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giovedì 21 agosto 2014

Recensione Narrativa: IL MONACO (di Matthew G. Lewis)


Autore: Matthew Gregory Lewis.
Anno: 1796.
Titolo originale: Le Moine.
Genere: Romanzo Gotico.
Edizione: Bompiani, collana Il Pesanervi.
Curatore: Antonin Artaud.
Pagine: 330.

Commento a cura di Matteo Mancini.
Il Monaco di Matthew G. Lewis, assieme a Il Castello di Otranto (1764) di Horace Walpole, I Misteri di Udolpho (1794) e L'Italiano (1797) di Ann Radcliffe, fa parte di un poker di romanzi che costituiscono la base del romanzo gotico (altrimenti detto Romanzo Nero) nonché la fonte di ispirazione primaria per la nascente letteratura del terrore che sarà forgiata da autori del calibro di Percy e Mary Shelley, John Polidori, Lord Byron, William Blake e seguenti. Siamo pertanto al cospetto di un'opera cardinale non solo per la letteratura di genere, ma per i classici della letturatura più in generale. Lewis infatti deve molto a Denis Diderot, in particolare a La Monaca (1760) e a I Gioielli Indiscreti (1748) da cui riprende la feroce critica all'ipocrisia religiosa dell'epoca, accusata dall'autore francese di barbaria e blasfemia. Sempre da Diderot viene ripresa la condanna a tutti quegli atteggiamenti diretti a costringere giovani ragazze alla monacazione a prescindere da un loro vero impulso interiore. A ciò Lewis e lo stesso Diderot contrappongono uno sguardo favorevole a un approccio maggiormente libertino con decise strizzatine d'occhio all'erotismo. Oltre a Diderot, l'autore inglese finisce col farsi influenzare dal Marchese de Sade (che infatti diventerà uno suo estimatore) e più precisamente dal romanzo Justine o le Disavventure della Virtù (1791), da cui mutuerà il gusto per la perversione erotica e per la corruzione spirituale. Dunque, come avremo modo di descrivere in seguito, l'autore opera una fusione di due generi ben distinti: da una parte abbiamo le tematiche proprie del nascente gotico, dall'altra, invece, abbiamo i tratti drammatici legati alla narrativa (di critica sociale) interessata al tema della c.d. monacazione forzata, aspetto quest'ultimo che farà de Il Monaco una delle opere di riferimento per maestri, che nulla hanno a che fare col fantastico, come Victor Hugo, Stendhal e Alessandro Manzoni.

Matthew G. Lewis scrive il romanzo alla sorprendente età di diciannove anni. E' nato in Inghilterra, ma ha un forte interesse per la narrativa tedesca (Lovecraft afferma che ha studiato in Germania), tanto da dilettarsi in numerose traduzioni di Goethe, Schiller e Wieland oltre di altri autori minori (reputati mediocri dal Solitario di Providence) legati alla narrativa del terrore teutonico di fine secolo.
Stende Il Monaco per vincere la noia, tra una pausa e l'altra nell'ambasciata inglese de L'Aia, mentre cerca di sottrarsi al destino di politico e diplomatico a cui è stato destinato dalla famiglia, assai influente nell'ambito dei possedimenti coloniali. Il volume esce a Londra col titolo The Monk, nel 1796, e ha un successo enorme, al punto che l'autore può dedicarsi a tempo pieno alla scrittura riscuotendo quell'ondata di pubblicità che aveva sempre ricercato, ma non è tutto rose e fiori come lui stesso avrà modo di scrivere parlando della figura dello scrittore: "Uno scrittore, vuoi buono vuoi cattivo, o a metà strada tra i due, è un animale che tutti possono permettersi di attaccare poiché, sebbene non tutti siano capaci di scrivere i libri, tutti si ritengono capaci di giudicarli... Insomma, entrare nei ranghi della letteratura equivale a esporsi volontariamente ai dardi dell'oblio, del ridicolo, dell'invidia e della delusione. Sia che tu scriva bene o male, sta' certo che non sfuggirai alle critiche".
Infatti, come era inevitabile dati i contenuti coraggiosi e a tratti eretici del volume, la censura non si fa attendere. Lewis viene quasi costretto a disconoscere l'opera, la quale viene comunque ritirata dal mercato (vi ricomparirà un paio di anni dopo, con alcune sforbiciate per placare gli ardori dei detrattori), oggi si direbbe, per contenuto contrario alla pubblica decenza; sembra addirittura che persino una personalità dissoluta come Lord Byron ebbe a ritenere il testo estremamente ardito. A ogni buon conto, Lewis entra in parlamento, stringe amicizie influenti con Byron, Shelley, Polidori e Scott e inizia una lunga carriera che lo porterà a scrivere circa una ventina di lavori teatrali (per lo più ballate drammatiche) oltre a un pugno di romanzi, pure di discreto successo ma destinati a finire nell'oblio con l'evaporare degli anni.
Il legame tra autore e romanzo sarà così forte da valergli il soprannome di The Monk, appunto Il Monaco, cosa che finirà per imbrigliarlo in un immagine che ne minerà la fantasia. Morirà, nel 1818, di febbre gialla, contratta in uno dei suoi viaggi in Jamaica; meta di approdo per verificare la condizione delle popolazioni indigene, allo scopo di redigere atti scritti in loro difesa (in particolare redigerà un codice funzionale a proteggerli dalle prepotenze e dalle crudeltà dei coloni).

