Vengo qui di seguito a pubblicare il primo quarto di articolo che confezionai su richiesta di Luca Guardabascio per un volume che sarebbe dovuto uscire con la MONDARORI o, in alternativa, le EDIZIONI PAOLINE e che poi, purtroppo, non ha visto luce. Pubblico così questa prima parte, riservandomi di pubblicare il resto in seguito.
GENESI, CURIOSITA' E LEGGENDE SULLA
FIGURA DEL DIAVOLO NELLA CINEMATOGRAFIA
A cura di MATTEO MANCINI
In
questo capitolo viene affrontata una delle parti più affascinanti,
ma anche più spaventose, della religione cristiana. Il conflitto tra
le forze del male e quelle del bene, un confronto determinante e
indispensabile per il bene stesso, poiché in assenza del dolore e
dell'odio non si potrebbe apprezzare l'amore e la pace. Lo stesso
Vaticano, contrariamente ad altri, ha espresso la massima secondo la
quale “l'esistenza del
diavolo non è opinabile e che chiunque affermi che il diavolo non
esista, non possiede autentica e piena fede cattolica”.
Non è compito di questa trattazione, anche per esigenze di spazio,
entrare nel merito della discussione filosofico-religiosa, spetterà
ad altri affrontare la tematica. Qua interessa solo analizzare il
riflesso cinematografico di tali studi, poiché, come ogni cosa della
vita, anche il diavolo è stato impresso nella celluloide. Del resto
il re dei narcisisti non poteva certo esimersi dal farsi immortale
dalla settima arte. Dunque ecco entrare nel mondo del cinema la
figura del diavolo, dapprima proposto come nobile tentatore e poi,
via via, sempre più mostruoso e volgare, interessato a consumare le
prede spingendole alle più bieche condotte fino a portarle
all'omicidio. A contrastare l'influsso del Principe delle Tenebre non
appare mai Dio, né i santi, il bene interviene sempre per interposta
persona, in una sorta di antitesi al narcisismo diabolico. Se il
diavolo si mostra, il bene si nasconde, ma è onnipresente, pronto a
togliere la linfa mortale che ottenebra le menti e che porta ad amare
valori materiali. Il personaggio prediletto dai registi è quasi
sempre incarnato da vecchi esorcisti che compiono sforzi sovrumani,
spesso pagati con la vita, pur di ostacolare l'azione distruttrice
del diavolo. Uomini che si lanciano in una lotta senza quartiere che
farebbe tremare il più specializzato dei soldati e che farebbe
perdere il senno al più qualificato degli psichiatri. Specialisti di
quella cortina che si apre oltre la realtà di tutti i giorni e che
sconfina nell'occulto più oscuro, una tenebra dove le regole
scientifiche vengono stralciate da valori alieni a quelle conoscenze
su cui gli accademici sarebbero pronti a mettere la mano sul fuoco. I
comportamenti demoniaci rispondono sempre alle stesse logiche,
manifestandosi attraverso convulsioni, forza fisica insospettabile,
alterazione dei cinque sensi, chiaroveggenza, glossolalia (ovvero la
capacità di parlare fluentemente lingue diverse ivi compreso le
arcaiche), stigmate e scritture oltraggiose comparse a mo' di
tatuaggi temporanei sulla pelle.
La
filmografia italiana ha fatto scuola in questo genere, in virtù di
una produzione copiosa e talvolta superiore alle opere hollywoodiane
di riferimento. Il filone, presente fin dall'inizio, si è sviluppato
lentamente nel corso degli anni, esplodendo alla fine degli anni '70
grazie all'uscita di un film che si può definire un vero e proprio
spartiacque tra la vecchia concezione orrorifica e la nuova strada
tutt'oggi praticata negli Stati Uniti. È opportuno precisare che il
legame religione-horror era già forte e ben instaurato nella
letteratura fantastica. Autori come William Butler Yeats o Arthur
Machen, per non parlare degli indagatori dell'occulto nati dalla
penna di scrittori del calibro di William Hope Hodgson, Seabury Quinn
e Gustav Meyrink, si erano già fatti promotori, anche per via
dell'underground esoterico da cui erano provenienti, di tali
tematiche. L'Italia, contrariamente a quanto si è soliti leggere e
sentire in giro, è sempre stata molto recettiva a sfruttare la
corrente in questione, basti pensare alle collane di letteratura
horror nate negli anni '60 e spacciate per romanzi di autori
stranieri (due serie su tutte: KKK
e I Racconti di Dracula).
Purtroppo, a causa di assurdi atteggiamenti culturali che affliggono
il nostro bel paese in ogni suo campo, per superare la perplessità
di lettori e spettatori al cospetto di lavori di connazionali,
registi e scrittori hanno sempre dovuto celarsi dietro nomi
stranieri. A ogni modo l'Italia è stata una delle patrie
dell'horror, sia narrativo che cinematografico. Celebri romanzi quali
Dracula
e Frankenstein hanno
radici innegabili nella nostra penisola, essendo il primo stato
ispirato dal racconto Il
Vampiro di
William Polidori (autore inglese originario di Bientina, paese nella
campagna toscana, nonché medico di fiducia di Lord Byron) e il
secondo da una leggenda collegata agli studi di un medico sempre della campagna pisana. Sullo stesso piano si è confermato il cinema,
plasmando un
sottogenere, quello del Gotico Italiano, assai qualitativo in virtù
dell'opera di registi del calibro di Riccardo Freda, Antonio
Margheriti, Mario Bava e Mario Caiano. Prima di loro però il signore
delle tenebre aveva già fatto capolino nella nostra cinematografia.
Risalgono addirittura alla prima decade del novecento i primi film
italiani incentrati sulla figura del demonio. Il primo dei due ha un
titolo subito emblematico: Satana
(1913) di Luigi Maggi. L'analisi sui film incentrati sul principe
delle tenebre non poteva partire in modo migliore. Si tratta infatti
di un film muto, a episodi, affidato alle mani di uno specialista
dell'epoca e basato su due poemi classici: Il
Paradiso Perduto (1667)
di John Milton e Messiade
(1748) di Friedrich Gottlieb Klopstock. Maggi traccia un'ipotetica
evoluzione del diavolo sulla terra, dalla sua cacciata dal paradiso
fino ai primi del '900, passando per le tentazioni di Cristo e la
corruzione spirituale di alcuni monaci di un convento medievale.
Dunque è una pellicola ambiziosa e di buon livello che ruota attorno
alla tematica costante della distruzione di tutti coloro che si
lasciano convincere dalla necessità di vivere una vita dissoluta,
mentre lui, il diavolo, si bea della rovina altrui facendo nascere
propositi delittuosi e peccati carnali di ogni sorta. Il maligno
viene quindi presentato quale fonte di ogni male, un soggetto che
contrappone i fratelli seminando zizzania e promettendo un benessere
caduco al solo intento di contaminare la purezza dell'uomo. Non è
quindi un caso se il sottotitolo scelto per l'opera è Il
Dramma dell'Umanità, a
sottolineare il tumore costituito dal demonio, rappresentato quale
cancro che attanaglia le anime dei peccatori. Curioso il nome della
casa produttrice, Ambrosio,
che richiama alla mente il protagonista del romanzo Il
Monaco (1797)
di Matthew G. Lewis, finito anch'egli preda e vittima delle
tentazioni demoniache. Nei panni di Satana figura il futuro regista
Mario Bonnard, maestro, tra gli altri, di Sergio Leone. Un film
dunque da ricordare e da recuperare soprattutto in considerazione
dell'epoca e dello sforzo scenografico messo in atto dalla
produzione.
