Autore: Abraham Merritt.
Titolo Originale: The Ship of Ishtar.
Traduzioni: A. Pollini.
Anno: 1924.
Genere: Fantasy.
Collana: Futuro - Biblioteca di Fantascienza. Numero 39.
Editore: Fanucci, 1978.
Pagine: 242.
Prezzo: Trattativa privata.
A cura di Matteo Mancini.
Torniamo a parlare di Abraham Merritt, già presentato in occasione della recensione di Sette Passi Verso Satana (1927), e lo facciamo con quello che è, forse, il capolavoro della sua intera produzione.
The Ship of Ishtar, pubblicato per la prima volta in Italia da Fanucci come Il Vascello di Ishtar nel 1978, viene dato alle stampe negli Stati Uniti nel 1924. Esce in sei puntate sulla rivista Argosy, finendo presto acclamato dai lettori (in base ad apposito referendum) quale il miglior romanzo pubblicato sulla rivista nei primi cinquant'anni di vita della stessa (1888-1938).
Merritt lo presenta dopo aver già conquistato consensi col romanzo di debutto The Moon Pool (1919), seguito dal non altrettanto entusiasmante The Metal Monster (1920) e da The Face in the Abyss (1923). E' tuttavia con The Ship of Ishtar, definito "un romanzo iniziatico incentrato sul mistero della coincidentia oppositorum", che il nome Abraham Merritt entra nella leggenda della narrativa fantastica e anche del fantasy, donando notorietà al suo autore prima ancora della sua morte.
Lo scrittore, nonché apprezzatissimo giornalista americano, trasla il feuilleton ottocentesco, fatto di storie di amore, personaggi ben caratterizzati e avventure in cappa e spada, nella narrativa fantastica pulp. Prende le mosse dalla realtà, addirittura in una caotica New York, per oltrepassare porte multidimensionali che proiettano il protagonista, un giovane archeologo, in un mondo parallelo ideato da due divinità babilonesi in perenne lotta e intente a darsi contro per mezzo di uomini e donne votati all'una o all'altra fede.
Gianfranco De Turris, nella prefazione dell'edizione del 1978 della Fanucci, scrive che "il mondo sui cui mari fosforescenti naviga il Vascello della dea babilonese non coesiste con il mondo che conosciamo... Si tratta di un universo mitologico, retto da criteri magico-simbolici dove il fantastico è connaturale, nella logica delle cose e dei fatti, non producendo una frattura nella realtà comune." Ecco che si assiste a un classico esempio di sword and sorcery che anticipa il mondo del Conan di Robert Ervin Howard, apparso sulla scena narrativa nel 1932, così come gli altri mondi tracciati dall'autore texano (apparirà per la prima volta su weird tales solo un anno dopo l'uscita del romanzo di Merritt), e lo fa ponendo al centro della storia, quale vero e proprio elemento trainante, l'amore (tra uomo e donna).
Si, Il Vascello di Ishtar, tra le molte cose, è soprattutto una storia di amore o meglio di una serie di storie di amori impossibili, dannate e destinate a portare alla morte. Merritt pare in linea con la filosofia cardinale del pensiero di Empedocle, che vedeva nella lotta tra Amore e Discordia il fulcro della vita e dell'esistenza dell'uomo. Qua abbiamo, non a caso, due divinità in lotta perenne: Ishtar, la Dea dell'Amore, e Nergal, il Dio della Morte. L'uomo non è vittima designata degli eventi né una nullità per la quale le divinità non nutrono interesse. No, è una vera e propria pedina su una scacchiera, un qualcuno in grado di spostare gli equilibri di un gioco che va oltre la sua semplice vita. Tuttavia è un essere imperfetto, un giocattolo in mano degli Dei che lo usano per manifestarsi e cercare di prevalere l'uno sull'altro, in un'ottica narcisistica fatta di invidie e superiorità.