Il romanzo a poco a poco finirà con il cadere nel dimenticatoio, la riscoperta dovrà attribursi alle rielaborazioni e traduzioni dei francesi Antonin Artaud (le poete du macabre) e del critico André Breton nonché al movimento surrealistà dei primi anni trenta del secolo scorso, i quali lo eleveranno a opera di primario valore. In particolare Artaud nel 1966 gli regalerà una vera e propria dichiarazione d'amore dicendo: "Che tutti coloro il cui spirito rifluisce verso i dati chiusi e puramente organici dei sensi come verso i loro escrementi, continuino pure a nutrirsi di questo residuo abituale e di questo escremento dello spirito che si chiama la realtà; io mi ostinerò a considerare Il Monaco come un'opera essenziale, che rovescia a piene mani questa realtà, trascina davanti a me stregoni, fantasmi e larve come se fosse la cosa più naturale del mondo e fa del soprannaturale una realtà come le altre."
Eppure, tutt'oggi, ci sono critici come l'esperto bulgaro Tzvetan Todorov che non lo considerano un volume fantastico giustificando il tutto come "soprannaturale accettato e non fantastico vero e proprio, ma solo di un genere che gli somiglia, poiché il fantastico si verifica solo quando ci si convince che gli avvenimenti raccontati non ricevono nesuna spiegazione logica" (cfr. La Letteratura Fantastica, Edizioni Garzanti, pag. 45-46). Si tratta di una posizione che non condivido, in quanto a mio avviso l'opera Lewis è un romanzo da ritenersi, seppure per una metà degli avvenimenti narrati, fantastico allo stato puro essendovi l'intervento di creature ultraterrene (patti diabolici alla Faust, per intenderci). Se Todorov ne fa almeno un cenno, lo omette del tutto l'eccelsa raccolta Maestri della Letteratura Fantastica (ediz. Edipem a cura di Edy Minguzzi) che si allinea al critico bulgaro. Di ben altro avviso saranno Howard P. Lovecraft (ne L'Orrore Soprannaturale nella Letteratura parlerà di efficace capolavoro orrorifico) e il nostro Gianni Pilo che in Dizionario dell'orrore gli dedicherà ben due voci definendolo "uno dei romanzi fondamentali del genere nero che ispirerà Hoffmann e Balzac. Il più interessato all'analisi dell'opera dello scrittore inglese sarà soprattutto il britannico David Punter il quale, in Storia della Letteratura del Terrore, non lesinerà inchiostro nel tratteggiare trame, commenti e visioni personali del masterpiece del connazionale.


Matthew Gregory Lewis.

La caratteristica principale del romanzo è data dalla presenza di due storie forti, con distinti personaggi, che si sviluppano autonomamente per poi intrecciarsi tra loro. A esse l'autore unisce una serie di resoconti passati (presentati sotto la forma di flashback) che chiamano in causa figure più o meno leggendarie come quella de l'Ebreo Errante o quella de la Monaca Sanguinosa (fantasma che si appalesa in determinate cadenze e che Lewis riprende da un'antica credenza tedesca). L'intelaitura è quella del romanzo gotico (conventi, sotterranei, patti diabolici, fantasmi, castelli) che tuttavia viene ad assumere la parvenza di un "connotato" superficiale. In realtà infatti il romanzo è un'opera drammatica, sospesa tra il romanzo rosa e quello di denuncia sociale. Lewis ambienta i fatti a Madrid, nel convento di Santa Chiara, sviluppandoli attraverso le disavventure amorose di una serie di personaggi, travolti da atteggiamenti retrogradi, beceri e persino delittuosi a sfondo paranormale. 

