiudino messaggi criptati e passaggi che, nella forma dell'avventura meravigliosa esaltata da attente ricostruzioni geografiche, nascondino misteri celati agli occhi del mondo. Una sua frase tipica sarà profetica per quanto poi si verificò dopo le sue opere (si pensi all'invenzione del sommergibile, anticipato da Verne con il famoso Nautilus): tutto ciò che un uomo è in grado di immaginare, altri uomini saranno capaci di realizzare.



JULES VERNE


Il romanzo che qui ci apprestiamo ad analizzare, Voyage au Centre de la Terre, è il secondo pubblicato da Verne. Uscito nel 1864 riscuote subito un grande successo in termini di vendite sebbene l'asso transalpino riesca a fare molto meglio in seguito. L'opera è molto importante soprattutto per avere il merito di aver avviato un vero e proprio sottofilone, quello dei Mondi Perduti e più in particolare dei sotterannei segreti. Usciranno di lì a poco, su questa falsa riga, La Razza Ventura (1871) di Bulwer-Lytton, L'Altra Parte (1909) di Kubin, Il Mondo Perduto (1912) di Doyle, nonche svariate opere del nostro Emilio Salgari, tra le quali 2.000 Leghe Sotto l'America (1888), peraltro alimentate dalla successiva produzione verniana. Al di là di questo aspetto, non di secondaria importanza per la genesi della narrativa fantastica di fine ottocento / primi novecento, Viaggio al Centro della Terra non è un romanzo capolavoro. Andiamo però a evidenziare i meriti. In primo luogo Verne traccia la tipica figura dello scienziato di mezza età, integerrimo, scontroso, coraggioso e duro nei modi, ma dal cuore d'oro (come dimostrano le preoccupazioni per il nipote che si porta a seguito). Si tratta del tedesco Otto Lidenbrock, geologo e mineralogista che svolge il ruolo di Professore all'università, ma che va sempre alla caccia della scoperta che possa donargli gloria nei circoli accademici. Si tratta di un profilo che Conan Doyle andrà a ricalcare per il suo Challenger, protagonista di storie dal forte gusto verniano. Lidenbrock si porta al seguito il nipote, il giovane Axel, anche lui scienziato, ma molto più ragionevole e pragmatico, ma soprattutto innamorato perso per una giovane ragazza a cui pensa sempre. I due vivono ad Amburgo in Konigstrasse, è qui che ha inizio la storia, nello studio del Professor Otto, al cospetto di un raro volume scritto in runico appena acquistato da una biblioteca di un ebreo. I due trovano, celata tra le pagine, una pergamena con un messaggio scritto in runico che ha tutta l'aria di essere un crittogramma. Lidenbrock riesce presto a capire che la scritta porta la firma di Arne Saknussemm, noto alchimista islandese del XVI; tanto basta per mettere in moto la sete di avventura del professore. "Saknussemm potrebbe aver nascosto sotto il crittogramma qualche meravigliosa invenzione... Forse Galileo non ha fatto altrettanto con Saturno?"
Ha così inizio una vera e propria battaglia alla ricerca della chiave per sciogliere l'enigma criptato, peraltro reso compilicato dall'impiego di quattro distinte lingue. Ci riuscirà il nipote, scoprendo le istruzioni iniziali per giungere al centro della terra. Da qui ha inizio il viaggio dei due verso il luogo indicato dall'alchimista: il vulcano Sneffels, in Islanda, con una precisione particolare da accertare nel giorno del Solstizio d'Estate.

Lo scontro tra titani che vedrà i "nostri" protagonisti,
di lato sulla destra, a svariati chilometri sotto terra.

Questo l'inizio del romanzo che poi si snoda con le descrizioni di Copenaghen e da qui dell'Islanda, con Verne che dimostra una grande attenzione e un innegabile gusto nel descrivere città e soprattutto le panoramiche ambientali (grande fascino le visioni dei mari del nord alla caccia delle coste della Groenlandia). La storia scorre piuttosto lentamente, ma con stile brioso e aperto a tutti, specie gli adolescenti. Certo, gli appassionati di geologia e di biologia potranno divertirsi in modo maggiore, perché a Verne piace impreziosire il narrato con descrizioni tecniche e spiegazioni che vorrebbero dare verosimiglianza a quanto proposto al lettore. Quest'ultimo aspetto, in verità, andrà a perdersi nel corso d'opera, poiché Viaggio al Centro della Terra chiede molto al lettore in termini di sospensione dalla realtà, andando a cozzare anche con le scoperte e le giuste convinzioni scientifiche dell'epoca.
Aiutati da un glaciale islandese, un vero e proprio automa che risponde ai comandi del professore (sembra un terminator che non si scompone mai), i tre scenderanno nelle viscere della terra penetrando dal cratere di un vulcano spento e si abbandoneranno ai tortuosi budelli sotterranei. A guidarli saranno le scritte sui muri lasciate in runico da Saknussemm e poi un ruscello fatto fuoriuscire da un letto ostruito tra le mura dei sotterranei. Di Saknussem Lidenbrock dirà: "Genio meraviglioso! Tu non hai dimenticato nulla di ciò che doveva aprire ad altri mortali le vie della crosta terrestre, e i tuoi simili possono trovare le tracce che i tuoi piedi hanno lasciato tre secoli fa in fondo a questi oscuri sotterranei. Tu hai permesso che altri occhi contemplassero queste meraviglie. Il tuo nome, inciso di tappa in tappa, conduce diritto al suo scopo il viaggiatore così ardito da seguirti!"