Merritt cela nel testo molti spunti di riflessione, passaggi filosofico/esistenziali che coinvolgono la religione, ma anche il senso della vita. In quest'ultimo senso potremmo cercare di intuire, quale fine ultimo, il superamento della dicotomia che vizia la creazione a causa di un pantheon di dei in conflitto tra loro, così da elevare l'uomo al di sopra degli stessi dei. Lo capiamo nel V capitolo, quando i due condannati dall'ira divina riescono a superare i sortilegi e i limiti imposti, per potersi toccare e baciare (trovando così la morte). "Si baciarono, avvinti. Caddero sul ponte... morti, l'uno tra le braccia dell'altra. Né Ishtar né Nergal avevano vinto. No. Erano stati l'amore dell'uomo e l'amore della donna a trionfare." Ne deriva un piglio e un'impronta estremamente romantica, ai limiti della sensibilità femminile, seppur un po' fatalista, in una proiezione che vede altrimenti la morte quale unica cosa equa nell'esistenza ("la morte è la sola cosa di cui gli Dei non possono defraudarci... E' superiore agli Dei, incurante e più forte di loro, perché anche gli Dei devono morire!"), un traguardo cui tendere con la speranza di non subire troppe sofferenze. "La vita è un gioco... Le cose che hai visto e le cose che hai fatto, cosa contano, quando la corsa è terminata? Come non fossero mai esistite... Meglio esser morto che vivo, ma meglio ancora non essere mai nato." Questa la conclusione, senza l'amore. Una vita senza amore, sembra volerci dire The Ship of Ishtar, è una vita che non merita di esser vissuta, perché inidonea a superare la dicotomia che solo l'uomo risvegliato può sperar di poter realizzare. Ed ecco che, tramite il suo protagonista, Merritt lancia uno sfogo che suona quale urlo, una sorta di arringa difensiva atta a debellare quella che i cristiani chiamerebbero l'onta del peccato originale. L'uomo è imperfetto, portato a violare le leggi divine per via di un vizio di origine dovuto a un errore di creazione di Dio. E' allore Dio a doversi ritenere il vero responsabile dei peccati dell'uomo, per non aver reso perfetta la sua creatura. E se così è, non ha senso opprimere l'uomo con sofferenze e infelicità, angosce e dolori, né con punizioni, "perché esso non è altro che una marionetta, danzante per tutta l'esistenza."
Ed è proprio la parabola della cacciata dall'Eden che, per via totalmente diversa, sembra riaffiorare dalle pagine de The Ship of Ishtar. Tutto nasce infatti dalla violazione di un (folle, perché utile solo a soddisfare gli atteggiamenti bizzosi degi Dei) precetto divino da parte di un uomo e di una donna, innamorati persi l'uno dell'altra, sebbene entrambi incarnino l'ideale frutto velenoso da scartare in un complesso mare magnum di soluzioni alternative. I due, infatti, sono i portali di accesso attraverso i quali si manifestano le due divinità contrapposte, che non possono certo trovare albergo in due individui intenti ad amoreggiare. La punizione che ne deriva, scoperti da entrambe le divinità, è la cacciata dal mondo di appartenenza, relegati, insieme a un seguito di altri condannati per aver offeso il divino, su una nave intenta a solcare un infinito mare. un peregrinare infinito che si fa teatro di battaglia per "amore e odio" per quella che diviene una guerra continua. Non ha alcuna rilevanza il tentativo di difesa dei due innamorati, costretti a dimorare in un luogo che permette loro di vedersi ma non di baciarsi o di toccarsi (per effetto di una serie di sortilegi), che accusano le divinità di aver fallito. "Tu sei la creatrice dell'amore, se volevi che vincesse ogni cosa, perché l'hai reso tanto potente? O se l'Amore è divenuto più forte di te che lo hai creato, come possiamo noi, un uomo e una donna, venire biasimati perché non abbiamo saputo sopraffarlo? E se l'amore non è più forte di te, tuttavia lo hai reso più forte dell'uomo. Perciò punisci l'amore tuo figlio... non noi."
La condanna dell'uomo e della donna, incapaci di resistere al richiamo dell'amore, è la costante di tutto il testo, ma meglio ancora è la sostanza del percorso che traccia la vita. Bellissimo il capitolo, di valenza iniziatica, in cui il protagonista, guidato da un sacerdote che ha i suoi stessi lineamenti e che è anch'esso corrotto da un amore impossibile, sfida i templi dei vari Dei pur di poter abbracciare il frutto proibito della sua passione, la dea Ishtar, promessa sposa di un Dio, chimera evanescente per il mediocre uomo. Un cammino suicida che non può esser frenato, poiché "neppure la potenza di Dio può schiacciare il desiderio dell'uomo."
