Sceneggiatura: Manetti Bros e Michelangelo La Neve
Regia: Manetti Bros.
Montaggio: Federico Maria Maneschi.
Fotografia: Angelo Sorrentino.
Colonna Sonora: Pivio e Aldo De Scalzi.
Commento Matteo Mancini.
Ultimo capitolo della trilogia del Re del Terrore che i Manetti Bros concludono in un crescendo da applausi. Diabolik – Chi Sei? è il migliore della serie (probabilmente la perla nell'intera produzione dei due fratelli) da tutti i punti di vista. Si contrae la componente fumettistica (comunque presente con spiccati rimandi alle soluzioni ingegnose della saga 007, ivi compresa la parte sull'isola) a favore di un copione spiccatamente noir/poliziesco, rappresentato da una banda di rapinatori che ricorda molto quelle al centro degli intrecci della filmografia di Fernando Di Leo (con tanto di spogliarello integrale in stile Milano Calibro 9). Il copione viene ispirato all'albo omonimo numero 107 della collezione fumetti Diabolik delle sorelle Giussani (ideatrici anchedel personaggio), in cui venivano trattate le origini dell'uomo dai mille volti. Visivamente figlio delle produzione italiane anni '70 (l'ambientazione rétro aiuta), grazie a soggettive argentiane e dettagli lenziani, la pellicola ha un inizio scatenato che omaggia persino Funny Games (artificio di riavvolgere il nastro per modificare quanto inizialmente proposto) e Batman il Cavaliere Oscuro (sequenza della rapina) per poi prendere una strada diversa dai precedenti capitoli. Se nell'episodio pilota i protagonisti erano Diabolik ed Eva Kant, mentre nel secondo furoreggiava Ginko, qua viene concesso spazio a un nuovo gruppo di villain tipicamente “italiani” (si veda anche Appunti di un Venditore di Donne, 2021) oltre che alle donne (su tutte la marchesa Altea, affidata a Monica Bellucci) con Ginko e Diabolik che si ritrovano inermi a sperare nell'intervento delle stesse.
Notevole la parte in flashback (rigorosamente in bianco e nero) dove viene spiegata la genesi dell'inafferrabile ladro. Uno stralcio che pare ispirarsi a film come Pericolosa Partita (1932) e L'Uomo con la Pistola d'Oro (1974). Spettacolo anche nelle scene di inseguimento, con i Manetti Bros che riportano lo spettatore ai favolosi anni in cui Umberto Lenzi e Sergio Martino deliziavano i palati degli amanti dell'azione.
Tutto
molto bello (fotografia compresa), eccetto l'incertezza nella
sceneggiatura (degli stessi Manetti) nella parte in cui i malviventi
si incartano nel tergiversare sul come gestire i due prigionieri
d'eccellenza: Ginko e Diabolik. Si sarebbe dovuto scrivere meglio
questo sviluppo che, a mio modesto parere, costituisce l'unico neo di
una pellicola per il resto magistrale. Occhio al finale: un chiaro
omaggio al Diabolik
(1968)
di
Mario Bava e, al contempo, chiusura circolare dopo quanto visto nel
primo episodio. Omaggi anche a La
Finestra sul Cortile (1954)
e Caccia
al Ladro
(1955) di Alfred Hitchcock. Cosa chiedere di più?
In conclusione siamo alle prese con uno di quei film di cui si sente la mancanza e che, a differenza di operazioni “similari” come il coevo Dampyr (2022) prodotto dalla Bonelli, resta fedele alla lezione della cinematografia italica senza cedere ai richiami d'oltreoceano. A Hollywood non esistono film di questo taglio ed è questo che rende l'operazione vincente. Ne viene fuori un prodotto di intrattenimento molto divertente e, al tempo stesso, uno spettacolo per gli occhi. Il montaggio tarantiniano (confermate le scene proposte in contemporanea per effetto di una specifica divisione dello schermo) e la colonna sonora (strepitoso il sound di Pivio e Aldo De Scalzi che rievoca la musica di Profondo Rosso utilizzata nella sequenza della villa abbandonata) completano il lavoro portandolo, per i canoni della nostra cinematografia di genere, dalle parti del capolavoro. Tra le tracce musicali, infine, è da apprezzare l'operazione nostalgia col brano Ti Chiami Diabolik di un redivivo Alan Sorrenti che tenta di rinverdire le hit parade conquistate con tormentoni quali Figli delle Stelle (1977) e Tu sei l'Unica Donna per me (1979).
Grande cura nella realizzazione delle scenografie, tanto da sembrare un film anni settanta sia per costumi che per le auto che vengono mostrate. L'ambientazione è nell'immaginaria Clerville, un'accozzaglia di strade e piazze prese a prestito da città italiane debitamente transennate per proporle e agghindarle in veste antiquata.
Cammei per Barbara Bouchet e Max Gazzé. Garanzia Miriam Leone (ancora una volta la migliore del cast artistico), più convincenti del precedente episodio Giacomo Gianniotti e Monica Bellucci (personaggio pomposo). Resta ai margini Mastandrea. Tra i cattivi, convince Massimiliano Rossi, mentre deludono gli sgherri (nessuna traccia dei caratteristi di una volta).
Nota
dolente dai responsi del botteghino e dalla “solita” critica
nostrana che, a differenza dei colleghi esteri quando affrontano
pellicole di registi connazionali, insiste a distruggere quanto dovrebbe sostenere parlando di
“adattamento
mediocre”.
L'Incasso, inferiore a un milione di euro, ne decreta un evidente
insuccesso commerciale a fronte di un budget di dieci milioni. Da qui una riflessione personale: il
vero problema del cinema italiano
non risiede nei registi né nei produttori ma, come si vede da
questi risultati, ricade
sul pubblico (rimbecillito dai bombardamenti hollywoodiani) e sui
critici
“generalisti”
che, anziché spingere per i prodotti di casa, persistono ad
affossare ogni tentativo di risollevare la testa in ossequio a un
atteggiamento spocchioso prossimo a compiere cento anni. E' ora di svegliarsi, invece di vivere nel passato: quanto si sogna è realizzabile, basta crederci.
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