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mercoledì 27 novembre 2019

Recensione Narrativa: LA COLLINA DEI SOGNI di Arthur Machen.



Autore: Arthur Machen.
Titolo Originale: The Hill of Dreams.
Anno: 1907.
Genere: Fantastico.
Editore: Il Palindromo, 2017.
Pagine: 286.
Prezzo: 18,00 euro.

A cura di Matteo Mancini.
The Hill of Dreams è il tribolato prodotto di diciotto mesi di duro lavoro e di dieci anni di lunga attesa per vedere quella luce che solo la pubblicazione può offrire a un lavoro affondato nella polvere del proverbiale cassetto. Arthur Machen lo confeziona dopo i vari Il Gran Dio Pan (1894) e I Tre Impostori (1895) che, col passare degli anni, diventeranno le opere più conosciute della sua produzione ma che, all'epoca, non ebbero immediato successo. L'obiettivo dell'autore, tacciato dalla critica di essere un imitatore di Robert Louis Stevenson, è quello di proporre un qualcosa di più personale e, se vogliamo, autoriale. Ispirato da un'introduzione di Charles Whibley al romanzo Tristam Shandy  di Laurence Sterne, Machen decide di sviluppare il tema della solitudine, dell'isolamento e del distacco dell'umanità per scrivere quello che lui definirà un "Robinson Crusoe dell'anima."

The Hill of Dreams è, innanzi tutto, un romanzo sprovvisto di una vera e propria trama, sospeso tra immaginazione e realtà, dove il fantastico è puramente mentale, prodotto di un'evasione autoindotta da un mondo che il protagonista non accetta (a ragione) come proprio. In altri termini, è una fuga mentale dalla realtà che non può che avere un epilogo tragico. Non a caso, è stato definito "il libro più decadente della lingua inglese." A differenza di Huysmans (pensiamo a Controcorrente, 1884) o a Oscar Wilde (Il Ritratto di Dorian Gray, 1891), Machen toglie del tutto la valenza esteta che dominava i romanzi manifesto dei due importanti precursori del movimento. Il suo Lucian è un personaggio che, pur lottando, non riesce a integrarsi in una società che trova corrotta dall'ipocrisia e da valori materiali che portano gli integrati a interessarsi a banalità e a giudicare quale degenerati e un po' "tocchi" tutti coloro che scelgono vie diverse. Lucian vorrebbe diventare uno scrittore e, già questo, lo porta a essere indicato dai concittadini gallesi quale un vagabondo che nella vita non otterrà niente di concreto. Essere un sognatore diviene così sinonimo di persona stramba, persino malata. Inevitabile l'isolamento a cui il giovane andrà incontro, dapprima in modo sofferto e poi, via via, accettato e subito, con l'intento mentale di dissociarsi dal grigiore quotidiano, persino della metropoli londinese, per trovare nella letteratura e, prima ancora, nei viaggi mentali il luogo in cui soddisfare il proprio animo. "Per lui le persone non erano che esseri nocivi, capaci solo di avvelenargli la vita con parole caustiche e di disprezzo."
Lucian è dunque una sorta di tossicodipendente erudito, poiché come coloro che assumono sostanze stupefacenti si abbandona ai viaggi mentali in cui vede rivivere la mitica città romana di Isca Silurum e tutti i riti connesi, in un mix che miscela paganesimo e cristianesimo, ma anche cultura celtica e romanica.

Machen sviluppa qua una metodologia narrativa, non facile da seguire, assai densa e prolissa, sicuramente non consigliabile ai lettori medi (non a caso faticò non poco a trovare un editore), su cui ritornerà in seguito, con elaborati quali Un Frammento di Vita, L'Avventura Londinese o L'Arte del Vagabondaggio Il Cerchio Verde. Tale metodologia si sostanzia in una trama assai poco delineata che trae linfa dalle emozioni provate dal protagonista nei suoi continui pellegrinaggi, ora in campagna e ora in città. Il camminare, il vedere costruzioni o boschi, diviene lo stimolo per evadere, creare mentalmente situazioni che forzano e piegano la realtà, delineando un corridoio di fuga in cui stordirsi per vincere la solitudine.

In questa evoluzione/involuzione, Lucian cerca di cogliere quel successo letterario che lo porterebbe a manlevarsi dal suo sentirsi fallito, dal suo cercare di plasmare la "grande opera". Il suo è uno stimolo che non è legato a un'affermazione economica né, tanto meno, a un riconoscimento del valore letterario (che non potrebbe mai avere perché la massa non è in grado di comprenderlo). Niente di tutto questo. Il suo è un obiettivo egoistico, di realizzazione spiriturale. Un proposito ambizioso e coraggioso che non riuscirà a centrare, idealizzando tutto, a partire dalla figura della donna, vista con una cifra poetica che si rivelerà lontana dalla realtà, tanto da assumere una connotazione da eroina salvatrice. Il principio di Lucian è tuttavia chiaro e stoico (in aperta polemica con gli editori orientati al riscontro economico e non alla qualità autoriale): "Meglio fallire cercando di raggiungere la grandezza, piuttosto che avere successo nella mediocrità; aveva giurato a sé stesso di preferire l'ultimo posto alla scuola di Cervantes invece di essere il primo all'accademia dei vari Un Brutto Ceffo da Battere o Il Matrimonio di Millicent."