Queste le tematiche di un romanzo che fa ampio sfoggio del sense of wonder, costruendo scenografie fantastiche e immaginifiche, proponendo battaglie a colpi di spada e di bastoni, in un'atmosfera granguignolesca e per l'epoca persino erotica, in cui non mancano conflitti navali, fughe ed evasioni. Il tutto in un contesto che trasuda di magie e sortilegi, speranze e sogni a occhi aperti. Una fuga dalla realtà che cerca risposte per giustificare la realtà stessa e che vede nel mondo contemporaneo un qualcosa di scaduto, non impreziosito da quell'epica propria dei mondi perduti che funge da vera molla per l'evoluzione spirituale (Merritt, evidentemente, come Howard sogna un uomo d'azione). Il protagonista stesso, uomo del giorno d'oggi, rinnega la propria epoca (fa di tutto per non ritornare nel suo mondo, sebbene ogni tre ore, si ritroverà nella camera da letto da cui tutto è partito, rompendo un sigillo di uno strano reperto babilonese) e, contaminato dall'amore, si trasforma da banale archeologo a vero e proprio eroe, acquisendo una struttura muscolare e un atteggiamento impavido che, di certo, sarebbero stati graditi a uno scrittore del calibro di R.E. Howard.
De Turris parla di "contrapposizione tra un mondo sciocco depauperato dal buon gusto e mondi in cui il mistero, le passioni, l'avventura, l'esaltazione delle facoltà fisiche e intellettuali sono ancora possibili" e dunque molle capace di operare un cambiamento, fisico e psichico, che eleva l'uomo in una visione da superuomismo piuttosto che da eremita trascendente.
Il critico, nonché studioso di fantastico, Jacques Bergier ha parlato de The Ship of Ishtar nei termini di un "capolavoro straordinario che si distingue dal resto della produzione di Merritt sia per l'erotismo che per lo svolgersi in una realtà priva di tempo." In realtà, il romanzo si svolge nell'arco temporale di nove ore, questo il periodo che il protagonista riesce a contare nella vita di tutti i giorni, da cui però si assenta, per effetto di trance che lo conducono in un mondo fantasioso dove il tempo sembra dilatarsi per periodi molto più lunghi e in cui subisce mutazioni fisiche, riporta ferite e acquisisce oggetti che poi riscontra, risvegliandosi dalla trance, nel mondo reale.
Il romanzo, dopo esser stato pubblicato dalla Fanucci nel 1978, ha beneficiato di una seconda ristampa nel 1990, nella collana "I Maestri del Fantastico" ed è stato di recente riproposto (nel gennaio del 2018), nella sua versione originaria e integrale, corredato di analisi e note, dagli "amici" de Il Palindromo (prezzo 20 euro circa). Una pubblicazione, quest'ultima, che rende omaggio al testo e che accresce l'importanza dell'editore palermitano nel ruolo di divulgatore dei grandi maestri della letteratura fantastica.
Dunque un romanzo cardinale nell'ambito della narrativa fantasy, che giostra sulle relazioni tra uomini e dei (ispirerà, tra gli altri, la produzione di Roger Zelazny), riproponendo, a mio modo di vedere, la parabola biblica della cacciata dall'Eden, in vista dell'irta strada dell'evoluzione spirituale (il superamento del contrasto Amore e Odio). Una soluzione, quest'ultima, che vede nella morte lo sbocco per annullarsi col divino che sta oltre ogni contrapposizione: "Alla fine, come tutti gli uomini, torno agli Dei dei miei padri" dice un personaggio secondario. Non c'è pace nella vita, il frutto vero dell'amore sta oltre la stessa. Merritt si dimostra scrittore romantico, legato a tematiche che hanno nell'amore il sentimento che smuove gli uomini e funge da motrice di ogni azioni umana, più forte di tutto, anche degli Dei. Non mancano simbolismi (si veda il ruolo delle colombe), metafore esoteriche per quello che è un testo scritto con grande eleganza in un mix capace di garantire intratteniemento spiccio e stimolo esoterico. Ogni appassionato di narrativa fantastica e/o fantasy dovrebbe averlo nella propria biblioteca.
