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martedì 30 aprile 2024

Recensione Cinema: CIVIL WAR (2024) di Alex Garland.

Regia: Alex Garland.
Anno: 2024 (Stati Uniti e Inghilterra).
Genere: Azione / Drammatico / Distopico.
Soggetto e Sceneggiatura: Alex Garland.
Attori Principali: Kirsten Dunst, Wagner Moura, Cailee Spaeny, Stephen McKinley Henderson, Jesse Plemons e Nick Offerman.
Montaggio: Jake Roberts.
Fotografia: Rob Hardy.
Musiche: Geoff Barrow e Ben Salisbury. 
Durata: 109 minuti.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Erede di una certa produzione cinematografica, quella dei Carpenter, Romero e Cronenberg, che non ha purtroppo trovato prosecutori, il londinese Alex Garland – già sceneggiatore di 28 Giorni Dopo intercetta il malessere e il clima di sfiducia che serpeggia nel mondo per tentare la carta della distopia. La novità sta nell'inscenare il tutto in un'America "molto" prossima forse addirittura contemporanea. Nonostante il titolo, Civil War non è un film sulla guerra civile ma prende, piuttosto, i contorni di un point to point di formazione che indaga sui risvolti sociali della vicenda. Un manipolo di quattro giornalisti, di diverso grado di esperienza, decide di partire da New York per recarsi a Washington col fine di recepire le ultime dichiarazioni del Presidente degli Stati Uniti ormai prossimo alla capitolazione. Gli Stati Uniti (rappresentati da un'unione disgregata e poco motivata a proteggere il sistema) infatti sono in guerra contro una lega assai motivata. Tutto qua. Un viaggio on the road all'inferno, dalla zona relativamente fredda a quella calda, lungo un cammino che rivela tracce di un precedente passaggio del conflitto. Edifici distrutti, colonne di auto abbandonate, cadaveri disseminati sull'asfalto, carcasse di elicotteri. Non ci sono concessioni alla retorica né all'ironia. L'appesantita Kirsten Dunst (la Mary Jane dello Spiderman di Raimi), fotografa di guerra, nei panni di Lee Smith guida il variegato plotoncino composto dall'allucinato e cinico Joel (Wagner Moura), dal saggio ma obeso Sammy (Stephen McKinley Henderson, tra i migliori in interpretazione) e dalla giovane Jessie Cullen (Cailee Spaeny). È un viaggio nel mondo degli inferi, senza happy end (a seconda dei punti di vista) e con una disumanizzazione delle vittime che, a poco a poco, vengono lasciate indietro, sacrificate in vista di un risultato finale (che sia la deposizione del presidente o la realizzazione di un servizio giornalistico in esclusiva) che sovrasta sentimentalismi e solidarietà. Emblema di questa “involuzione” è Cailee Spaeny e la sua graduale perdita dell'innocenza e della empatia che ne caratterizzava i comportamenti. Entusiasta e sognante a inizio film, diviene fredda, ardita e disposta a passare su tutto, anche sulla morte di un caro. “Mi ricorda te da giovane” afferma Sammy a Lee Smith. Eppure, la “tossicità” rappresentata dall'orrore tende a corrodere nel lungo periodo anche i più esperti. Sotto la scorza della navigata reporter di guerra, la Smith (brava la Dunst nel modificare espressività) va incontro a una vera e propria crisi emotiva sullo scenario finale di guerra e, poco prima, subisce una reazione simile anche lo scanzonato Joel. L'adrenalina e la spinta a realizzare lo scoop, a ogni modo, forniscono un effetto anestetizzante, direi addirittura stupefacente, e rivitalizzano i "nostri" al punto da renderli ciechi alla barbaria in cui sono immersi.