La foreste di Prataioli.

Un po' come farà William Hope Hodgson ne La Terra dell'Eterna Notte (1912), Verne descrive i momenti in cui i tre si fermano a mangiare (pagine e pagine sulla crisi di sete e sulle difficoltà di rifornirsi di acqua potabile) o dissertano sulle possibili ragioni legate al fatto che la temperatura non aumenti piuttosto che sulle indicazioni sballate della bussola o sulla natura delle pietre o di quanto vadano a incontrare nel loro viaggio (in questo senso sono un po' stucchevoli le conclusioni a cui il Professore, di solito, giunge nel giro di un battito di ciglia, riconoscendo scheletri e piante antiche come se stesse facendo somme di numeri in doppia cifra). Alla fine il romanzo promette molto, specie quando i tre si imbattono in un oceano sotterraneo dove nel cielo si irradia una luce poco comprensibile che facilita la nascita di foreste di funghi giganti nonché la presenza di pesci eredi delle creature preistoriche (scontro tra un Ittiosauro e un Plesiosauro, roba da far felice Harryhausen ma non da stoppare i nostri che passano tra i due litiganti), ma mantiene poco. Proprio quando sembra che si entri nel vivo, il tutto prende la piega inverosimile con un Verne che non affonda dove forse avrebbe dovuto (evidentemente poco convinto anche lui). Si fa un accenno a creature umane gigantesche, se ne mostra addirittura una all'opera, pur se parzialmente celata dalla vegetazione, così come si fa cenno ai Mammuth, in una bella descrizione di uno sterminato cimitero di ossa su cui i tre si trovano a dover passeggiare, poi a poco a poco si scivola in un brutto finale. Davvero pessima la soluzione scelta da Verne perr riportare i tre in superficie, penalizza non poco il romanzo. Sull'epilogo è simpatica la scelta di far uscire i tre dal cratere dello Stromboli, così come l'omaggio alla becera superstizione degli italiani: "Non ci parve prudente raccontare come eravamo arrivati nell'isola; la tipica superstizione degli italiani li avrebbe indotti a ravvisare in noi qualche demone vomitato dall'inferno."
Il Volturno sarà il mezzo, uno dei postali delle Messaggerie Imperiali di Francia, che riporterà i tre verso la gloria, dopo aver resistito a mostri millenari, sete, fame, tenebre e per ore persino a un geyser di lava che li ha spinti per chilometri e chilometri verso il cielo italiano, nella terra in cui il dio Eolo teneva incatenati venti e tempeste (!?).

Questa la storia che Verne cerca di presentare alla stregua di un resoconto orchestrato dal filtro dei pensieri del giovane nipote di Lidenbrock, che scrive: "Ed ecco arrivata la fine d'un racconto a cui non vorranno prestar fede nemmeno le persone più abituate a non meravigliarsi si niente. Ma io sono corazzato in anticipo contro l'umana incredulità." Eppure è lo stesso Axel a non credere ai suoi occhi quando ha visto il gigante... "No! E' impossibile! I nostri sensi furono ingannati, i nostri occhi non possono aver visto tutto ciò che credono di aver visto!" E' in questo spunto finale che risiede l'interesse intrinseco nell'opera, cioè nella difficoltà dell'uomo di superare le consuetudini, schiavo di un assuefazione alle regole non scritte del comun vivere, al punto da non credere allo straordinario, al c.d. sense of wonder, neppure quando questo si paventa sotto gli occhi dei diretti interessati. Una situazione da dormienti o, ancor meglio, da anestetizzati alla mediocrità del comun vivere. Su questa chiave di lettura se ne innesta una seconda, più tecnica ma legata al medesimo ragionamento, ovvero la rigidità della scienza che tende a dare per verità assolute ricostruzioni talmente perfezionabili da essere stravolte dai fatti... Non  a caso Lidenbrock si troverà a dover combattere con colleghi che cercheranno di sconfessare fatti che, nella storia, sono stati provati, semplicemente perché contrastanti con scuole di pensiero troppo forti per esser cancellate con un semplice colpo di spugna. "Ogni teoria è incessantemente distrutta da una teoria più recente". Una situazione di arroganza tipica dell'uomo medio, che non ammette di esser superato, che non ammette di non poter comprendere, un po' come Axel che cerca di convincersi che non possono esistere quegli uomini giganti che lui stesso ha visto e che potrebbero scacciarlo con l'indice un po' come lui potrebbe fare con una pedina del subbuteo. Questo è Viaggio al Centro della Terra, un romanzo perfetto per i giovani lettori, forse un po' meno per gli adulti, trasposto svariate volte sul grande schermo ma con nessuna pellicola capace di superare il lavoro di Henry Levin del 1959. Lettura piacevole, ma nulla più.