Mario Bonnard
il primo Satana del cinema italiano
Appena
due anni dopo esce uno dei film più importanti della produzione
italiana dell'epoca, peraltro recentemente riproposto nel Centenario
del Colossal del cinema muto Cabiria:
Rapsodia Satanica (1915)
di Nino Oxilia (giornalista e scrittore che perirà in trincea nella
prima guerra mondiale a soli ventotto anni) e con musiche di Pietro
Mascagni (aspetto innovativo per i montaggi dell'epoca). Ancora una
volta a fungere da elemento cardinale sono le opere classiche della
letteratura, nella fattispecie viene rivisitato il Faust
di Goethe. La protagonista Lydia Borelli (star del cinema muto), un
po' come il Dorian
Gray
di Wilde, stringe un patto diabolico con Mefisto per mantenere la
giovinezza; il prezzo che deve pagare però è dei più cari, dovendo
rinunciare all'amore. Chiaramente contravverrà ai patti, tra l'altro
facendo suicidare un amante respinto, credendo di poterla fare
franca, ma Mefisto giungerà a toglierle la bellezza lasciandola in
balia delle rughe e degli acciacchi della vecchiaia. Opera dunque di
impronta letteraria, peraltro con una certa cura per le scenografie
tese a evidenziare la decadenza aristocratica figlia del tramonto
dell'ottocento.
Per
attendere un terzo film italiano sull'argomento bisogna attendere
circa trent'anni. È il 1940 quando l'ex direttore della fotografia
Alfono Frenguelli (cresciuto alle spalle di Riccardo Freda) debutta
alla regia con L'Arcidiavolo,
commedia di scarso livello che vede un diavolo giungere in mezzo agli
uomini per tentarli. Il film ha scarso successo, tanto da spingere il
regista a riprendere il vecchio ruolo di direttore della fotografia.
La commedia sembra l'unica valvola di sfogo per recepire le peripezie
diaboliche, anche perché i generi stentano ad affermarsi nella
nostra penisola. Così Mario Camerini propone L'Angelo e
il Diavolo (1946),
introducendo, a livello embrionale, degli elementi che ritroveremo in
un famoso film di Roman Polanski. Anche Camerini però non ha
fortuna, e il film passa quasi inosservato. Protagoniste sono due
coppie, con una di queste, formata da un coniuge rappresentante del
bene e l'altro del male, che influenza l'altra. La sceneggiatura ha
pertanto un interessante spunto iniziale, ma il risultato finale non
è tra i più brillanti, neppure per la filmografia del regista. La
deriva comica si compie con un doppio Totò, per le firme di Mario
Mattioli, Totò al Giro d'Italia (1949),
e di Camillo Mastrocinque, Totò all'Inferno (1954).
Nel primo episodio l'attore napoletano interpreta un ciclista
impegnato al Giro d'Italia (ci sono anche Fausto Coppi e Gino
Bartali, oltre Walter Chiari) che stringe un patto col diavolo per
vincere la competizione e avere la mano della sua amata.
Indubbiamente più surreale e divertente l'altro capitolo, con Totò
che vaga all'inferno innamorato perso di Cleopatra, suscitando l'ira
di un Satana ingelosito dal rapporto tra i due. Si tratta di film
che sono da menzionare per completamento, avendo ben poco a che fare
con la materia qui oggetto di esame, alla stregua di Maciste
all'Inferno (1962) di
Riccardo Freda che ripropone la discesa agli inferi del protagonista,
nella fattispecie il muscolare Kirk Morris (al secolo Adriano
Bellini).
Siamo però alle porte di un avvenimento epocale che segna il genere. Esce difatti il vero e proprio antesignano del filone esorcistico, guarda caso proprio in Italia. Contrariamente a quanto si è soliti dire, L'Esorcista (1973) di Friedkin non è il primo film a proporre lo scontro tra Satana e un esorcista. Ad anticipare tutti è una coproduzione italo-francese uscita dieci anni prima rispetto alla più famosa opera hollywoodiana. La pellicola in questione è Il Demonio (1963), portata in scena da Brunello Rondi, un regista d'autore che non tornerà più a confrontarsi col cinema di genere, preferendo i drammi erotici e opere in cui metterà gli studi psicanalitici dei personaggi in primo piano rispetto alle storie raccontate. Per Rondi è il debutto alla regia, prima di allora aveva codiretto un film nel 1962, anche se questo non deve lasciare pensare che si trattasse di uno sprovveduto. Già inserito nel mondo del cinema da circa un ventennio, aveva collaborato in veste di assistente e di sceneggiatore con molti registi di grido (soprattutto Roberto Rossellini, ma anche Vittorio De Sica, Luciano Salce, Manolo Bolognini), incarichi, peraltro, che continuerà a ricoprire anche in seguito nonostante un'attività di regista in proprio ben avviata. In particolare è da ricordare il lunghissimo sodalizio (quasi trent'anni) con Federico Fellini, oltre che nei panni di aiuto regia e di sceneggiatore, anche in quelli di collaboratore artistico, per un totale di nove film tra i quali i cult La Dolce Vita (1959), 8 e ½ (1962) e Prova d'Orchestra (1978). Dunque un uomo di cinema di una certa esperienza lanciato alla regia da una coproduzione che vede il debutto di uno dei più grandi produttori di cinema di genere italiano ovvero Luciano Martino, fratello maggiore del futuro regista Sergio Martino (anch'egli presente e debuttante nel ruolo di aiuto regista). Rondi scrive il soggetto e mette subito in chiaro quello che sarà il marchio della sua produzione registica. Il film, infatti, è incentrato soprattutto sullo studio psicologico dei personaggi e, più in particolare, sulle reazioni popolari al cospetto delle superstizioni e degli estremismi religiosi di carattere essoterico (termine che si contrappone a esoterico, a simboleggiare quelle credenze involgarite destinate alle masse piuttosto che a uno stuolo limitato di studenti e illuminati).
Siamo però alle porte di un avvenimento epocale che segna il genere. Esce difatti il vero e proprio antesignano del filone esorcistico, guarda caso proprio in Italia. Contrariamente a quanto si è soliti dire, L'Esorcista (1973) di Friedkin non è il primo film a proporre lo scontro tra Satana e un esorcista. Ad anticipare tutti è una coproduzione italo-francese uscita dieci anni prima rispetto alla più famosa opera hollywoodiana. La pellicola in questione è Il Demonio (1963), portata in scena da Brunello Rondi, un regista d'autore che non tornerà più a confrontarsi col cinema di genere, preferendo i drammi erotici e opere in cui metterà gli studi psicanalitici dei personaggi in primo piano rispetto alle storie raccontate. Per Rondi è il debutto alla regia, prima di allora aveva codiretto un film nel 1962, anche se questo non deve lasciare pensare che si trattasse di uno sprovveduto. Già inserito nel mondo del cinema da circa un ventennio, aveva collaborato in veste di assistente e di sceneggiatore con molti registi di grido (soprattutto Roberto Rossellini, ma anche Vittorio De Sica, Luciano Salce, Manolo Bolognini), incarichi, peraltro, che continuerà a ricoprire anche in seguito nonostante un'attività di regista in proprio ben avviata. In particolare è da ricordare il lunghissimo sodalizio (quasi trent'anni) con Federico Fellini, oltre che nei panni di aiuto regia e di sceneggiatore, anche in quelli di collaboratore artistico, per un totale di nove film tra i quali i cult La Dolce Vita (1959), 8 e ½ (1962) e Prova d'Orchestra (1978). Dunque un uomo di cinema di una certa esperienza lanciato alla regia da una coproduzione che vede il debutto di uno dei più grandi produttori di cinema di genere italiano ovvero Luciano Martino, fratello maggiore del futuro regista Sergio Martino (anch'egli presente e debuttante nel ruolo di aiuto regista). Rondi scrive il soggetto e mette subito in chiaro quello che sarà il marchio della sua produzione registica. Il film, infatti, è incentrato soprattutto sullo studio psicologico dei personaggi e, più in particolare, sulle reazioni popolari al cospetto delle superstizioni e degli estremismi religiosi di carattere essoterico (termine che si contrappone a esoterico, a simboleggiare quelle credenze involgarite destinate alle masse piuttosto che a uno stuolo limitato di studenti e illuminati).