Machen mette molto di sé nel testo, tanto da farne una semibiografia estremizzata nei contenuti e votata al pessimismo più nero. In The Hill of Dreams ci sono tutte le delusioni vissute dall'autore, il sogno per un amore impossibile (la delusione nel constatare la difformità tra la romantica visione della donna idealizzata e la cattiveria e crudeltà di quelle conosciute: "la lingua della donna era velenosa per natura, così come i denti della vipera; andavano evitate entrambe"), le difficoltà editoriali (che comprendono anche furti che vanno oltre al mero plagio), il ripudiare la società moderna, rimpiangendo i fasti dei tempi che furono. Soprattutto però c'è la forte critica alla contemporaneità, gli uomini moderni sono i responsabili della morte dello spirito artistico e, con esso, del decadimento della cultura umana, sempre più orientata alle frivolezze e alle banalità, con il consequenziale appiattimento generale. "Questa immonda sozzura era stata modellata in forma umana soltanto per scodinzolare e sbavare davanti ai ricchi, nella convinzione che ogni nefandezza compiuta non sia tale se benedetta dal potere costituito, e che ogni meschinità nei confronti dell'umile e dell'oppresso non sia mai abbastanza raffinata... L'Umanità spendeva le proprie energie in cose inutili; la creatività dell'uomo contemporaneo si era estrinsecata in sciocchezze... Il sapere degli antichi veniva irriso perché le persone del suo tempo non erano più in grado di leggere il significato riposto nei simboli; si fermavano alla loro apparenza."
Ecco che riaffiora il conservatorismo di Machen, il suo guardarsi alle spalle per ripescare i valori perduti e dimenticati, cancellati da un progresso illusorio essendo tale sotto il mero versante economico, ma non certo culturale. E allora ecco la frase simbolo che sottende la filosofia di Lucian: "Soltanto nel giardino di Avallaunius è possibile scoprire la vera e sublime scienza." Il vero obiettivo della vita dell'uomo non è da ricercarsi nel successo sociale, bensì nel divenire padrone delle proprie percezioni col fine di ascendere, di conquistare l'anima. Questo era l'obiettivo degli alchimisti e in questo deve decriptarsi il simbolismo alchemico dagli stessi delineato in tanti anni di storia. La trasmutazione del piombo in oro sottindendeva qualcosa di diverso e la pietra filosofale capace di trasformare in oro i metalli vili altro non simboleggerebbe che l'oro delle percezioni più raffinate. Lucian tenta di perseguire queste percezioni più raffinate attraverso la letteratura. "La letteratura è l'arte voluttuosa di evocare sensazioni sublimi con le parole." Questa è l'unica vera scienza che dovrebbe interessare l'uomo superiore. "L'Alchimista non perseguiva gli agi e i lussi di questo mondo!"

Crudissimo il finale, in cui Lucian, ormai deceduto e socialmente fallito (tanto da non avere amici e vivere da eremita, solo nella confusione londinese), viene deriso da due uomini comuni che, vedendo quanto ha lasciato sulla propria scrivania, reputano illeggibile e incomprensibili i suoi appunti, adducendo per giustificare il tutto una qualche malattia mentale o un'alterazione psicofisica riconducibile all'assunzione di una qualche droga. Viene così da sottolineare quanto non vi sia gloria e soprattutto comprensione per i sognatori e per coloro che cercano di superare il velo che separa questa triste e mediocre realtà da ciò che il mistico spera di intravedere e conquistare certo di una sola cosa nella vita: la caducità della materia e di quanto ruoti attorno a essa (potere, denaro, successo).

The Hills of Dreams diventa così una sorta di apologia alla fuga dal mondo contemporaneo, un non voler uniformarsi alla mediocrità a costo di autodistruggersi pur di rispettare se stessi. "Meglio sprofondare in una vaga malinconia, smarrirsi nei labirinti di una città maledetta da secoli, vagabondare in un miserabile deserto di rocce, pur di non destarsi nella certezza di una sofferenza insopportabile, e dover così confessare che sarebbe stato più saggio trovarsi un buon impiego, tosto che tentare un'impresa impossibile." Del resto chi ci assicura che la vita non sia davvero un sogno...? E se tale deve essere, forse, è opportuno renderlo avventuroso come solo i sogni sanno essere e non grigio e banale in ossequio alla proposta offerta da una massa che, per ricordare un vecchio adagio di Kierkegaard, non può che essere mediocre e refrattaria al senso artistico.

Capolavoro, infarcito di belle frasi e molteplici spunti riflessivi, ma indirizzato solo ai cultori e ai lettori di prodotti non commerciali. Ha di contro un alto tasso di prolissità, uno sviluppo non lineare che rende talvolta difficile mantenere alta l'attenzione.



"L'uomo comune odia l'artista per la paura istintiva di tutto ciò che devia dall'ordinario."

2 commenti:

  1. io avevo un'altra edizione, oiù vecchia

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    1. Io ho la versione PALINDROMO, che ha una copertina diversa. Prefazione di DE TURRIS, di MACHEN e postfazione del grande DE NARDI.

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