«Discendi nel cratere dello Jokull di Sneffels che l'ombra dello Scartaris viene a lambire prima delle calende di luglio, viaggiatore ardito, e perverrai al centro della Terra. E questo ho fatto io, Arne Saknussemm.»

giovedì 14 maggio 2015

Recensioni Narrativa: I RACCONTI DI PIETROBURGO di Nikolaj Gogol.


Autore: Nikolaj Gogol.
Anno: 1835-42.
Genere: Surreale calato nel realismo quotidiano.
Pagine: 232.
Prezzo: 6,90 euro.

Commento di Matteo Mancini.
Quella che andiamo ad analizzare è un'antologia di appena cinque racconti scritti tra il 1835 e il 1842 dallo scrittore di origine ucraina Nikolaj Gogol, intitolata Peterburgskie Povesti. Si tratta della risultanza, postuma, attribuibile all'unione di alcuni racconti inseriti nell'antologia breve Arabeschi (1835) con altri aventi in comune con i primi l'ambientazione nella città russa nata dall'arte dell'architettura italiana: San Pietroburgo. Tale riunione la si deve al concorso di alcuni critici, ma soprattutto all'apporto di successivi colleghi della penna di Sorocincy (Poltava, Ucraina).
Mi piace allora procedere con un'introduzione in salsa gogoliana, lui l'autore considerato da tutti come un surrealista iperbolico e caustico, così folle da trasformare il frutto del suo estro onirico in ciò che è definito "realismo fantastico" poi non tanto lontano dalla realtà qua deformata e piegata al servizio di quei tratti grotteschi, ma al contempo fini e ben calibrati, liberati da un pennello che poco sembra interessarsi alla verosimiglianza e alla realtà, ma che in realtà la mette a nudo come solo un grande maestro può fare. "Che cos'è la vita nostra! Una perenne lotta della fantasia con la realtà! Tutto sulla Prospettiva è inganno, tutto delirio, tutto è altro da ciò che appare" dice Gogol ne La Prospettiva.
FEDORO DOSTOEVSKIJ dopo aver letto l'opera omnia di NIKOLAJ GOGOL disse, rivolgendosi ai suoi colleghi dell'epoca: "Siamo usciti tutti dal cappotto di Gogol", un'affermazione che ha portato qualcuno a esaltare più del dovuto il racconto a cui fa riferimento il celebre autore de L'Idiota e di Delitto e Castigo, non capendo che il riferimento di Dostoevshij è da intendersi in senso più ampio ovvero che tutti gli scrittori successivi, in ambito russo, sono stati influenzati in modo così forte (in particolare Bulgakov) che Il cappotto di Gogol diviene una sorta di ala protettettiva e dunque è da intendersi come "siamo tutti figliocci di Gogol." Del resto, come diceva Jorge Borges un buon scrittore e raro tanto quanto un buon lettore e Dostievski non è certo l'ultimo arrivato. E allora, prima di pensare che chi ha steso questa recensione abbia commesso un errore nello scrivere il cognome dell'autore moscovita, forse si dovrebbe partire dal concetto che lo stesso, in Italia, era chiamato col nome proprio di Teodoro (fino agli anni '40), motivo poco chiaro forse un refuso nella lettura del nome (una F trasformata in T), e che questo vuol dire dono di dio, curiosa contrapposizione per un pilastro monumentale della letteratura russa conosciuto anche per il romanzo Demoni e per un cratere sul pianeta Mercurio a lui dedicato. Ma non procediamo oltre, perché questa è una recensione dedicata all'opera di Gogol e non certo un modo per fare narrativa all'interno di una recensione, che pure non si è mai vista, o quanto meno si vede di rado, ma con gli iperbolici-surrealisti... può succedere di tutto...E allora galoppiamo subito nella vita dell'autore e andiamo a tracciarne un profilo artistico-culturale.

Il Maestro DOSTOEVKSKIJ per anni chiamato, in Italia,
Feodoro quando invece si chiamava Teodoro per via di un refuso
nella lettura del nome, è il primo a dire: SIAMO NATI DAL CAPPOTTO DI GOGOL