Ci
troviamo nel meridione, in una Matera ancora legata alle tradizioni
contadine e alle credenze medievali con rimasugli figli della cultura
pagana (adorazione del sole). Protagonista è una giovane innamorata
di un uomo che non la corrisponde (il futuro caratterista di
spaghetti western Frank Wolff), in quanto in paese tutti la reputano
una fattucchiera portatrice di catastrofi. La poveretta, in effetti,
si diletta nelle arti magiche (realizza intrugli ed elisir) e finisce
per cadere vittima di possessioni diaboliche, oltre che di uno stupro
perpetrato da un fantasma che le lascia ferite da artiglio sui polsi.
Trova inoltre giovamento nell'andare in giro a dire che parla e che
vede i diavoli (Rondi accenna ai problemi legati alla schizofrenia
poi sviluppati da altri in seguito), dichiarazioni che sembrano
peraltro veritiere viste certe scene (su tutte quella dello stupro e
quella in cui la donna interagisce con un bimbo morto). A dar corpo
al personaggio troviamo la bellissima e bravissima Daliah Lavi,
attrice di origini ebraiche pretesa dai coproduttori francesi e
proveniente dal cinema transalpino. Seppur brava, non avrà una
grande carriera. Sarà protagonista ne La
Frusta e il Corpo (1963)
di Mario Bava, ritrovandosi presto destinata a ruoli secondari con
punte quali Dieci Piccoli
Indiani (1965) di George
Pollock e James Bond 007
– Casino Royale (1967).
Negli anni '70 intraprenderà, con buon successo, la carriera di
cantante in Germania, incidendo svariati album. Ne Il
Demonio,
tuttavia, la prova della ventunenne è notevole, soprattutto in
considerazione di un ruolo tutt'altro che facile. È chiamata a
cambiare varie volte lo stato d'animo, a mostrarsi trasandata nei
modi di fare ma al contempo dotata di una forte carica erotica e
anche ad assumere espressioni da assassina (tenterà di strangolare
una suora). Inoltre la vediamo aggirarsi sopra i massi, in campo
lungo, come una lupa solitaria che studia da lontano le pecorelle che
passano sotto e che sono costituite dall'uomo che ama e dalla donna
che lo stesso ha deciso di sposare, con i relativi parenti al
seguito. Rondi, coadiuvato da Sergio Martino, gira queste sequenze
con gusto western. La donna, anziché sparare, pronuncia a denti
stretti anatemi di ogni sorta. Purtroppo il ritmo non è sempre
adeguato, il film paga un'incertezza di fondo piuttosto evidente.
Rondi non si interessa allo sviluppo della trama, è interessato a
mostrare il campionario di riti scaramantici e di una serie di
procedure finalizzate a liberarsi dal malocchio. Vediamo così
sfilare ciarlatani, truffatori, presunti santoni (si suggerisce uno
stupro fatto passare come rito purificatorio) e preti, tutti votati,
più o meno onestamente, a combattere il male. Nel mostrare ciò, il
regista perde l'orientamento della storia che a tratti prende la
piega dell'horror (riti esorcistici e atteggiamenti blasfemi), poi
torna sul drammatico a tinte neorealiste, quindi offre squarci dal
sapore documentaristico e poi torna sul dramma d'amore, senza che si
capiscano bene i passaggi. A quest'ultimo riguardo, prima del tragico
epilogo, vi è un enorme buco di sceneggiatura caratterizzato dalla
mancata spiegazione relativa alla fuga della protagonista dal
convento dove si era rifugiata. Nonostante la confusione di fondo,
viene introdotto tutto quanto andrà a fare da base al nascente sotto
filone esorcistico. In prima battuta viene anticipato William
Friedkin, mostrando, durante un esorcismo in chiesa, la famosa
spider-walk
dell'indemoniata. La Lavi, difatti, cammina su quattro arti con la
schiena e la testa inarcata all'indietro, alla stregua di un ragno,
mentre il prete la benedice lanciandole spruzzi di acqua benedetta e
chiedendole più volte chi essa sia (curiosa menzione, poi, di una
serie di nomi di diavoli). A differenza di quanto farà il collega
americano, Rondi non cerca la spettacolarizzazione, ma si limita a
far parlare la sua protagonista in lingue diverse. Non vi è traccia
di splatter, né si ricorre a un make
up
invasivo (il volto della Lavi non viene deformato). Sempre sul
versante paranormale si registra il già citato stupro a opera di
un'entità fantasma (sarà omaggiato dall'horror The
Entity
del 1981), elemento ricorrente da Rosemary's
Baby (1968)
in poi. Viene quindi anticipato Non
si Sevizia un Paperino (1972)
di Lucio Fulci, in tutta la parte relativa all'odio popolare verso la
maga, costretta a subire ogni forma di oltraggio fino a vedersi
scagliare contro sassi e minacce di messa a rogo.
Sul
versante tecnico sono degne di nota la fotografia in bianco e nero di
Carlo Bellero (al suo terzultimo film, dopo una lunga collaborazione
con Francesco De Robertis e Domenico Paolella), bravo nei contrasti
luce-ombra oltre che nel rendere sinistre le soleggiate ambientazioni
lucane, e le aristocratiche musiche di Piero Piccioni.
Dunque
una pellicola più votata al drammatico che all'horror, concentrata
su valori di stampo storico-sociale piuttosto che commerciale, ma di
grande importanza per la genesi del sotto filone esorcistico. Di
certo il film sulle possessioni diaboliche più autoriale tra quelli
italiani.
Un altro film di particolare interesse, seppur misterioso sia per la sua genesi che per la sua origine, è Sfida al Diavolo (1963) diretto in bianco e nero dallo sconosciuto Giuseppe Veggezzi (l'aiuto è Roberto Sciarretta, che ricomparirà una sola volta, nel 1976, quale operatore di Mario Landi ne Le Impiegate Stradali). Il film, pur avendo come protagonista il mitico Christopher Lee (il quale si esibisce in un lungo e interessante monologo, con un ruolo oscuro che trama dietro le quinte, essendo proprio lui il diavolo), esce con il titolo Katarsis il 9 giugno nel 1963 (data anch'essa sinistra, se si legge con ottica macabra) restando solo per pochi giorni nei cinema. Il motivo sembra riconducibile all'improvvisa morte del produttore, tale Belotti, anch'esso uno sconosciuto che non ha altri film all'attivo. Due anni dopo, probabilmente per la presenza di Lee, il prodotto viene riproposto da Ulderico Sciarretta (attore sconosciuto presente nell'opera, già produttore di Crimine a Due di Romano Ferrara) col titolo con cui oggi lo conosciamo, allo scopo di raggranellare qualche lira. Si tratta di un'opera misteriosa e, dato il soggetto, la si potrebbe anche definire inquietante e adatta a costituire lo spunto di partenza di un romanzo dell'orrore. Il regista è, di fatti, un cineasta sconosciuto; lo studioso e ricercatore Roberto Poppi, nel suo monumentale Dizionario del Cinema Italiano – I Registi, lo definisce “cineasta occasionale di cui non si sa nulla.” La definizione di Poppi non è fuori luogo, di Veggezzi, accreditato Joseph Vegh, non si sa davvero niente; dirige e scrive questo film senza alcun curriculum e senza dar seguito alla professione. La trama è legata agli stilemi gotici e poggia su una premessa iniziale (il dialogo tra un prete e una donna che ha rubato dei documenti scottanti connessi a un intrigo internazionale) sulla quale, per mezzo dello artificio cinematografico del flashback, si innesca la storia delirante che ha condotto un giovane uomo (Piero Vida) a convertirsi alla vita religiosa dopo una vita di baldorie. La prima frazione di film, la meno interessante, è portata avanti con un'atmosfera sospesa tra spy-story e noir brillante (con taglio musicale da serial televisivo americano scanzonato), a poco a poco però si plana dalle parti di quei prodotti legati a soggetti del calibro della novella L'Uomo che Vide il Diavolo di Gaston Leroux, ovvero opere costruite attorno a tre cardini ben definiti: il gruppo di giovani sbandati (dediti all'alcool e alle corse automobilistiche clandestine), la presenza di un vecchio castello disperso nel nulla e la figura del vecchio padrone di casa che ha visto il diavolo e gli ha venduto l'anima, con tutte le conseguenze che ne derivano. Il ritmo è lento (appesantito da circa dieci minuti di balletti e canzoncine con la rotonda Alma de Rio, che chiude qui la carriera interpretando se stessa), la messa in scena è piuttosto classica ma ha dei risvolti dall'innegabile gusto orrorifico pur penalizzati da una sceneggiatura sfilacciata. Il risultato finale, quasi un mediometraggio (la durata è appena settantacinque minuti assai diluiti), non è da sottovalutare. Inevitabile il collegamento con le case del terrore che si trovano nei luna park, dovendo i protagonisti vagare lungo un percorso carico di insidie, seppur alquanto spoglio. Il direttore della fotografia riesce a giocare bene con le luci, a mascherare i limiti del budget e della scenografia ricostruendo un tono onirico strumentale alla lenta caduta nella follia dei giovani. Alla fine, nonostante la scarsezza di mezzi, la fatica di Veggezzi strappa la sufficienza dagli utenti di imdb.com.