"Cos'è l'odio se non la fiamma che purifica la coppa per il vino dell'amore?"
The Ship of Ishtar, pubblicato per la prima volta in Italia da Fanucci come Il Vascello di Ishtar nel 1978, viene dato alle stampe negli Stati Uniti nel 1924. Esce in sei puntate sulla rivista Argosy, finendo presto acclamato dai lettori (in base ad apposito referendum) quale il miglior romanzo pubblicato sulla rivista nei primi cinquant'anni di vita della stessa (1888-1938).
Merritt lo presenta dopo aver già conquistato consensi col romanzo di debutto The Moon Pool (1919), seguito dal non altrettanto entusiasmante The Metal Monster (1920) e da The Face in the Abyss (1923). E' tuttavia con The Ship of Ishtar, definito "un romanzo iniziatico incentrato sul mistero della coincidentia oppositorum", che il nome Abraham Merritt entra nella leggenda della narrativa fantastica e anche del fantasy, donando notorietà al suo autore prima ancora della sua morte.
Lo scrittore, nonché apprezzatissimo giornalista americano, trasla il feuilleton ottocentesco, fatto di storie di amore, personaggi ben caratterizzati e avventure in cappa e spada, nella narrativa fantastica pulp. Prende le mosse dalla realtà, addirittura in una caotica New York, per oltrepassare porte multidimensionali che proiettano il protagonista, un giovane archeologo, in un mondo parallelo ideato da due divinità babilonesi in perenne lotta e intente a darsi contro per mezzo di uomini e donne votati all'una o all'altra fede.
Gianfranco De Turris, nella prefazione dell'edizione del 1978 della Fanucci, scrive che "il mondo sui cui mari fosforescenti naviga il Vascello della dea babilonese non coesiste con il mondo che conosciamo... Si tratta di un universo mitologico, retto da criteri magico-simbolici dove il fantastico è connaturale, nella logica delle cose e dei fatti, non producendo una frattura nella realtà comune." Ecco che si assiste a un classico esempio di sword and sorcery che anticipa il mondo del Conan di Robert Ervin Howard, apparso sulla scena narrativa nel 1932, così come gli altri mondi tracciati dall'autore texano (apparirà per la prima volta su weird tales solo un anno dopo l'uscita del romanzo di Merritt), e lo fa ponendo al centro della storia, quale vero e proprio elemento trainante, l'amore (tra uomo e donna).
Si, Il Vascello di Ishtar, tra le molte cose, è soprattutto una storia di amore o meglio di una serie di storie di amori impossibili, dannate e destinate a portare alla morte. Merritt pare in linea con la filosofia cardinale del pensiero di Empedocle, che vedeva nella lotta tra Amore e Discordia il fulcro della vita e dell'esistenza dell'uomo. Qua abbiamo, non a caso, due divinità in lotta perenne: Ishtar, la Dea dell'Amore, e Nergal, il Dio della Morte. L'uomo non è vittima designata degli eventi né una nullità per la quale le divinità non nutrono interesse. No, è una vera e propria pedina su una scacchiera, un qualcuno in grado di spostare gli equilibri di un gioco che va oltre la sua semplice vita. Tuttavia è un essere imperfetto, un giocattolo in mano degli Dei che lo usano per manifestarsi e cercare di prevalere l'uno sull'altro, in un'ottica narcisistica fatta di invidie e superiorità.