Nikolaj Gogol ha i natali il 20 marzo del 1809, ragazzo irrequieto e anche inquieto, dotato di una marcatissima ironia tendente al gusto per il grottesco. Riceve subito un'educazione che lo avvicina alla scrittura, dato che il padre è un commediografo, mentre la madre una piccola proprietaria terriera. Inizia a scrivere all'età di sedici anni, alternandosi inizialmente con l'attività di attore. Tra le opere del periodo si ricorda Qualcosa sul Nezin, ovvero per gli Stupidi la Legge non è Scritta, terminato il periodo di studio si getta nella carriera da burocrate. L'esperienza, evidentemente pessima, lo segnerà al punto tale da ripercuotersi in modo massiccio nei futuri racconti che poi ne decreteranno il valore. La critica, come spesso avviene, lo massacra, anche perché il buon Gogol non disdegna il ricorso alla satira, anzi ne fa un fortissimo uso. La situazione esaspera il giovane scrittore che distrugge le proprie opere e inizia un lungo peregrinaggio in giro per l'Europa, quello che si direbbe in certi ambienti un cross nation, alla ricerca della giusta ispirazione. Gira varie città della Germania, poi si trasferisce a Pietroburgo dove fa la conoscenza dello scrittore byroniano Aleksandr Puskin, celebre per la ghost story La Donna di Picche avente per protagonista un giocatore di carte. Personaggio anche quest'ultimo quanto mai bizzarro e unico, sempre alla ricerca del brivido, al punto da perdere la vita in un duello con un ufficiale francese intrapreso per il mero gusto della sfida. E' quest'ultimo a intuirne per primo il valore, al punto da fargli offrire, in veste di professore, una cattedra in storia all'Università di Pietroburgo. Siamo nel 1834. Gogol però è un soggetto che sembra uscito dai suoi stessi racconti, disordinato, passionale, senza peli sulla lingua e per nulla intimorito delle conseguenze determinate dai suoi scritti, sempre al vetriolo specie con gli apparati burocratici della società russa e con le abitudini sociali dell'epoca. In lui alberga poi una certa componente mistico-esoterica che ne guida la penna. In particolare vi è l'ossessione della presenza del male sulla terra, male da intendersi non tanto sotto il profilo criminologico-sociale, bensì quale frutto dell'interferenza di entità diaboliche. Impressioni queste ultime che sembrano suggerite da alcuni passaggi di diverse delle sue opere come espressioni quali "fatti assurdi accadono in questo mondo, da cui talvolta ogni verosimiglianza è bandita." I limiti caratteriali lo portano così ad abbandonare l'incarico (entra in polemica con gli studenti, a suo avviso irrispettosi nel non prestargli la giusta attenzione), non prima però di aver ultimato Arabeschi (1835) e la commedia Il Revisore. Scrive anche vari racconti horror, quali Vyi e Le Veglie alla Fattoria, spesso pubblicati su giornali locali (Il Contemporaneo)In questi anni porta in scena la commedia L'Ispettore Generale che però fa un fiasco clamoroso, ma così clamoroso che per la rabbia Gogol si fionda in un altro cross nation che lo porta infine in Italia, e per la precisione a Roma, in via Felice.
Negli ultimi anni di vita si concentra su quello che è definito il suo romanzo capolavoro ovvero Le Anime Morte, steso su spunto dell'amico Puskin. E' una genesi tormentata e combattuta, così come lo è il contenuto dell'opera che parla di una sorta di demone che vaga sulla terra per acquistare anime allo scopo di rafforzare il potere demoniaco e l'influenza di questo sulla società. Il testo, un po' faustiano, andrà a influenzare Il Maestro e Margherita di Bulgakov. Gogol stende più versioni, alcune vengono anche pubblicate, poi però brucia le più evolute perché in crisi psichica e psicologica (curioso leggere il suo Il Diario di un Pazzo, lenta discesa nella pazzia del protagonista che tiene un diario).
Sul volume I Maestri della Letteratura Fantastica, edizioni Edipem, si legge: "Gogol si lascerà morire per scongiurare l'aspetto tenebroso della sua opera, cui contava di dare un po' di luce, per bilanciare l'influenza del diavolo sulla terra".

Nikolaj Gogol.