Un altro film di particolare interesse, seppur misterioso sia per la sua genesi che per la sua origine, è Sfida al Diavolo (1963) diretto in bianco e nero dallo sconosciuto Giuseppe Veggezzi (l'aiuto è Roberto Sciarretta, che ricomparirà una sola volta, nel 1976, quale operatore di Mario Landi ne Le Impiegate Stradali). Il film, pur avendo come protagonista il mitico Christopher Lee (il quale si esibisce in un lungo e interessante monologo, con un ruolo oscuro che trama dietro le quinte, essendo proprio lui il diavolo), esce con il titolo Katarsis il 9 giugno nel 1963 (data anch'essa sinistra, se si legge con ottica macabra) restando solo per pochi giorni nei cinema. Il motivo sembra riconducibile all'improvvisa morte del produttore, tale Belotti, anch'esso uno sconosciuto che non ha altri film all'attivo. Due anni dopo, probabilmente per la presenza di Lee, il prodotto viene riproposto da Ulderico Sciarretta (attore sconosciuto presente nell'opera, già produttore di Crimine a Due di Romano Ferrara) col titolo con cui oggi lo conosciamo, allo scopo di raggranellare qualche lira. Si tratta di un'opera misteriosa e, dato il soggetto, la si potrebbe anche definire inquietante e adatta a costituire lo spunto di partenza di un romanzo dell'orrore. Il regista è, di fatti, un cineasta sconosciuto; lo studioso e ricercatore Roberto Poppi, nel suo monumentale Dizionario del Cinema Italiano – I Registi, lo definisce “cineasta occasionale di cui non si sa nulla.” La definizione di Poppi non è fuori luogo, di Veggezzi, accreditato Joseph Vegh, non si sa davvero niente; dirige e scrive questo film senza alcun curriculum e senza dar seguito alla professione. La trama è legata agli stilemi gotici e poggia su una premessa iniziale (il dialogo tra un prete e una donna che ha rubato dei documenti scottanti connessi a un intrigo internazionale) sulla quale, per mezzo dello artificio cinematografico del flashback, si innesca la storia delirante che ha condotto un giovane uomo (Piero Vida) a convertirsi alla vita religiosa dopo una vita di baldorie. La prima frazione di film, la meno interessante, è portata avanti con un'atmosfera sospesa tra spy-story e noir brillante (con taglio musicale da serial televisivo americano scanzonato), a poco a poco però si plana dalle parti di quei prodotti legati a soggetti del calibro della novella L'Uomo che Vide il Diavolo di Gaston Leroux, ovvero opere costruite attorno a tre cardini ben definiti: il gruppo di giovani sbandati (dediti all'alcool e alle corse automobilistiche clandestine), la presenza di un vecchio castello disperso nel nulla e la figura del vecchio padrone di casa che ha visto il diavolo e gli ha venduto l'anima, con tutte le conseguenze che ne derivano. Il ritmo è lento (appesantito da circa dieci minuti di balletti e canzoncine con la rotonda Alma de Rio, che chiude qui la carriera interpretando se stessa), la messa in scena è piuttosto classica ma ha dei risvolti dall'innegabile gusto orrorifico pur penalizzati da una sceneggiatura sfilacciata. Il risultato finale, quasi un mediometraggio (la durata è appena settantacinque minuti assai diluiti), non è da sottovalutare. Inevitabile il collegamento con le case del terrore che si trovano nei luna park, dovendo i protagonisti vagare lungo un percorso carico di insidie, seppur alquanto spoglio. Il direttore della fotografia riesce a giocare bene con le luci, a mascherare i limiti del budget e della scenografia ricostruendo un tono onirico strumentale alla lenta caduta nella follia dei giovani. Alla fine, nonostante la scarsezza di mezzi, la fatica di Veggezzi strappa la sufficienza dagli utenti di imdb.com.
Le
interpretazioni non sono memorabili. Oltre a Lee, abbiamo Giorgio
Ardisson (ruolo isterico e sopra le righe, forse troppo) che poi farà
fortuna nello spaghetti western di seconda serie. Musiche di Berto
Pisano, con una main theme
da musicarello intitolata
Ti hanno Visto, cantata
da tale Sonia, accreditata quale “stella della canzone
argentina” (inutile
sottolineare che si tratta di un'altra sconosciuta totale).
Nel
complesso è considerato (con una certa generosità) un culto, pur
non essendo al livello dei film dei maestri del genere, soprattutto
per l'alone misterioso che lo circonda. A mio avviso si tratta di un
film diretto da un ghost director
che, per ragioni varie, ha rifiutato di riconoscere il prodotto (non
mi saprei spiegare la ragione, essendo il tutto sufficientemente
quadrato). Peccato, perché si anticipano taluni gotici nostrani,
soprattutto quelli di Antonio Margheriti incentrati sulla caccia di
tesori o sulla presenza di dame fantasma imprigionate in castelli
maledetti. Vedibile.
Il 1963 è l'anno in cui diviene evidente il minimo comun
denominatore del nascente horror all'italiana. Il genere aveva mosso
i suoi primi passi per scommessa, nel 1957, con I Vampiri di
Riccardo Freda, il quale aveva raccolto una sfida prospettatagli da
dei produttori con cui poi era entrato in contrasto, lasciando al
direttore della fotografia, Mario Bava, il compito di chiudere la
pellicola. Il film, pur essendo oggi considerato un capolavoro, non
ebbe successo (gli spettatori italiani non reputavano, a priori, i
registi connazionali idonei a fare horror) e non dette avvio ad altri
epigoni. Solo tre anni dopo con Mario Bava e il suo La Maschera
del Demonio (1960), seguito da Il Mulino delle Donne di Pietra
(1960) di Giorgio Ferroni, l'horror italico aveva cominciato ad
avere presa anche all'estero. I successivi L'Orribile Segreto del
Dottor Hichcock (1962) di Riccardo Freda e La Frusta e il
Corpo (1963) di Mario Bava avevano poi fatto il resto rendendo
evidente il marchio di fabbrica di un sottogenere, poi battezzato
Gotico all'Italiana, strettamente legato alla produzione
horror marcata Hammer, con alcune strizzatine d'occhio alla factory
di Roger Corman e alla Universal. Dunque un cinema de paura
connesso a vampiri, streghe e mad doctor, con varianti più o
meno legate al romanzo Dieci Piccoli Indiani di Agatha
Christie, caratterizzate da forti ruoli femminili presentati sotto
una luce malevola e morbosa, in quello che potrebbe quasi definirsi
un tentativo di trasposizione cinematografica ed erotica dei racconti
del terrore di fine ottocento. Così, dal 1963 a fine anni '60,
usciranno tutta una serie di horror gotici italiani col fenomeno che
andrà a ridimensionarsi attorno al '69, grazie all'avvento di Dario
Argento e del thrilling all'italiana. Oltre a Dario Argento però, a
segnare il momento decisivo che traccerà un profondo solco tra la
vecchia concezione orrorifica e quella che diverrà la nuova strada
del cinema horror italiano e internazionale (con due sottofiloni ben
definiti), contribuiranno quattro opere statunitensi, tre delle quali
fondamentali per l'analisi che stiamo facendo: La Notte dei Morti
Viventi (1968) di George A. Romero, Rosemary's Baby (1968)
di Roman Polanski, L'Esorcista (1973) di William Friedkin e Il
Presagio (1976) di Richard Donner. Si tratta peraltro di film,
escludendo quello di Romero, che vedono il coinvolgimento di
produttori di un certo peso (Warner Bros, Twentieth Century Fox) i
quali iniziano a vedere nel genere horror una fucina da cui
raggranellare fiumi di dollari. Vengono difatti stanziati due milioni
e mezzo di dollari per il film di Polanski, otto milioni per quello
di Friedkin e tre per Donner, contro il budget ridottissimo di
George A. Romero (abbondantemente inferiore a mezzo milione di
dollari).
