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martedì 19 marzo 2019

Recensione Narrativa: WENDIGO di Algernon Blackwood.



Autore: Algernon Blackwood.
Titolo Originale: The Wendigo.
Anno: 1910.
Genere: Horror.
Editore: Adiaphora, 2018.
Pagine: 180.
Prezzo: 14 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Attesissima riproposizione della piccola Adiaphora che, avvalendosi dell'ottima traduzione di Matteo Zapparelli Olivetti, mette di nuovo sul mercato uno dei maggiori classici firmati da Algernon Blackwood. Autore scuola Golden Dawn, tra i più celebrati nel campo della narrativa del terrore di inizio novecento, Blackwood traccia in questa opera le coordinate di un orrore che ne caratterizzerà l'intera produzione, riprendendo gli stilemi di The Willows - I Salici (1907).
Pubblicato in Italia in grave ritardo, per la prima volta nel 1986 dalla Fanucci all'interno di un'antologia collettiva de I Miti di Cthulhu e poi riproposto sei anni dopo dalle Edizioni Theoria all'interno di un'antologia interamente dedicata a Blackwood, il Wendigo, divenuto perla di non facile accessibilità, torna sul mercato italiano grazie al lodevole lavoro della piccola Adiaphora che, a distanza di ventisei anni, ne propone una nuova versione dedicandogli un intero volumetto per la prima volta corredato anche della versione in lingua originale.

Il lettore si troverà di fronte un classico racconto alla Blackwood, caratterizzato da un ritmo lento e crescente in cui si avverte l'esistenza di un terrore evanescente, percepibile per effetto di un odore nefasto che aleggia intorno ai protagonisti ma che non palesa mai la mostruosità che lo rilascia. Blackwood costruisce un racconto che gioca su una tensione psicologica,  non mostra quasi mai, suggerisce, allude, attiva il sense of wonder e l'immaginazione dei suoi lettori. Al centro di tutto c'è la natura, qua rappresentata da un ambiente silvano, in un'impenetrabile e inviolata foresta canadese dove un quartetto di personaggi, dall'estrazione culturale e sociale assai diversa (uno psicologo, un teologo, un uomo d'azione e una guida) si sono addentrati per dedicarsi a una battuta di caccia all'alce. Si troveranno, a poco a poco, assorbiti da un maelstrom terreno che metterà a serio rischio la loro salute mentale in uno scontro in cui la potenza della natura evidenzierà la labile e fragile essenza dell'uomo. Un orrore dunque sfumato, filtrato dalle lunghe descrizioni del bosco, dal penetrante freddo glaciale della notte, dai lunghi silenzi interrotti dal mugghio del vento, dietro ai quali si cela una malvagia essenza, più spirituale che corporea, che funesta gli invasori della natura, alla stregua di uno spirito che si leva da un passato primordiale, sconosciuto alla cultura dell'uomo, per proteggere la vita degli abitanti del bosco. 
La discesa nella foresta canadese del gruppo di cacciatori diviene allora un peregrinare in un ideale oceano denso di minacce e pericoli, in cui una creatura sfuggente, di cui si sente solo il nauseabondo odore (simile a quello di un leone), attende il momento opportuno per palesarsi ai protagonisti. I nostri lasceranno correre gli occhi in ogni direzione, tra le fronde degli alberi, da un tronco all'altro, cercando di penetrare nella coltre tenebrosa della notte o oltre i banchi di nebbia, per intravedere qualcosa, un movimento, un segno, un indizio che denudi il mistero che li avvolge in una solitudine dalla quale non è possibile liberarsi.

"La foresta li circondava, accerchiandoli con la propria muraglia. I fusti degli alberi più vicini baluginavano come bronzo alla luce del fuoco e, al di là... L'oscurità e, per quanto ne sapeva lui, un silenzio di morte." In questo contesto, in cui l'incertezza e l'improvvisa scomparsa della guida dei tre, impazzita nell'atto di inseguire il mostro palesatosi (forse per effetto di allucinazioni e di un cedimento psichico) attorno alla tenda in cui gli stessi pernottavano nel cuore della foresta,  alimenta il crescente senso dell'orrore e, punto su punto, sgretola le certezze del comune vivere lasciando sempre più il campo al paranormale ("al pari di molti materialisti mentiva con abilità sulla base di informazioni insufficienti, perché le informazioni fornite parevano inaccettabili per la sua intelligenza"). Una situazione in cui, dei tre superstiti, solo il teologo, portato per ovvie ragioni a pensare con un'ottica ultraterrena, riuscirà, in parte, a intuire la natura dell'essere padrone delle foreste. Un ragionare, tuttavia, disturbato da una minaccia concreta, continua, onnipresente eppure invisibile. Da cacciatori, i nostri, si ritroveranno infatti prede di una sorta di pericolo ectoplasmatico protetto dalla vegetazione, in un ribaltamento dei ruoli che suona un po' da moto di rivalsa della natura contro il sanguinario uomo che si atteggia a dominatore assoluto della Terra.

Ma che cos'è il wendigo? Blackwood offre varie chiavi di lettura, senza dare una riposta certa. Si tratta di uno spirito legato alla tradizione indiana del Nord America, che costituisce "la personificazione del richiamo della natura selvaggia... la sua voce assomiglia a tutti i suoni di fondo della boscaglia". Chi finisce prenda del richiamo, un po' come i marinai ammaliati dal canto delle sirene, finisce per perdersi e la psiche ne viene folgorata. Evidenti le influenze che il testo avrà nello sviluppo della narrativa dell'orrore. Si pensi da H.P. Lovecraft. Da quest'ultimo punto di vista, il ritorno della guida, dopo l'iniziale scomparsa, con delle specie di zoccoli al posto dei piedi e il suo atteggiarsi quale mostruosità celata sotto la mendace apparenza umana, non può non rimandare a L'Orrore di Dunwich (1929). Una via battuta poi dal prosecutore della scuola lovecraftiana, ovvero Augusth Derleth, che è ritornato sulla figura traslata dal folklore indiano alla narrativa del terrore occidentale da Blackwood. 
Persino al cinema se ne respireranno le influenze, si pensi al film Predator (1987) e all'idea del bosco che assume sembianze antropomorfe per attaccare, uno dietro l'altro, un commando di militari americani, con i vari componenti che, pian pianino, perdono il senno e sparano sul nulla o attendono la morte con fare fatalista.

Dunque un racconto lungo o, se preferite, un romanzo breve, cardinale per lo sviluppo della narrativa dell'orrore. Un testo che mischia abilmente azione e tensione, scegliendo l'insegnamento secondo il quale il non mostrare, a volte, è preferibile al mostrare. Blackwood suggerisce, stimola ipotesi, induce a sospettare, ma non rivela mai. La grande narrativa fantastica passa di qua, onore alla Adiaphora, piccola realtà in ascesa, per aver riproposto un testo che meritava di esser rispolverato dall'oblio.

Il giovane
Algernon Blackwood.

"In fondo ai suoi pensieri, sempre giaceva quell'altro aspetto delle terre selvagge: l'indifferenza verso la vita umana, il crudele spirito della desolazione che non teneva conto dell'uomo. Il senso di totale solitudine."

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