Le cinque storie che formano l'antologia I Racconti di Pietroburgo hanno un comun denominatore molto forte, costituito non solo dal contesto ambientale (avviene tutto nella medesima città), ma soprattutto dalla cura prestata dall'autore nel descrivere società, usi e consuetudini della Pietroburgo dell'epoca, una città divisa tra russi e tedeschi. In tale humus Gogol traccia i profili dei personaggi delle proprie storie e pare interessarsi soprattutto a tre categorie di soggetti: i burocrati, gli artisti e i militari o poliziotti. Una distinzione sociale quasi platonica, con l'artista collocato sul piano più alto, quasi divino.
Tutte e cinque le storie, infatti, coinvolgono queste figure allo scopo di fungere da basi di partenza utili all'autore per mettere alla mercè le problematiche legate al funzionamento degli uffici pubblici (dipendenti tracciati quali individui oziosi, poco inclini a lavoro e annoiati, pur con delle eccezioni che vengono meleggiate dai colleghi), ma anche per delineare i diversi approcci alla vita che caratterizzano ciascuna di queste figure. In quest'ultimo senso sono degni di grande nota Il Ritratto e La Prospettiva che ruotano attorno alla figura dell'artista, e più in particolare del pittore, mettendola al confronto con quelle dei nobili e dei militari. Il punto di forza del testo, poi, è la meticolosa ricostruzione storico e culturale della Pietroburgo della metà dell'ottocento; parti di racconti come La Prospettiva sembrano usciti da un testo di sociologia dell'epoca, per quanto sono dettagliati nel descrivere la vita di città, soluzione questa che rallenta non poco le trame, ma al contempo si rivela assai gustosa per gli studiosi della società russa zarista. Gogol in questo funge da ispiratore di buona parte dei suoi connazionali, maestri del calibro di Dostoievkij, Tolstoj o Bulgakov che ne seguiranno la strada. Quest'ultimo, in particolare, si farà coinvolgere anche per l'innegabile gusto per l'insolito e soprattutto per il grottesco che in Gogol emerge in modo marcato. Nello specifico si afferma l'idea della presenza sulla terra di fantasmi, il più delle volte sembrano anime erranti che vagano per la città in cerca di vendette per ingiustizie subite in vita. Il caso più evidente si ha nel racconto Il Cappotto, su cui avremo modo di soffermarci in seguito, ma anche ne Il Ritratto con un usuraio che esce e rientra nel quadro che lo raffigura incarnando una sorta di figura di un demonio. Curiosa poi l'abitudine di Gogol di utlizzare spesse volte la parola "diavolo", sia come affermazione che come esclamazione, un vezzo forse non troppo casuale.
Che cosa è la vita nostra! Una perenne lotta della fantasia con la realta! così afferma l'autore che, di fatti, in tutti i suoi testi passa di continuo dalla realtà al sogno (emblematici i sogni in salsa scatola cinese che caratterizzano la prima parte de Il Ritratto, con un protagonista che sogna di sognare di svegliarsi da un sogno in cui sognava di svegliarsi).
L'opera si apre con quello che è il racconto più grottesco del lotto, tanto da portare il celebre critico bulgaro Tzvetan Todorov (ne La Letteratura Fantastica, n.d.c.) a classificarlo quale esempio di racconto anti-allegorico, un vero e proprio non-sense, soluzione peraltro suggerita dallo stesso Gogol che a fine racconto scrive: "Quello ch'è invero più strano e più incomprensibile di tutto il resto, è come gli autori possano scegliersi consimili soggetti. Confesso che ciò mi riesce del tutto incomprensibile". Stiamo parlando del famoso Il Naso, soggetto paradossale che vede un funzionario dotato di grandissimo olfatto perdere il proprio naso che si umanizza e se ne va in giro per Pietroburgo in veste di consigliere di stato. Il testo è una vera e propria "follia" letteraria difficile da decriptare, anche perché Gogol inserisce aspetti assurdi come il fatto che il naso venga ritrovato all'interno di un panino appena sfornato dal barbiere del protagonista (celebre per avere le mani sempre puzzolenti di tabacco, anche se l'unico che se ne accorge è proprio il titolare del naso). Altrettanto assurde sono le attività di indagine che il protagonista, tale Kovalov, cerca di mettere in piedi allertando capi della polizia svogliati, medici e giornalisti della testata Ape del Nord. La cosa curiosa è che ciascuno di questi individui prende come verosimile la storia narrata, ma per un motivo o un altro cerca di dissuadere il protagonista dalla ricerca. Sarà un vigile a recuperare il naso e a portarlo a casa di Kovalov, con quest'ultimo ben felice di recuperare la parte di corpo fuggitiva non tanto per poter riavere il suo olfatto, ma perché altrimenti non avrebbe potuto mostrarsi in pubblico in quanto menomato al giudizio altrui. "Senza il naso, un uomo lo sa il diavolo cosa rappresenta: non è né cristiano, né animale, né carne né pesce, è da prendere e buttare dalla finestra". E' forse in quest'ultimo aspetto, a mio avviso, il senso del racconto. Gogol vuole sottolineare come nella società della sua epoca, figurarsi oggi, è molto più importante la forma sulla sostanza, ovvero è più importante avere il naso in quanto componente visibile da tutti, che avere un grande olfatto(da intendersi quale caratteristica capace di fare la differenza e dunque virtù) o la capacità di saperlo usare, in quanto il giudizio su tale aspetto è prerogativa solo di pochissimi e quindi sacrificabile per il giudizio della massa. Sarebbe un po' come dire, come infatti emergerà nel racconto La Prospettiva, è molto più importante essere belli e avvenenti piuttosto che intelligenti e dotati di acume. Badate però, o voi che leggete, questa è solo una mia ricostruzione, peraltro di un racconto che il grande Todorov reputa privo di significati perché a suo avviso è "l'incarnazione pura dell'assurdo, dell'impossibile... quel che Gogol afferma è il non senso" poiché ogni parvenza di allegoria non sarebbe supportata da indicazioni esplicite all'interno del testo (cfr op.cit). Più esoterica e simbolica è invece la ricostruzione operata dall'opera francese I Maestri della Letteratura Fantastica, per la quale il naso sarebbe l'incarnazione del diavolo nella Santa Russia del XIX secolo e dunque Gogol avrebbe utilizzato una chiave di scrittura/lettura ben specifica per sottolineare le stramberie e le capacità di rottura agli schemi precostituiti di cui sarebbero capaci le creature dell'altrove. Ad avviso di chi scrive tale ricostruzione non è supportata dal resto del testo, poiché non spiega l'atteggiamento dei terzi rispetto alla vicenda ovvero i poliziotti, i giornalisti e i medici.