Merritt cela nel testo molti spunti di riflessione, passaggi filosofico/esistenziali che coinvolgono la religione, ma anche il senso della vita. In quest'ultimo senso potremmo cercare di intuire, quale fine ultimo, il superamento della dicotomia che vizia la creazione a causa di un pantheon di dei in conflitto tra loro, così da elevare l'uomo al di sopra degli stessi dei. Lo capiamo nel V capitolo, quando i due condannati dall'ira divina riescono a superare i sortilegi e i limiti imposti, per potersi toccare e baciare (trovando così la morte). "Si baciarono, avvinti. Caddero sul ponte... morti, l'uno tra le braccia dell'altra. Né Ishtar né Nergal avevano vinto. No. Erano stati l'amore dell'uomo e l'amore della donna a trionfare." Ne deriva un piglio e un'impronta estremamente romantica, ai limiti della sensibilità femminile, seppur un po' fatalista, in una proiezione che vede altrimenti la morte quale unica cosa equa nell'esistenza ("la morte è la sola cosa di cui gli Dei non possono defraudarci... E' superiore agli Dei, incurante e più forte di loro, perché anche gli Dei devono morire!"), un traguardo cui tendere con la speranza di non subire troppe sofferenze. "La vita è un gioco... Le cose che hai visto e le cose che hai fatto, cosa contano, quando la corsa è terminata? Come non fossero mai esistite... Meglio esser morto che vivo, ma meglio ancora non essere mai nato." Questa la conclusione, senza l'amore. Una vita senza amore, sembra volerci dire The Ship of Ishtar, è una vita che non merita di esser vissuta, perché inidonea a superare la dicotomia che solo l'uomo risvegliato può sperar di poter realizzare. Ed ecco che, tramite il suo protagonista, Merritt lancia uno sfogo che suona quale urlo, una sorta di arringa difensiva atta a debellare quella che i cristiani chiamerebbero l'onta del peccato originale. L'uomo è imperfetto, portato a violare le leggi divine per via di un vizio di origine dovuto a un errore di creazione di Dio. E' allore Dio a doversi ritenere il vero responsabile dei peccati dell'uomo, per non aver reso perfetta la sua creatura. E se così è, non ha senso opprimere l'uomo con sofferenze e infelicità, angosce e dolori, né con punizioni, "perché esso non è altro che una marionetta, danzante per tutta l'esistenza."
L'autore ABRAHAM MERRITT
Ed è proprio la parabola della cacciata dall'Eden che, per via totalmente diversa, sembra riaffiorare dalle pagine de The Ship of Ishtar. Tutto nasce infatti dalla violazione di un (folle, perché utile solo a soddisfare gli atteggiamenti bizzosi degi Dei) precetto divino da parte di un uomo e di una donna, innamorati persi l'uno dell'altra, sebbene entrambi incarnino l'ideale frutto velenoso da scartare in un complesso mare magnum di soluzioni alternative. I due, infatti, sono i portali di accesso attraverso i quali si manifestano le due divinità contrapposte, che non possono certo trovare albergo in due individui intenti ad amoreggiare. La punizione che ne deriva, scoperti da entrambe le divinità, è la cacciata dal mondo di appartenenza, relegati, insieme a un seguito di altri condannati per aver offeso il divino, su una nave intenta a solcare un infinito mare. un peregrinare infinito che si fa teatro di battaglia per "amore e odio" per quella che diviene una guerra continua. Non ha alcuna rilevanza il tentativo di difesa dei due innamorati, costretti a dimorare in un luogo che permette loro di vedersi ma non di baciarsi o di toccarsi (per effetto di una serie di sortilegi), che accusano le divinità di aver fallito. "Tu sei la creatrice dell'amore, se volevi che vincesse ogni cosa, perché l'hai reso tanto potente? O se l'Amore è divenuto più forte di te che lo hai creato, come possiamo noi, un uomo e una donna, venire biasimati perché non abbiamo saputo sopraffarlo? E se l'amore non è più forte di te, tuttavia lo hai reso più forte dell'uomo. Perciò punisci l'amore tuo figlio... non noi."
La condanna dell'uomo e della donna, incapaci di resistere al richiamo dell'amore, è la costante di tutto il testo, ma meglio ancora è la sostanza del percorso che traccia la vita. Bellissimo il capitolo, di valenza iniziatica, in cui il protagonista, guidato da un sacerdote che ha i suoi stessi lineamenti e che è anch'esso corrotto da un amore impossibile, sfida i templi dei vari Dei pur di poter abbracciare il frutto proibito della sua passione, la dea Ishtar, promessa sposa di un Dio, chimera evanescente per il mediocre uomo. Un cammino suicida che non può esser frenato, poiché "neppure la potenza di Dio può schiacciare il desiderio dell'uomo."
