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mercoledì 7 novembre 2018

Recensione Narrativa: DISCESA IN EGITTO di Algernon Blackwood.



Autore: Algernon Blackwood.
Titolo Originale: A Descent Into Egypt.
Anno: 1914.
Genere: Fantastico.
Editore: Edizioni Hypnos, 2017.
Collana: Visioni.
Pagine: 87.
Prezzo: 8,90 euro.

A cura di Matteo Mancini.
Ancora gli amici delle Edizioni Hypnos di Milano a salire agli onori delle cronache per lo "sdoganamento" nella nostra penisola dell'ennesimo inedito firmato da un Grande Maestro della letteratura fantastica. Questa volta tocca all'ideatore del John Silence (personaggio che abbiamo analizzato su queste pagine) Algernon Blackwood e al suo romanzo breve A Descent Into Egypt. Testo scritto nel 1919, uscito insieme ad altri quattro racconti nell'antologia Incredible Adventures, riproposta di recente (nel 2004) dall'americana Hippocampus Press, al cui interno - ad avviso di H.P.Lovecraft - sono raccolti "alcuni dei più bei racconti che l'autore abbia mai scritto."
Mai pubblicato in Italia, il romanzo breve viene tradotto con grande professionalità da Elena Furlan e messo nelle mani degli appassionati italiani col titolo Discesa in Egitto.

Si tratta di un elaborato, in verità piuttosto prolisso e ripetitivo, che sintetizza a pieno titolo le qualità tipiche dei migliori testi di Algernon Blackwood. Siamo, in altri termini, nell'ambito costruttivo e atmosferico di The Willows (I Salici), ovvero in una storia dove la componente ambientale assurge al rango di vero e proprio personaggio mutevole e multiforme, un qualcosa dotato di spirito pur non essendo percepibile dai limitati sensi umani. Ne deriva una potenza evocativa e ipnotica, ricercata per effetto di uno studiato lessico che sfiora la poesia col suo essere allucinato e allucinante, che trasuda dalle pagine così forte e avvolgente da rapire, oltre ai personaggi, il lettore, riuscchiandolo in un ideale maelstrom che lo disancora dalla realtà per sprofondare altrove. Si percepisce l'annichilimento della capacità di autodeterminarsi alla stregua dell'assunzione di un forte oppiaceo, una droga che amplifica la sensibilità visiva e uditiva così da stordire modificando la percezione di quanto si ha intorno.