Un altro aspetto su cui si inizia a fare attenzione è lo studio
sulle vendite dei romanzi. In altre parole ci si è scocciati dei
grandi classici e si inizia a curare la trasposizione di romanzi
contemporanei di grande successo commerciale. Così Polanski acquista
i diritti del romanzo di Ira Levin, uscito appena un anno prima e
segnalato quale finalista al Edgar Award, imitato dalla Warner
Bros che convince William Peter Blatty, autore de L'Esorcista,
romanzo uscito nel 1970 e in grado di distinguersi tra i più
clamorosi e irriverenti successi commerciali dell'epoca, a trattarne
un adattamento da affidare al regista William Friedkin. Gli ottimi
riscontri di pubblico e di critica dei due film appena citati,
spingeranno poi la Twentieth Century Fox a fare altrettanto
strappando i diritti a David Seltzer, autore del romanzo Il
Presagio pubblicato nel 1975, per la realizzazione di un
ulteriore horror di stampo demoniaco. Con queste pellicole dunque
viene sdoganato l'orrore dalle campagne e dai contesti medievali per
farlo giungere nelle grandi città. La quotidianità e il mondo dello
sviluppo vengono così messi al cospetto del male puro, tra
grattacieli, politici più o meno corrotti e macchine all'ultimo
grido. Un'altra grande novità è costituita dall'interesse della
critica, la quale, nonostante i temi scottanti, accetta con grande
entusiasmo queste pellicole. Rosemary's Baby vince un Oscar
(nomination per la sceneggiatura di Polanski) e un Golden Globe
(entrambi a Ruth Gordon, migliore attrice non protagonista), oltre a
due David di Donatello (miglior regista straniero e migliore attrice
straniera) e svariate nomination; sono addirittura due gli Oscar
conquistati da L'Esorcista (miglior sceneggiatura non
originale a William Peter Blatty e miglior sonoro, con altre otto
nomination) oltre a quattro Golden Globe (miglior film,
migliore regia, migliore attrice non protagonista a Linda Blair e
migliore sceneggiatura) e altri premi minori; persino Il Presagio,
pellicola di minori pretese, riesce a stupire vincendo un Oscar (a
Jerry Goldsmith, migliore colonna sonora) e ottenendo una nomination
sia all'Oscar che ai Golden Globe rispettivamente per la
migliore canzone e per il migliore attore debuttante (il pestifero
Harvey Stephens, che poi non farà pressoché altro).
Prima di passare ad analizzare nel dettaglio la triade sopra elencata, è bene spendere due parole sull'alone che grava attorno a questi film. Ognuna delle pellicole infatti ha assunto un'aura da film contaminato dal male, a causa di incidenti e strani delitti connessi alla lavorazione o alla post-produzione. Il caso più tremendo è legato alla pellicola di Polanski, il quale, appena terminato di girare il film, si vide trucidare con sedici pugnalate la moglie Sharon Tate (all'ottavo mese di gravidanza) e quattro amici ospitati nella sua abitazione di Beverly Hills. Protagonista della mattanza fu una folle banda, filo satanica, che rispondeva agli ordini di uno psicopatico: Charles Manson. Il movente dell'assassinio fu ricondotto all'odio di Manson nei confronti del proprietario della villa, ovvero il produttore musicale Terry Melcher che aveva rifiutato di scritturare Manson come musicista per la Columbia Productions. Da notare inoltre che all'ingresso del palazzo dove è stato girato il film, il Dakota Building di New York, verrà assassinato, nel 1980, John Lennon, leader proprio di quei Beatles inneggiati da Manson e compagni; i quali scrissero su un muro della casa del massacro, col sangue della Tate, la scritta Helther Skelter in onore alla canzone dei Beatles da cui Manson sosteneva di esser stato ispirato.
Prima di passare ad analizzare nel dettaglio la triade sopra elencata, è bene spendere due parole sull'alone che grava attorno a questi film. Ognuna delle pellicole infatti ha assunto un'aura da film contaminato dal male, a causa di incidenti e strani delitti connessi alla lavorazione o alla post-produzione. Il caso più tremendo è legato alla pellicola di Polanski, il quale, appena terminato di girare il film, si vide trucidare con sedici pugnalate la moglie Sharon Tate (all'ottavo mese di gravidanza) e quattro amici ospitati nella sua abitazione di Beverly Hills. Protagonista della mattanza fu una folle banda, filo satanica, che rispondeva agli ordini di uno psicopatico: Charles Manson. Il movente dell'assassinio fu ricondotto all'odio di Manson nei confronti del proprietario della villa, ovvero il produttore musicale Terry Melcher che aveva rifiutato di scritturare Manson come musicista per la Columbia Productions. Da notare inoltre che all'ingresso del palazzo dove è stato girato il film, il Dakota Building di New York, verrà assassinato, nel 1980, John Lennon, leader proprio di quei Beatles inneggiati da Manson e compagni; i quali scrissero su un muro della casa del massacro, col sangue della Tate, la scritta Helther Skelter in onore alla canzone dei Beatles da cui Manson sosteneva di esser stato ispirato.
Sono
invece direttamente legati alla produzione del film gli episodi
balzani connessi a L'Esorcista.
In primo luogo, la pellicola subì gravi ritardi, con una dilatazione
spropositata dei tempi di ripresa. I produttori infatti avevano
preventivato di ultimare il tutto in ottantacinque giorni di
lavorazione, tempistica disattesa con addirittura
duecentoventiquattro giorni effettivi dovuti alle continue rotture
dei macchinari e soprattutto a un incendio che distrusse le location
interne della casa dell'indemoniata. Si verificarono poi sinistre
coincidenze che minarono l'umore della troupe. Vi furono addirittura
nove decessi di persone, più o meno, legate al film, tra le quali il
fratello di Von Sydow, l'attore irlandese Jack MacGowran, la nonna
della Blair, il figlio dell'attore chiamato ad assistere Von Sydow
negli esorcismi (schiantatosi con la moto mentre si recava sul set e
sopravvissuto dopo svariati giorni di coma), e altre morti di tecnici
e addetti ai lavori, senza considerare il grave infortunio patito da
Ellen Burstyn, che riportò danni permanenti al collo (a causa della
rottura dell'imbracatura che avrebbe dovuto sostenerla in una delle
scene finali, sorte che toccò anche alla Blair che si ruppe alcune
vertebre). Non di secondaria importanza fu l'isteria collettiva che
colpì gli spettatori nelle sale cinematografiche, caduti vittima di
convulsioni, svenimenti, vomito, un caso di aborto spontaneo e
quattro ricoveri in psichiatria. Gli psichiatri arrivarono al punto
di parlare di una nevrosi
da cinema
per giustificare un complesso di paure che finirono col tormentare
una numerosa parte di spettatori del film. William Friedkin,
esasperato dagli accadimenti, arrivò a chiamare un vero esorcista
per benedire i set. Si narra inoltre che, durante la proiezione del
film al cinema Metropolitan di Roma, una croce cadde dal tetto di una
chiesa dopo esser stata stroncata da un fulmine, evento quest'ultimo
che sarà inserito nel copione de Il
Presagio.