Protagonista principale è Ambrosio, il Monaco di cui al titolo, un personaggio in odore di santità che poi viene corrotto da una bellissima strega ("la maga esperta nell'arte dei più tremendi incantesimi, non fu ben presto altro che un corpo ansimante, adorno di tutte le magnifiche debolezza della donna... Aveva scoperto la parola che scatena gli elementi e poteva rovesciare a suo piacere l'ordine della natura") che si finge prete per entrare nell'Abbazia e servire il monaco, quando invece ha il solo scopo di distorglielo dalla fede per condurlo nei meandri della perdizione come dimostrerà quando si rivelerà disposta ad aiutarlo per sedurre altre donzelle. David Punter, nell'opera citata, giunge persino a considerarla un demone vero e proprio, opinione che il sottoscritto non condivide perché non supportata da elementi certi. L'inlgese è bravissimo a tratteggiarne la psicologia, di cui spicca la diabolicissima personalità maliziosa (prima di entrare in abbazia giunge persino a far donare al Monaco un ritratto della Madonna che ha i suoi stessi lineamenti, in modo poi da influenzarne la condotta e portarlo alla caduta), che la porterà a giochare con il religioso a un continuo rialzo ("niente è impossibile a chi sa osare... Vergogna al codardo che non osa essere né amico sicuro né nemico dichiarato!"), pungendolo nell'orgoglio alla stregua di una zanzara onde condurlo laddove ella vuole (cioè a stringere patti con Lucifero in persona). Se questo personaggio è ottimamente caratterizzato, a mio avviso, è frettolosa l'involuzione spiriturale del monaco il quale, da soggetto esemplare e carismatico, diviene in un batter d'occhio un nitido esempio di corruzione morale e carnale, a tratti persino piagnucoloso ma deciso a pagare qualunque prezzo per soddisfare il bisogno, evidentemente, represso del sesso, ivi compreso l'omicidio e uno stupro in odore di necrofilia ("Per me questo cimitero è il tempio dell'amore, quest'oscurità non è che l'ombra in cui il mistero avvolgerà il nostro piacere").

Questi sono i due personaggi principali a cui si aggiungono la badessa della convento e una povera suora costretta dai parenti a prendere i votii, sebbene innamorata di un nobile che farà di tutto per farla evadere oltre che a metterla incinta. Quest'ultimo evento, piuttosto classico nel sottofilone dedicato a quello che cinematograficamente diverrà il tonaca movie, permette a Lewis di calare la manaia sul mondo ecclesiastico dell'epoca che, al pari di Ambrosio seppur con atteggiamento inverso, arriverà a giustificare delitti abominevoli (tipo la morte di un bimbo appena nato o la tortura feroce cui viene sottoposta la monaca libertina, lasciata senza cibo ed acqua nelle segrete del convento) con la convizione (anch'essa deviata e malata) di rimediare alle debolezze della carne  e reprimere così condotte, nella realtà dei fatti, solo eticamente condannabili. 
Sono altresì presenti altri personaggi i quali tuttavia finiscono solo col subire le conseguenze negative che si innescheranno, direttamente e indirettamente, dagli atteggiamenti dei quattro soggetti sopraindicati, senza avere un ruolo forte nella storia. Un ruolo forte, invece, ce l'avrà la massa, il popolo, che, informato dei misteri consumati tra le mura del convento, scatenerà la propria ira dando luogo a una distruzione incontrollata e sommaria di tutto e tutti. Su questo è assai esaustivo David Punter, il quale giunge a scrivere che "la sorte di Ambrosio non ha un risvolto unicamente personale, ma è un aspetto della decadenza e dell'ipocrisia più generali di Madrid." Così Lewis suggerisce la propria visione della collettività: "Ambrosio non sapeva come il vento della popolarità è infedele, e come basti un attimo per fare un oggetto di abominio di colui che ieri era l'idolo universale." Si tratta di argomentazioni che ispireranno dappirma la penna di Huxley e da questo il film I Diavoli (1971) di Ken Russell il quale, calcando la mano, riproporrà al figura del monaco impeccabile con la passione per le donzelle, il tema della monacazione forzata e la distruzione dell'intera area per mano di inquisitori e popolani impazziti e incapaci di distinguere il reale dall'immaginario.