Garland non filtra, non ricorre a sensazionalismi cinematografici o a concessioni eroiche. Il coraggio si paga e lo si paga con la vita. È brutale come lo è una contemporaneità dove la guerra è tornata a bussare alle porte dell'Europa, nell'indifferenza di chi non è coinvolto e pensa che la pace sia una condizione immutabile nel tempo. Da una parte si muore mentre dall'altra ci si diverte. Le immagini sono forti. Vediamo uomini ripresi in primo piano a cui i carcierieri sparano colpi in testa, altri appesi per le mani e pestati a sangue, persino una disturbante fossa comune su cui si sparge la calce viva. Crudissima la sequenza con l'eccezionale cammeo di Jesse Plemons, un ultranazionalista che incarna – nell'ottica di Garland (ci azzardiamo di dire) – certe derive repubblicane e non solo (motivo che ha portato all'insorgenza, negli States, di una serie di polemiche che hanno tacciato il film di essere propagandistico). Eh, sì, perché sebbene nel film non si spieghi nulla sulla rivoluzione civile in corso, sotto sotto, si allude alla crescita degli stati "guerrafondai" del sud degli Stati Uniti e a una loro ribellione verso il governo istituzionalizzato (del resto Jake Angeli e l'invasione del Campidoglio qualcosa insegnano). Da rilevare inoltre il disamore alla politica di certi villaggi, come quello in cui i reporter si meravigliano per vedervi riflessa un'immagine di un'America precedente, un posto tranquillo e placido (in apparenza) non toccato dai conflitti e con una commessa che dichiara: “La guerra civile...? Si, meglio restarne fuori”.

Finale altamente spettacolare, con blitz all'interno della casa bianca, esplosioni e sparatorie da war movie, esaltate dalle semi-soggettive di Garland, oltre che dagli effetti sonori e da un realismo che rende il tutto davvero crudo e cattivo, quasi come se si fosse in un videogioco (si pensi al blitz che portò all'uccisione di Osama Bin Laden). I giornalisti si muovono in sintonia con i militari, ne costituiscono gli occhi e le orecchie destinate a immortalare i momenti per farli penetrare nei documenti che faranno la storia su cui studieranno le generazioni future. Non c'è rispetto per niente e nessuno, neppure per la morte e gli indifesi. Le vittime vengono fotografate nell'attimo del trapasso, crivellate dai proiettili, divorate dalle fiamme, mentre si ride e si scherza. Medesima sorte capita agli amici, solo la Dunst ha un barlume di umanità quando cancella la foto del suo mentore da poco deceduto e fotografato con la testa reclinata sul finestrino di un auto. “Noi non siamo qui per intervenire, siamo qua per documentare” afferma Joel.

Un film dunque senza speranza, senza buoni che racconta la storia dalla parte degli insurrezionalisti. La democrazia è crollata, non certo per mano degli anarchici, e chi si insedi al potere non è dato sapere, ma di certo è un qualcuno che ricorre alla giustizia sommaria e all'esaltazione della provenienza etnica. Potentissimo pugno finale, questo sì romeriano (si veda la parte finale di Night of the Living Dead),  rappresentato dallo “sviluppo fotografico”, è proprio il caso di dire, della fotografia del manipolo di militari che sorridono al fotoreporter, alla maniera di un gruppo di cacciatori al termine di una battuta di caccia, avendo ai piedi la preda della loro battuta: nientemeno che il Presidente degli Stati Uniti. 

Coraggioso, sebbene non supportatissimo dal budget, Garland si trova a dover fare economia nella messa in scena e in certe scenografie da post-atomico. L'immagine di Washington invasa dalle truppe, quasi immacolata nel centro civile, stona un po', salvo interpretare il tutto con una sorta di disinteresse generalizzato dei cittadini alle vicende della propria nazione, finita addirittura in balia di un manipolo minoritario di stati evidentemente più coesi al punto da sovvertire l'ordine. Al di là di tale "limite", il film regge e ha il grosso merito di svinvolarsi dai canonici prodotti commerciali del ventunesimo secolo (tipo Zack Snyder o Roland Emmerich). Un ultimo appunto, sul versante tecnico, lo muoviamo per la regia di Garland, bravo nel momento dell'azione ma ripetitivo nei momenti di tranquillita nell'insistere a oltranza nel proporre giochi di cambio di messa a fuoco tra soggetto in primo piano e soggetto in campo lungo. Da vedere per i fan del cinema d'azione dai risvolti sociali alla Carpenter e Romero. Diventerà un cult.

 
Classico gioco di messa a fuoco,
una caratteristica particolarmente ostentata della regia di Garland.
 

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