Casualità o intervento demoniaco? La logica porterebbe a optare per
la prima ipotesi, se non fosse che gli eventi clamorosi e nefasti si
infittirono nel terzo film della serie ovvero quello di Richard
Donner. Durante la lavorazione del film, l'aereo dove viaggiava il
protagonista Gregory Peck fu
colpito da un fulmine, così come quello su cui, tre giorni dopo, si
trovava l'autore
del romanzo da cui è tratto il film, cioè David Seltzer.
Durante la trasferta italiana, a Roma, il produttore Harvey Bernhard fu anch'esso quasi colpito da un fulmine, mentre passeggiava per la città. Un altro caso singolare è costituito dall'esplosione della stazione metropolitana di Londra presso la quale si stava dirigendo la troupe, per non parlare dell'aereo noleggiato da Donner che precipitò il giorno stesso in cui la troupe avrebbe dovuto utilizzarlo per le riprese aeree, andando a schiantarsi sull'auto dove viaggiavano la moglie e il figlio del pilota. Una serie di coincidenze incredibili che sembrano non finire mai. Lo stesso Donner, scampato a un attentato perpetrato dall'IRA ai danni del ristorante dove era solito andare, fu investito da un auto mentre camminava a piedi per le vie di Londra. La catena di eventi maledetti, a leggere i riscontri dell'epoca, è inarrestabile e miete vittime senza guardare in faccia nessuno, o meglio guardando coloro che a vario titolo finiscono coinvolti nel progetto. Al termine del giornata dedicata alla riprese allo zoo, un addetto alla sicurezza fu sbranato dal leone utilizzato per le riprese. L'evento più terrificante, come se non lo fossero quelli appena ricordati, accadde però all'addetto alla supervisione degli effetti speciali, tale John Richardson, ideatore di una delle sequenze più terrificanti del film: la decapitazione di David Warner; ebbene Richardson rimase coinvolto in un sinistro stradale in Belgio, dove morì decapitata la fidanzata che viaggiava in sua compagnia, in una località distante 66,6 km da Liegi così come riportato da un pannello stradale presente sul luogo dello scontro.
Durante la trasferta italiana, a Roma, il produttore Harvey Bernhard fu anch'esso quasi colpito da un fulmine, mentre passeggiava per la città. Un altro caso singolare è costituito dall'esplosione della stazione metropolitana di Londra presso la quale si stava dirigendo la troupe, per non parlare dell'aereo noleggiato da Donner che precipitò il giorno stesso in cui la troupe avrebbe dovuto utilizzarlo per le riprese aeree, andando a schiantarsi sull'auto dove viaggiavano la moglie e il figlio del pilota. Una serie di coincidenze incredibili che sembrano non finire mai. Lo stesso Donner, scampato a un attentato perpetrato dall'IRA ai danni del ristorante dove era solito andare, fu investito da un auto mentre camminava a piedi per le vie di Londra. La catena di eventi maledetti, a leggere i riscontri dell'epoca, è inarrestabile e miete vittime senza guardare in faccia nessuno, o meglio guardando coloro che a vario titolo finiscono coinvolti nel progetto. Al termine del giornata dedicata alla riprese allo zoo, un addetto alla sicurezza fu sbranato dal leone utilizzato per le riprese. L'evento più terrificante, come se non lo fossero quelli appena ricordati, accadde però all'addetto alla supervisione degli effetti speciali, tale John Richardson, ideatore di una delle sequenze più terrificanti del film: la decapitazione di David Warner; ebbene Richardson rimase coinvolto in un sinistro stradale in Belgio, dove morì decapitata la fidanzata che viaggiava in sua compagnia, in una località distante 66,6 km da Liegi così come riportato da un pannello stradale presente sul luogo dello scontro.
Circostanze, casualità o cos'altro? Difficile dire, di certo si
tratta di eventi che rendono queste pellicole maledette, non solo per
i temi trattati ma soprattutto per gli aneddoti connessi. Peraltro
fenomeni del genere accadranno anche durante la realizzazione di
altre pellicole legate al paranormale, quali Amityville Horror
(1979), Poltergeist – Demoniache Presenze (1982) e Il
Corvo (1994). Appare pertanto un filo conduttore che lega certe
tipologie di film a certi eventi nefasti, tanto da spingere qualcuno
a interpretare il fato come una sorta di ammonimento ben preciso, di
natura trascendentale, volto a ostacolare l'uscita di certi prodotti.
Rosemary's
Baby – Nastro Rosso a New York esce
nel 1968 per volere del regista franco-polacco Roman Polanski il
quale, reduce dagli horror Repulsione (1968)
e dal parodistico Per Favore, Non Mordermi sul Collo (1967)
girato insieme alla moglie Sharon Tate, insiste nel genere adattando
per il grande schermo l'omonimo romanzo di Ira Levin.
Si
tratta della prima pellicola diretta da Polanski negli Stati Uniti,
dopo i precedenti impegni in Polonia, Francia e Inghilterra che
comunque gli erano valsi una nomination all'Oscar, quale miglior film
straniero, con Il Coltello nell'Acqua (1964).
L'opera
è ambiziosa anche se il budget non è altissimo. Il produttore è
William Castle, un ex regista di origini ebraiche specializzato in
B-movie (La Casa dei Fantasmi del
1959 e I Tredici Fantasmi
del 1960, tanto per citarne due),
nonché storico assistente di Orson Welles. Castle vorrebbe dirigere
il film in prima persona, ma i soci non sono convinti perché temono
una deriva di genere. La scelta cade quindi su Polanski e su un lotto
di attori di primissimo piano. Per i ruoli di protagonisti si tentano
di ingaggiare Jane Fonda e uno tra Jack Nicholson e Robert Redford,
alla fine però si “ripiega” su Mia Farrow e John Cassavetes. La
Farrow ha appena ventitré anni, ma vanta un curriculum di un certo
prestigio. È sposata al celebre cantante Frank Sinatra, dal quale
però sta divorziando (si legherà in seguito a Woody Allen), ed è
figlia di un regista australiano e di un'attrice irlandese. Inserita
nel mondo del cinema fin da quando aveva due anni, si era già
distinta nel circuito televisivo e in Cannoni a Batasi
(1964), con il quale si era
aggiudicata il Golden Globe
quale migliore attrice emergente. Più esperto, ma meno qualitativo,
è il quarantenne John Cassavetes, un vero e proprio tuttofare
(attore, regista, montatore, produttore e sceneggiatore) che aveva
toccato l'apice con il war movie
Quella Sporca Dozzina (1966)
di Robert Aldrich. Ai due vengono affiancati attori di secondo piano,
ma dal grande talento. Ruth Gordon, addirittura, si aggiudicherà
l'Oscar come migliore attrice non protagonista proprio con Rosemary's
Baby; avrà inoltre dei
riconoscimenti anche il caratterista Sidney Blackmer (conosciuto per
esser l'attore prediletto per l'interpretazione del Presidente
Roosevelt, ruolo che interpretò oltre una dozzina di volte), in una
delle sue migliori prestazioni alla veneranda età di settantatré
anni.