Il romanzo parla della repentina trasformazione caratteriale di un archeologo, recatosi in Egitto per questioni di lavoro. Da "uomo abile ed eclettico" il soggetto involve al rango di automa definito "un guscio umano" apparentemente normale ma svuotato da ogni interesse e ambizione. Centrale e responsabile di tale metamorfosi è l'Egitto, verrebbe da dire la magia dell'Egitto, ma non quello attuale, bensì l'antico, che continua a vivere nel profondo e nei sotterranei della Terra quale spettro dell'antico fasto che fu. "L'Egitto ti cambia. Nessuno può vivere qui e rimanere ciò che era prima..." Testimone di queste evoluzioni è il narratore della storia che racconta le vicende di questo uomo, tale George Isley. Non è la pazzia o un disturbo psiclogico a entrare in gioco e neppure quella suggestione per la magnificenza dei monumenti che ai tempi odierni è stata catalogata quale sindrome di Stendhal, quanto un qualcosa di arcano e sfuggevole, non ben comprensibile, da cui lo stesso narratore viene assuefatto e rapito. La potenza visionaria e distorsiva di Blackwood, che centellina i fatti procedendo con uno stile molto lento e ripetitivo, emerge in modo veemente nella parte terminale dell'opera, quando entra in scena un terzo personaggio. Quest'ultimo è un collega di Isley, uno studioso di Egitto, che ha tuttavia appreso, origliando da alcuni sacerdoti, le note di un canto (Inno a Ra) fatto interamente di suoni vocalici che è capace di evocare lo spirito dell'antico Egitto. Simile agli effetti del canto di una sirena, si liberano delle note che determinano uno scollegamento tra la realtà e l'altrove, aprendo un portale spazio-temporale che può essere imboccato in un processo inverso rispetto a quello che governa la vita di tutti i giorni. Un portale che conduce direttamente a 6.000 anni fa, nel momento del massimo fulgore della potenza egizia. Spettacolare, da grandissimo racconto fantastico, la camminata dei tre personaggi su un deserto che scorre sotto i loro piedi, attorniato dalla grande architettura dell'antico Egitto vista nel momento del suo massimo splendore (si intravedono le grandi piramidi in costruzione). "L'Egitto stava trascinando la sua anima nel Passato. Ciò che c'era di valore in lui andò volontariamente; il resto, aspetti minori della sua mente e del carattere, resistette, restando aggrappato al presente." Blackwood ci parla di una vera e propria dissocazione, di un qualcosa che consente all'anima di liberarsi dal carcere fisico in cui è intrappolata e di andare dove più l'aggrada, lasciando il resto nella realtà in cui si trovava in precedenza. "L'anima ha diritto di scegliere le proprie condizioni e il proprio ambiente. Passare da un'altra parte comporta una traslazione non un'estinzione... L'anima è eterna e può scegliere la propria dimora ovunque, che cosa c'è nel presente volgare e superficiale che dovrebbe trattenerla...?" Così assistiamo alla dipartita dell'anima di Isley e alla sua fuga in una realtà ben diversa dalla decadenza di quella attuale. "L'antico Egitto, sepolto, nascosto aveva gettato la rete attorno alla sua anima. Divenuta indistinta nel Presente, la sua vita venne trasferita in un Passato dorato, ricostruito, dove era reale." Una fuga che il narratore vive in parte, ma da cui riesce a sottrarsi proprio nel momento in cui il Tempio era pronto a riceverlo. E' la paura dell'ignoto a frenare il narratore, ma anche un qualcosa che percepisce di malevolo e menzognero. "L'Egitto patisce ancora il furto dei suoi antichi morti, e per vendicarsi preda i vivi a piacimento." Dunque una sorta di incanto che suona un po' come il canto di una sirena. Un trucco per impossessarsi delle anime degli uomini sensibili, storditi da una realtà più grande di loro e non da questi comprensibile. Un qualcosa da cui non riesce a liberarssi Isley, completamente intorpidito in balia di una potenza aliena che lo ha sedotto annullandone le resistenze e la ragione. Ciò però che sembra offrire l'antico Egitto, Blackwood lo scrive tra le righe, non è il Paradiso dei sensi, quanto un'illusione che porta alla vera e unica morte che può colpire un essere vivente: quella dell'anima.
Dunque un romanzo breve molto interessante e dotato di rara potenza visionaria. Purtroppo un po' troppo prolisso, cosa che finirà con l'irritire il lettore medio. Si tratta a ogni modo di un elaborato che non può mancare nella biblioteca di uno studioso della narrativa fantastica. Piacerà molto anche a chi ricerca testi fantastici capaci di regalare il sense of wonder, che qua viene garantito in modo spiccato, specie nella parte finale. Chiudiamo con una domanda: può l'anima di un uomo vivere una propria vita a prescindere da quella vissuta dal corpo, recandosi dove lei stessa più preferisce e lasciando l'involucro che la conteneva in balia degli eventi prima ancora che sopravvenga la morte della carne? A Descent Into Egypt risponde al quesito.

Un giovane ALGERNON BLACKWOOD

"L'anima poteva davvero scegliere la propria residenza, ma vivere da tutt'altra parte era scegliere la follia, e vivere separati da tutte le dolci salubri faccende dell'Oggi comportava un esilio ancor peggiore della follia. Era la morte."

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