Copertina più recente del romanzo con dipinto di GOYA.

Un ulteriore elemento cardine, pur se presente sottoforma simbolico/metaforica, è, a mio avviso, rappresentato dal veleno (da intendersi quale elemento di contaminazione della purezza spirituale). Il monaco infatti inizia la sua parabola discendente dopo aver subito un morso da un crotalo (bello l'escamotage del finto novizio che inzierà a succhiargli la ferita, dando l'idea di volersi sacrificare per la vita del religioso con il fine invece di solleticarne desideri a luci rosse). Non cambia molto neppure per la badessa la quale, seppur per "procura" (cioè agendo su un'altra persona in una specie di sindrome di Munchausen per Procura), sottopone a tortura la monaca finendo col macchiare il proprio spirito religioso e quella che dovrebbe essere l'umiltà e lo spirito di perdono nel giudicare gli altri. Comune a entrambi i "peccatori" è lo stato di morte apparente cui andranno incontro (sorte che capiterà anche ad Antonia, una povera donzella che finirà nei sogni di più di un personaggio del romanzo), quasi a simboleggiare un ponte sospensivo tra ciò che erano prima e ciò che diverranno in seguito.

Non mancano infine momenti che delizieranno gli amanti del fantastico, nonostante uno sviluppo di trama a tratti prolisso e diluito, con passaggi da vero e proprio romanzo del terrore. Su tutti cito la parte (grottesca, in verità) che vede protagonisti la Monaca Sanguinosa e l'Ebreo Errante (che compie un esorcismo che mi ha ricordato certi racconti del Carnacki di William H. Hodgson), ma soprattutto le invocazioni demoniache nei sotterranei del convento, per mano del finto novizio, con un Lucifero che appare in duplice veste (dapprima sottoforma luminosa e dismessa poi invece mostruosa e tirannica), statue che si animano e alcune innovazioni come specchi magici che permettono di vedere avvenimenti che si stanno verificando a distanza (donzelle intente a fare la doccia) ovvero mirti che annichiliscono la volontà al semplice contatto sulla pelle e altre soluzioni del genere. Gustose e mai volgari, poi, le parti erotico/passionali soprattutto quelle tra il monaco e il finto novizio (in realtà, come abbiamo detto, è un bel pezzo di fanciulla): "Il monaco ebbe paura non tanto di perdere la donna che gli aveva salvato la vita quanto di dover fare a meno di un amante stranamente esperta nell'arte del piacere."
Il resto lo fanno una serie di colpi di scena (personaggi che sembrano morti e poi non lo sono, altri che sembrano impeccabili e poi peccano) che spiazzano il lettore e un doppio finale beffardo e amaro (viene messa in evidenza la natura falsa del demonio in un epilogo dai tratti dell'inferno dantesco) che si sentitizza nell'ottima conclusione del penultimo capitolo del romanzo dove Lewis lascia trapelare un barlume di speranza e di crescita per i superstiti: "Per il resto della loro esistenza, Raimondo e Agnese, Lorenzo e Virginia furono felici quanto possono esserlo delle creature mortali nate per essere preda delle sventure e trastullo della sorte. L'enorme dolore che avevano sopportato rese leggere le sofferenze che sopravvennero nel corso della loro vita. Erano già stati feriti dalle frecce più aguzze di quante se ne trovano nel turcasso della malasorte: in confronto, quelle che restavano sembravano smussate, come a chi ha attraversato una tempesta, la minaccia di un temporale non dà questo pensiero. E se dovettero sentire ancora il vento passeggero del dolore, non fu più per loro che una dolce brezza che soffia l'estate dal mare."


Foto di scena de IL MONACO (1972) regia di Adonis Kyrou.

Dunque un romanzo fondamentale per lo sviluppo del romanzo gotico e per la nascente letteratura del terrore, ma anche un testo indicato a chi non è interessato a questi temi, essendo incentrato sulla fortunata dicotomia (a livello narrativo) tra amore/sofferenza e morte/invidia.

Varie le trasposizioni cinematografiche, assai inferiori al romanzo, tra le quali Il Monaco del surrealista Adonis Kyrou (1972) con Franco Nero e Nathalie Delon protagonisti per la sceneggiatura del duo Bunuel/Carriere (che modificheranno il finale del romanzo in favore di uno assai più sacrilego) e quello dello specialista dello z-movie Joe D'Amato (1995).

La locandina del film di Adonis Kyrou.

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