Il
copione è ancora legato ai vecchi stilemi connessi ai “patti
diabolici” di faustiana
memoria, anche se qui sono indiretti. Il personaggio affidato a John
Cassavetes, infatti, si accorda all'insaputa della moglie (Farrow)
per far ingravidare quest'ultima dal demonio, ottenendo in cambio la
garanzia di una grande carriera nel mondo del cinema. A dar man forte
all'uomo contribuisce un'insospettabile congrega di satanisti dediti
alla stregoneria, costituiti dai vicini condominiali. Questi ultimi
sono dei vecchi invadenti che nascondono la loro vera faccia dietro
una maschera fatta di premure e gentilezze. La storia viene portata
avanti con un ritmo lentissimo, assai più vicino al drammatico che
all'horror. La povera sposina finisce con l'essere soffocata dalle
attenzioni dei condomini che la costringono a indossare uno strano
amuleto e a ingerire delle sostanze che poi si scopriranno essere
delle droghe. Sotto l'effetto di questi intrugli magici, la giovane,
durante una sorta di sabba, finirà per essere stuprata dal diavolo.
A nulla serviranno i tentativi di ribellarsi. Sempre più magra e
sofferente (azzeccatissimo il look scelto per la Farrow, qua con i
capelli cortissimi e un corpo ai limiti dell'anoressia), la giovane
troverà resistenze ovunque, dal marito al dottore che l'ha in cura
(è anch'esso d'accordo con il gruppo), al punto da rischiare di
finire in clinica psichiatrica. I pochi che cercheranno di aiutarla
andranno incontro a tragici incidenti. Inevitabile la resa finale,
nel bellissimo epilogo dove emergerà l'amore materno anche al
cospetto di quello che è e sarà un mostro. Polanski chiude con un
misto di ottimismo e al tempo stesso di pessimismo. “Ha
gli occhi di suo padre” sussurrerà
il capo della setta alla madre. Il personaggio della Farrow, ormai
venuto a conoscenza dei fatti, guarderà all'interno della culla
(ovviamente nera) dove vedrà scintillare gli occhi di un gatto
eppure, senza scomporsi, inizierà a dondolarla con l'evidente
speranza di educare al bene colui che non si potrà domare.
Dunque
un horror “aristocratico”, assai lontano dal cinema di genere, ma
importantissimo per la sua portata innovativa. Polanski, distillando
la tensione, fa leva sulla claustrofobia psicologica di un
personaggio incapace di liberarsi da una situazione sempre più
asfissiante. L'escamotage dell'elemento soprannaturale è quindi un
plus che sta sullo sfondo di una storia molto più realistica di
quello che potrebbe sembrare. Rosemary's Baby
è la metafora di tutte quelle relazioni sentimentali che nascono
sotto i più rosei auspici, ma che si trasformano in veri e propri
inferni alimentati dalle interferenze di terzi (suoceri, parenti o
vicini) che mettono voce dove non dovrebbero, andando a minare le
capacità di autodeterminazione della coppia sempre più in balia dei
voleri altrui. Punto di forza è la prova della Farrow, perfetta nel
trasmettere la disperazione cieca del suo personaggio. Assai bravi
anche tutti gli altri, con la loro ipocrisia celata dai gesti gentili
e caritatevoli. Atteggiamenti e situazioni di convivenza vicinale su
cui Polanski tornerà, con effetti addirittura più deliranti, in
occasione de L'Inquilino del Terzo Piano (1976).
Altro valore aggiunto è la ninnananna diabolica composta da
Krzysztof Komeda, musicista polacco fedelissimo di Polanski che
morirà in un incidente stradale, a soli trentotto anni, l'anno
seguente.
L'opera,
a ragione, è inserita da molti critici tra i migliori cento film mai
realizzati. Polanski tornerà a interessarsi di diavolo e di patti
diabolici in occasione de La Nona Porta (1999).
Linda Blair e
Friedkin sul set de L'Esorcista.
Di
ben altro stile è L'Esorcista (1973)
che William Peter Blatty sceneggia adattando il suo romanzo (a sua
volta ispirato a un caso di cronaca avvenuto alla fine degli anni '40
e su cui Blatty si era informato, recuperando materiale dal diario
dell'assistente che aveva coadiuvato l'esorcista) al formato
cinematografico. La differenza tra film e romanzo è minima ed è ben
resa dal regista William Friedkin, reduce dall'ottimo risultato
(premio Oscar) ottenuto dal noir Il
Braccio Violento della Legge (1971)
e fortemente voluto da Blatty, nonostante le resistenze della Warner
Bros (voleva Kubrick). Pur dirigendo ottimi polizieschi, quali Vivere
e Morire a Los Angeles (1985)
e Jade
(1995), Friedkin non si confermerà più su certi livelli.
A differenza dell'opera di Polanski, il duo Blatty-Friedkin opta per
un horror dal grande impatto emozionale e dai dialoghi volgari e
immediati. Non si contano le parolacce, i gesti sacrileghi (Regan che
si auto penetra con un crocefisso), lo splatter (tra cui
l'inverosimile vomito verde che farà scuola) e le deformazioni
facciali, tutti espedienti che segnano la nuova via dell'orrore
estremo. Non di secondaria importanza inoltre è il rapporto tra
possessione diabolica e disturbi schizofrenici, vero e proprio
tormentone del film.
Protagonista
è un'adolescente (Linda Blair) che sembra caduta preda di disturbi
psichici. Gli specialisti della mente la sottoporranno a ogni
tipologia di cura e di esame non riuscendo tuttavia a prestare il
soccorso del caso. Determinante sarà l'intervento di un esorcista,
il quale farà emergere la vera natura del problema. Curiosamente,
ancora una volta (chiaro legame con Rosemary's
Baby),
abbiamo una coprotagonista che interpreta la parte di un'attrice alla
ricerca di fortuna (la madre di Regan, interpretata da Ellen
Burstyn), aspetto che suggerisce una critica a un certo ambiente che
tende a sottovalutare la famiglia in favore dell'affermazione
personale. Al di là di quanto detto, le novità sono molte, in
primis
abbiamo i fenomeni di poltergeist (letti e oggetti che si muovono da
soli) poi viene esaltata la capacità dell'indemoniata di parlare più
lingue, di conoscere i segreti delle persone che ha difronte e di
assumere la voce di altre defunte.
Dunque una pellicola a tutti gli effetti rivoluzionaria, in grado di
dar vita a un vero e proprio sotto filone e di scioccare con una
tensione continua e martellante esaltata da una colonna sonora
(firmata Mike Oldfield) monotona, ma che alla lunga penetra nelle
ossa lasciando atterriti a distanza di anni (il riferimento va a
Tubular Bells).
Eccellente studio inoltre della fotografia (nomination all'Oscar per
Owen Roizman), in virtù di giochi di luce e angolazioni che saranno
emulati in seguito. A tal riguardo è da antologia la scena che segna
l'arrivo di Max von Sydow nella casa di Regan, tanto da esser
riportata persino nella locandina del film.
Non
sono di minore importanza le interpretazioni recitative, grazie a un
lotto di attori, facendo eccezione per Max von Sydow (indimenticabile
ne Il Settimo
Sigillo
di Bergman, titolo dal sapore apocalittico tra l'altro), da non
considerarsi tra le prime scelte di Friedkin. La Burstyn, pur reduce
da una nomination all'Oscar ottenuta nel 1972 con L'Ultimo
Spettacolo (premio
che poi vincerà in seguito), viene ingaggiata dopo i rifiuti di Jane
Fonda, Audrey Hepburn e Anne Bancroft. Sorte pressoché analoga per
la sconosciuta Linda Blair, appena quattordicenne ma con alle spalle
alcune esperienze televisive. La prova della giovane sarà così
convincente da strappare una nomination all'Oscar e da essere vista
come una possibile grande attrice. Purtroppo la fortuna della Blair
si esaurirà presto, a causa di una vita fatta di eccessi, tanto da
finire arrestata nel 1977 perché coinvolta in un giro di alcool e
droga.