Queste le tematiche di un romanzo che fa ampio sfoggio del sense of wonder, costruendo scenografie fantastiche e immaginifiche, proponendo battaglie a colpi di spada e di bastoni, in un'atmosfera granguignolesca e per l'epoca persino erotica, in cui non mancano conflitti navali, fughe ed evasioni. Il tutto in un contesto che trasuda di magie e sortilegi, speranze e sogni a occhi aperti. Una fuga dalla realtà che cerca risposte per giustificare la realtà stessa e che vede nel mondo contemporaneo un qualcosa di scaduto, non impreziosito da quell'epica propria dei mondi perduti che funge da vera molla per l'evoluzione spirituale (Merritt, evidentemente, come Howard sogna un uomo d'azione). Il protagonista stesso, uomo del giorno d'oggi, rinnega la propria epoca (fa di tutto per non ritornare nel suo mondo, sebbene ogni tre ore, si ritroverà nella camera da letto da cui tutto è partito, rompendo un sigillo di uno strano reperto babilonese) e, contaminato dall'amore, si trasforma da banale archeologo a vero e proprio eroe, acquisendo una struttura muscolare e un atteggiamento impavido che, di certo, sarebbero stati graditi a uno scrittore del calibro di R.E. Howard.
De Turris parla di "contrapposizione tra un mondo sciocco depauperato dal buon gusto e mondi in cui il mistero, le passioni, l'avventura, l'esaltazione delle facoltà fisiche e intellettuali sono ancora possibili" e dunque molle capace di operare un cambiamento, fisico e psichico, che eleva l'uomo in una visione da superuomismo piuttosto che da eremita trascendente.
Il critico, nonché studioso di fantastico, Jacques Bergier ha parlato de The Ship of Ishtar nei termini di un "capolavoro straordinario che si distingue dal resto della produzione di Merritt sia per l'erotismo che per lo svolgersi in una realtà priva di tempo." In realtà, il romanzo si svolge nell'arco temporale di nove ore, questo il periodo che il protagonista riesce a contare nella vita di tutti i giorni, da cui però si assenta, per effetto di trance che lo conducono in un mondo fantasioso dove il tempo sembra dilatarsi per periodi molto più lunghi e in cui subisce mutazioni fisiche, riporta ferite e acquisisce oggetti che poi riscontra, risvegliandosi dalla trance, nel mondo reale.
Il romanzo, dopo esser stato pubblicato dalla Fanucci nel 1978, ha beneficiato di una seconda ristampa nel 1990, nella collana "I Maestri del Fantastico" ed è stato di recente riproposto (nel gennaio del 2018), nella sua versione originaria e integrale, corredato di analisi e note, dagli "amici" de Il Palindromo (prezzo 20 euro circa). Una pubblicazione, quest'ultima, che rende omaggio al testo e che accresce l'importanza dell'editore palermitano nel ruolo di divulgatore dei grandi maestri della letteratura fantastica.
Dunque un romanzo cardinale nell'ambito della narrativa fantasy, che giostra sulle relazioni tra uomini e dei (ispirerà, tra gli altri, la produzione di Roger Zelazny), riproponendo, a mio modo di vedere, la parabola biblica della cacciata dall'Eden, in vista dell'irta strada dell'evoluzione spirituale (il superamento del contrasto Amore e Odio). Una soluzione, quest'ultima, che vede nella morte lo sbocco per annullarsi col divino che sta oltre ogni contrapposizione: "Alla fine, come tutti gli uomini, torno agli Dei dei miei padri" dice un personaggio secondario. Non c'è pace nella vita, il frutto vero dell'amore sta oltre la stessa. Merritt si dimostra scrittore romantico, legato a tematiche che hanno nell'amore il sentimento che smuove gli uomini e funge da motrice di ogni azioni umana, più forte di tutto, anche degli Dei. Non mancano simbolismi (si veda il ruolo delle colombe), metafore esoteriche per quello che è un testo scritto con grande eleganza in un mix capace di garantire intratteniemento spiccio e stimolo esoterico. Ogni appassionato di narrativa fantastica e/o fantasy dovrebbe averlo nella propria biblioteca.
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