Sulla stessa falsa riga de Il Naso, quanto alla difficoltà di comprenderne il significato, è Il Giornale di un Pazzo, meglio tradotto in altre antologie come Il Diario di un Pazzo. Qua Gogol, non perdendo l'occasione per sparare frecciate di critica alla burocrazia e alla casta degli impiegati pubblici dell'epoca, mette in scena la lenta discesa nella pazzia di un protagonista paranoico e invaghito della figlia del suo superiore. E come fare per meglio rappresentare tale maelstrom mentale? Semplice, fa narrare in prima persona la storia dal protagonista nella forma del diario. Tale scelta permette così all'autore russo di evidenziare la lenta e costante degenerazione di chi tiene il diario, estrinsecata dalla comparsa di date e luoghi impossibili, discorsi sempre più sconnessi e assurdi (a un certo punto il protagonista inizia a sospettare di essere il Re della Spagna) fino a un epilogo dove viene suggerito il ricovero in manicomio, ovviamente dal filtro percettivo distorto del protagonista. Ne deriva un testo poi non così tanto piacevole da leggere, privo di una vera e propria trama, ma condito da un'ironia e un sarcasmo di fondo assai acuto come dimostra il seguente passaggio in cui Gogol lancia i suoi strali al cianuro: "Ancora non ho sentito dire in vita mia che un cane possa scrivere... ma i cani sono gente accorta, essi conoscono tutte le relazioni politiche".


Molto più interessanti e anche più lineari sono i restanti tre racconti. Il Cappotto è l'elaborato che abbiamo citato a inizio articolo in riferimento alla massima di Dostevkskij. E' la classica storia della narrativa russa tutta incentranta sul lavoro dell'impiego pubblico, con un protagonista assimilabile al Fantozzi di Paolo Villaggio, eccetto per le gaffe comiche e demenziali. Akakij Akakievic, questo il nome del protagonista (come nella tradizione russa una sorta di omen nomen, Dostoevskij farà altrettando con soggetti chiamati Dementev e cose del genere), è un impiegato pubblico modello, l'unico nel suo ufficio, che vive solo per lavorare. "A stento si sarebbe trovato un altro uomo che vivesse tanto nel proprio lavoro. Dire che prestava servizio con zelo sarebbe poco; no, egli prestava servizio con amore."  Preso in giro da quasi tutti, Akakievic se ne va a spasso sempre col solito cappotto logoro, finché un giorno un sarto non gliene confeziona uno nuovo di zecca. Per comprarlo, il dipendente pubblico deve fare grossi sacrifici, ma alla fine si aggiudica il capo. Invitato a una festa per festeggiare l'acquisto, Akakievic viene aggredito da alcuni manigoldi che gli rubano il cappotto prendendolo a cazzotti. Il furto è così grave per il povero uomo che lo porta alla malattia, determinata anche dall'atteggiamento vago della polizia, oltre che di un c.d. personaggio considerevole, suo superiore, che invece di aiutarlo lo tratta a pesci in faccia, figurativamente parlando e dimostrando tutta l'arroganza di certe posizioni di alto lignaggio: "Ignorereste voi l'ordine gerarchico? Dove credete di essere? Ignorereste voi a tal punto gli usi in questo genere di affari? Voi avreste dovuto prima presentare la vostra richiesta in cancelleria; essa sarebbe quindi passata al capufficio, da lui al capodivisione, quindi al suo segretari, il quale me l'avrebbe presentata... Che, che che? Dove prendete un simil ardimento? Dove avete colto simili idee? Che specie di spirito di insubordinazione s'è diffuso oggidì fra i giovani verso i loro capi e superiori! Sapete voi a chi state tenendo un simile linguaggio? Capite davanti a chi vi trovate? Capite questo? Lo capite? Vi chiedo!" Eloquente l'atteggiamento di Gogol verso il potere costituito con la figura di questo "personaggio considerevole" che ben rappresenta, seppur estremizzato, la visione dell'autore ucraino relativa alle più alte cariche della russia zarista. E' qui che il racconto, fin lì piuttosto lento nello sviluppo, si trasforma e passa dal realismo al fantastico puro, perché Akakievic muore di crepacuore per ritornare in forma ectoplasmatica con un solo scopo: togliere i cappotti a tutti coloro che passeggiano sulla Prospettiva Nevskij, così come era stato fatto a lui, finché non sarà sua vittima proprio quel personaggio considerevole di cui non viene fatto il nome. Bello l'epilogo dove, oltre al fantasma di Akakievic, al cospetto di un vigile appaie un altro fantasma in cerca di vendetta, a dimostrazione che i fatti che avvengono sulla Prospettiva vanno oltre al sensibile, toccano infatti l'extrasensibile: "Io sempre mi avvolgo più stretto nel mantello (ecco il riferimento operato da Dostoevskij), quando ci passo, e sto attento a non guardare gli oggetti circostanti. Tutto qui è inganno, tutto delirio, tutto è altro da ciò che appare."