Il
film ebbe un successo stratosferico in grado di battere tutti i
record di settore, cosa non da poco, in considerazione dei divieti ai
minori di diciotto anni e dell'alea da film maledetto che gli fu
affibbiata con tanto di ambulanze spesso presenti fuori dai cinema.
Fu altresì accolto benissimo dalla critica e fece incetta di premi.
Massacrato al momento dell'uscita dalla censura, oltre che bandito in
alcuni paesi orientali, a quasi trent'anni dalla sua prima proiezione
fu di nuovo proiettato nella sua versione uncut
con
undici minuti aggiuntivi (tra cui la celebre scena della spider
walk),
riscuotendo ancora una volta un discreto successo di pubblico e
ispirando l'uscita di un ulteriore sequel: L'Esorcista
La Genesi, uscito
peraltro in duplice copia per le regia di Paul Schrader e Renny
Harlin.
Alla
luce di quanto detto tutti sono concordi nel considerare L'Esorcista
una
pietra miliare del genere e soprattutto un film in grado di entrare
nelle fantasie dei produttori e dei registi italiani (e spagnoli) che
lo rifaranno, come vedremo, decine di volte.
Il Presagio (1976) funge un po' da sintesi tra Rosemary's Baby e L'Esorcista sia per tematiche che per stile. Dal film di Polanski si riprende e si sviluppa il tema del figlio del diavolo, reso addirittura più fantastico perché nell'opera di Donner il bimbo nasce dal ventre di uno sciacallo (lo si scoprirà in una bellissima sequenza ambientata in un cimitero storico di Cerveteri); da Friedkin invece viene mutuata l'atmosfera crescente di orrore senza però spingere troppo sul versante splatter (c'è comunque una decapitazione, oltre al marchio della bestia rappresentato da una concatenazione di sei tatuati sulla nuca del piccolo protagonista, mentre nel caso di Regan compariva la scritta “help me”).
Il Presagio (1976) funge un po' da sintesi tra Rosemary's Baby e L'Esorcista sia per tematiche che per stile. Dal film di Polanski si riprende e si sviluppa il tema del figlio del diavolo, reso addirittura più fantastico perché nell'opera di Donner il bimbo nasce dal ventre di uno sciacallo (lo si scoprirà in una bellissima sequenza ambientata in un cimitero storico di Cerveteri); da Friedkin invece viene mutuata l'atmosfera crescente di orrore senza però spingere troppo sul versante splatter (c'è comunque una decapitazione, oltre al marchio della bestia rappresentato da una concatenazione di sei tatuati sulla nuca del piccolo protagonista, mentre nel caso di Regan compariva la scritta “help me”).
Ancora
una volta la fonte è narrativa (David Seltzer), ma lo sviluppo e la
struttura del racconto sono più complesse e coprono un arco
temporale ben più ampio dei precedenti lavori. Ciò permette di
ricorrere a una vasta gamma di ambientazioni e di location, si va dai
deserti israeliani, alle invernali scene nella verde Inghilterra,
anche se la storia prende le mosse in quel di Roma. È proprio nella
capitale italiana che prende avvio il soggetto, chiaramente alle ore
6,00 del 6 giugno (tanto per far subito spuntare la cifra diabolica).
Il protagonista, il grande Gregory Peck, è un console degli Stati
Uniti in servizio a Roma che attende la nascita del figlio.
Quest'ultimo però nasce morto, almeno così sembrerebbe (si scoprirà
che è stato ucciso); per non ferire la moglie, il politico viene
convinto da alcuni religiosi ad adottare un neonato a cui è morta la
madre durante il parto e di cui non si sa niente. Indovinate un po'
chi si porta in casa il buon console? La moglie (Lee Remick) non
sospetta niente fin quando, dopo qualche anno, non cominceranno ad
accadere strani eventi. Intanto la famiglia si è spostata nel Regno
Unito dove, una mattina, il politico, promosso ambasciatore, viene
avvicinato da un prete che gli rivela la vera natura del figlio.
Sulle prime l'uomo non crede all'assurdo racconto, poi, accompagnato
da un fotografo (David Warner, proveniente da Cane
di Paglia
di Sam Peckinpah e celebre per le sue apparizioni in film come
Providence
di Hitchcock, L'Uomo
Venuto dall'Impossibile, Waxwork e
il capolavoro assoluto di John Carpenter Il
Seme della Follia)
inizia a indagare perché le foto scattate da quest'ultimo sembrano
nascondere una premonizione circa la tragica fine che faranno i
soggetti immortalati.
Seltzer
e gli sceneggiatori cercano di dare un certo imprinting al loro
racconto attingendo da passaggi biblici. Purtroppo, a parte l'ottima
interpretazione che vuole far sorgere l'anticristo dal
mare della politica (e da dove altro dovrebbe emergere, del
resto...), i riferimenti religiosi lasciano presto il passo
all'atmosfera di tensione, con una storia un po' inverosimile che
porta il figlio del diavolo a scoprirsi nella sua vera identità con
una lunga sequela di morti e suicidi più o meno indotti (la
motivazione è quella di impedire la nascita di un fratello per poter
così ereditare l'intero patrimonio di famiglia). Bella la presenza
dei rottweiler e degli animali presentati come se fossero
l'incarnazione del diavolo (fanno davvero paura, Dario Argento si
ispirerà qui per la sua scimmietta de La Terza Madre),
così come si assiste alla presenza di preti votati al male
(spettacolare e tenebrosa la sequenza dell'impalamento con il fulmine
che tronca un'asta che cade da un tetto e va a infilzare il religioso
che cercava la via della redenzione), baby sitter appartenenti a
sette sataniche (grandiosa l'inglese Billie Whitelaw, già vista in
Frenzy di Hitchcock,
che assume espressioni davvero sataniche nell'immolarsi a difesa del
bimbo) e trovate sonore di Jerry Goldsmith geniali e giustamente
premiate con l'Oscar (in una scena, al posto dello sfiato di un
rottwiler, viene inserita, flebilmente, in modo continuativo la
parola antichrist proprio
a simulare il fiato dell'animale). Tra le sequenze più belle sono da
ricordare il beffardo finale e la lunga progressione di Peck che
cerca di portare il figlio in Chiesa mentre questo urla alla vista
del crocefisso che svetta sul campanile.
Come
L'Esorcista avrà tre seguiti (l'ultimo televisivo), di valore
via via inferiore rispetto al primo capitolo. Nel 2006 uscirà
persino un inutile remake (identico quasi in tutto e per
tutto) per sfruttare la ricorrenza del sei giugno del 2006 (trovata
commerciale niente male).
Questa
dunque la situazione che viene a delinearsi per il nuovo horror. Da
una parte il filone legato attorno alla figura degli zombi,
dall'altra quello gravitante sulla figura del diavolo e più
specificatamente sulle possessioni diaboliche. Ecco allora che i
nostri produttori, sempre alla ricerca di incassi facili, pensano
bene di sfruttare il movimento dando il via a una lunga serie di
pellicole di imitazione. Il primo dei tre film a essere saccheggiato
non può che essere Rosemary's Baby,
uscito ben cinque anni prima rispetto all'opera di Friedkin. L'opera
di Polanski funge più da ispirazione ai registi italiani che
riprendono soprattutto la tematiche della setta satanica intenta a
commettere delitti, piuttosto che a ricostruire il clima
claustrofobico tipico del film di riferimento. Ne è un esempio
l'eccellente Tutti i Colori del Buio (1971),
diretto dal giovanissimo e promettente Sergio Martino, con un cast
che vede impegnati George Hilton, Edvige Fenech, Ivan Rassimov,
Nieves Navarro, Domenique Boschero e Marina Malfatti (cast di attrici
di rara bellezza)...
Prosegue... testo a cura di Matteo Mancini.
Prosegue... testo a cura di Matteo Mancini.
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