Veniamo allora al testo in cui Gogol dedica interesse specifico a questa strada principale di Pietroburgo, ovvero La Prospettiva. Nella prima parte del racconto la penna ucraina si dilunga nella descrizione della fauna umana che è solita popolare il viale, facendo distinzione tra una fascia oraria e l'altra. Lo spunto è necessario per portare il lettore al cospetto di due personaggi che stanno passeggiando sulla Prospettiva Nevskij, allo scopo di mostrare il loro diverso approccio verso l'amore per una donna. Da una parte abbiamo un militare casanova, dall'altro un artista (pittore). Entrambi notano una donzella, una ciascuno, e decidono, dopo essersi salutati, di seguirle. Mentre il primo è un guascone e sfacciato, il secondo è un timido e pudico di buone maniere eppure isolato da tutti a differenza del primo che è influente. A questo punto il racconto si divide in due parti: una è la storia che riguarda il pittore, l'altra il militare. Comune alle due sarà l'epilogo, ma mentre l'artista è un puro di cuore che ricerca, anche piuttosto ingenuamente, l'essenza dell'amore da tradursi in una complicità che travalica la fisica, il militare invece è a caccia di soddisfazioni materiali. I rifiuti, anche se il termine non è corretto (paradossalmente il rifiuto lo subisce il guascone, mentre il timido andrebbe in buca se solo al suo posto ci fosse il militare), pertanto avranno effetti ben diversi. Il pittore infatti viene accolto dalla donzella, che in realtà è una prostituta (anche se Gogol lo suggerisce soltanto), ma non ne accetta la sua vera natura e cerca di redimerla non riuscendoci, tanto da rinchiudersi in un mondo di fantasia che lo porterà alla morte di crepacuore (soluzione evidentemente cara a Gogol, che poi farà una fine simile a quella dei suoi personaggi prediletti). Il militare viene invece respinto dalla sua scelta, una tedesca sposata, ma ha così tanti soldi da amicarsi il marito (un sarto) fino a tentare il colpaccio e baciare la sposa. Gli andrà male, perché scoperto subirà una dura punizione dal clan tedesco che tuttavia non ne minerà lo spirito, poiché, come si suol dire, persa un'occasione ce ne sono altrettante da cogliere. Bello, nel testo, la visione di Gogol sulla bellezza femminile, così scrive: "La stupidità costituisce in una bella moglie un particolare incanto. Ho conosciuto molti mariti che vanno pazzi per la stupidità delle proprie mogli, e vi scorgono i segni dell'innocenza infantile. La bellezza fa autentici miracoli. Ogni difetto morale di una bella donna, lungi dal generare repulsione, diventa invece al massimo grado attraente; il vizio stesso spira leggiadria; ma scompaia la bellezza, e una donna dovrà essere venti volte più intelligente di un uomo per attirarsi, non dico amore, ma almeno stima".

La PROSPETTIVA NEVSKIJ fine '800.

Chiudo la recensione con quello che è, a mio avviso, il capolavoro del volume: Il Ritratto. Si tratta di un testo base per tutta una serie di racconti incentrati sul tema del quadro e del soggetto che, racchiuso al suo interno, torna a vivere e a interagire con l'esterno. Peraltro ricorda un mio racconto horror che presentai, nel 2010 circa, a una serata di letture al cinema Lumiere di Pisa, senza che venisse letto (lo inserii poi nella mia antologia Sulle Rive del Crepuscolo, quasi tutta costituita da opere secondarie della mia piccola produzione creativa), ma soprattutto ha dei passaggi che ricordano Il Modello Pickman di H.P. Lovecraft o Il Rondache di Leonardo di Manly Wellman. Gogol qua traccia un elaborato, diviso anch'esso in due parti, che è uno spettacolo da leggere, sia per il contenuto intrinseco sia per la storia in sé e per sé. Un pittore di talento, ma sconosciuto, acquista un quadro (è il ritratto di un usuraio dagli occhi diabolici usato come modello del diavolo) sommerso da una caterva di opere e ne rimane così impressionato da vivere un sogno (incubo) in cui sogna di sognare di svegliarsi da un sogno in cui sognava di sognare. Da qui ha inizio la storia che lo porta ad arricchirsi d'improvviso, poiché all'interno della cornice del quadro trova innavvertitamente (viene rotta da un commissario dalle "manone") un piccolo tesoretto. Con i soldi, il giovane artista riesce a comprare una recensione scritta da un giornalista profumatamente retribuito che ne incensa il valore e le qualità, paragonandolo a Van Dyck e Tiziano. Grazie alla pubblicità, già all'epoca (sic!), da perfetto sconosciuto (o meglio conosciuto solo nell'underground artistico), il pittore diviene famoso e tutte le personalità vogliano farsi immortalare da lui a prescindere poi della qualità dell'opera ("Ma che opera! Questo è un vero Correggio! Confesso che avevo sentito parlare di voi ma non immaginavo un simile talento!"), poiché ciò che conta è la pubblicità. Ancora una volta emerge il rapporto tra forma e sostanza. Gogol lo evidenzia con passaggi da grande maestro, distinguendo, già allora, tra opere commerciali e opere autoriali. "Sta attento a non diventare un pittore alla moda: già adesso il tuo colore comincia a essere troppo vistoso; il disegno non è sicuro, la linea è confusa; tu ricerchi gli effetti di luce alla moda, ciò che colpisce l'occhio di primo acchito... stà attento che non ti capiti di fare alla maniera inglese. Bada a te: il mondo già comincia ad attirarti... e ci si può buttare a fare quadri alla moda per denaro; ma in questo modo il talento muore, non si sviluppa. Pazienta; matura ogni tua opera; lascia perdere l'eleganza, i quattrini li raccolgono gli altri, così ciò che è davvero tuo non ti abbandonerà". Chiaramente il protagonista si farà prendere dalla bella vita, dai soldi, dalla notorietà, ma a che prezzo...? La perdita del talento e da questa alla gelosia e all'odio verso coloro (specie se i più giovani visti dai colleghi più anziani come degli irrispettosi) che quel talento ce l'hanno davvero, al punto da cercare di criticarli, di danneggiarli e di esprimere commenti che lui stesso sa di non pensare (viene infatti invitato in veste di giurato e di critico), fino a distruggere le opere altrui che comprende essere superiori alle proprie. Nella seconda parte del testo, Gogol racconterà la storia del quadro iniziale da cui tutto ha avuto inizio, ma si tratta più di un'invenzione narrativa strumentale per parlare di quanto sopra accennato. A proposito, l'epilogo all'asta col quadro che svanisce nel nulla sembra uscito dalla penna di Arthur Conan Doyle. Curioso poi che nel mio racconto a sparire era il soggetto immortalato nel quadro, mentre in Gogol a sparire è l'oggetto mentre davanti a esso c'è un misterioso soggetto (definito solo come "artista") che si presenta come il figlio dell'autore del quadro, almeno così dice per giustificare di volerlo distruggere, ma poi alla fine tutti resteranno a bocca aperta....

"E appariva chiaro anche ai non iniziati l'incommensurabile abisso che separa una creazione da una volgare copia della natura... Quella composizione pareva frattanto librarsi sempre più in alto: sempre più splendente e portentosa, si staccava da tutto per divenire l'immagine di un'idea volata giù dal cielo sul pittore... Immobile, con la bocca aperta, stava Cartkov davanti al quadro..."

Non mancano ancora una volta le frecciate di Gogol alla sua società, sempre orientate a porre l'artista sul piano più alto della società un po' come Platone metteva i filosofi, al punto da dar vita pure lui a una sorta di embrionale filosofia politica tesa a condannare la democrazia a favore della monarchia:  "Di mecenati non se ne trovano più e il nostro XIX secolo è ormai dominato dalla squallida fisionomia del banchiere che si gode i suoi milioni soltanto sotto l'aspetto di cifre allineate... Sotto i regimi monarchici non si soffocano gli alti e nobili moti dell'animo, né si disprezzano e perseguitano le creazioni dello spirito, della poesia e delle arti; solo i monarchi le incoraggiarono; che gli Shakespeare, i Molière, fiorirono sotto il generoso usbergo, laddove Dante non poté trovare angolo di terra che lo reggesse nella sua patria repubblicana; che i veri geni sorgono nelle epoche di splendore e di potenza dei sovrani e degli imperi, e non nelle epoche di disordinati movimenti politici e di agitazione repubblicana, le quali finora non hanno dato al mondo un solo poeta... I dotti, i poeti e tutti coloro che praticano le arti, sono le perle e i brillanti della corona imperiale: di essi s'adorna e maggior lustro ne trae l'epoca di un grande sovrano." Gogol prosegue con l'analisi della figura di quello che secondo lui dovrebbe essere il vero artista (uno che non persegue il successo né cavalca le mode del momento, ma colui che ricerca in tutto l'alto segreto della creazione) e impreziosisce così quello che può, a ragione, definirsi un vero capolavoro. Vale da solo la lettura dell'intera antologia.

GOGOL il grande.

"Mi pare che condividere i propri pensieri, i propri sentimenti e le proprie impressioni con un altro essere sia una delle più grandi consolazioni al mondo" (N. Gogol - Il Giornale di un Pazzo).