lunedì 23 giugno 2025

Recensione Narrativa: IL DIAVOLO E' FEMMINA di Robert Ervin Howard.

Autore: Robert Ervin Howard.
Titolo Originale: Selezione non originale.
Anno: 1935-1936.
Genere: Antologia di Avventura / Spicy.
Editore: Elara, 2023.
Pagine: 248.
Prezzo: 19.50 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 
PROSSIMAMENTE

domenica 22 giugno 2025

Recensioni Cinematografiche: 28 ANNI DOPO (2025) di Danny Boyle.

Produzione: Danny Boyle, Alex Garland, Andrew MacDonald, Peter Rice e Bernie Bellew.
Sceneggiatura: Alex Garland.
Regia: Danny Boyle.
Montaggio: Jon Harris.
Fotografia: Anthony Dod Mantle.
Colonna Sonora: Young Fathers.

Interpreti Principali: Alfie Williams, Jodie Comer, Aaron Taylor-Johnson, Ralph Fiennes, Edvin Ryding...
Durata: 115 min.

Commento Matteo Mancini.

Dopo oltre venti anni dal rivoluzionario 28 Giorni Dopo, il survival che riscriveva le coordinate del cinema zombi (che poi zombie non erano) guardando a Incubo sulla Città Contaminata (1980) di Umberto Lenzi e a La Città Verrà Distrutta all'Alba (1973) di George A. Romero, si concretizza l'atteso ritorno di Danny Boyle all'horror.

Il regista inglese (ricordiamo premio oscar quale migliore regista nel 2009 con The Millionaire), coadiuvato da Alex Garland (a riformare l'alchimia che aveva esaltato il pubblico di amanti del genere a inizio secolo), sposta l'attenzione dagli infetti agli umani. 28 Anni Dopo è un film di formazione, nonché di ristrutturazione della società "civile" (debole in questo senso) retta da un ideale "razzista" del tutto privato del senso di umanità. Un po' come i redneck de La Notte dei Morti Viventi (1968), i "normali" si divertono a fare il tiro al bersaglio sugli infetti, utilizzando le battute di caccia quali veri e propri rituali di passaggio dall'infanzia all'età adulta.

Il film, potentissimo sul piano visivo e della messa in scena, non convince nella struttura e negli snodi della storia. Garland si porta dietro l'esperienza del più riuscito Civil War (2024) e ripropone una sorta di point to point, che tende a ricadere su sé stesso dopo una prima parte di film funzionale a innescare in egual modo la seconda (elemento focale la visione del falò). Garland fatica a decidere la via da prendere. Non c'è una vera e propria quadratura.  Alla fine si opta per una filosofia esistenziale legata alla contrapposizione tra morte e amore, avendo come elemento di rottura la malattia (sia che sia il morbo o un cancro). Il passaggio all'età adulta va di pari passo con la presa di coscienza che quanti amiamo, a poco a poco, ci lasceranno e che, nonostante questo, si deve andare avanti in cerca dell'amore. Gli sviluppi della trama sono poco verosimili, con tanti momenti proposti in modo frettoloso. Non è verosimile che in un villaggio circondato da protezioni e guardie (un po' come ne La Terra dei Morti Viventi) in ventotto anni non si sia formato neppure un dottore, così come non tiene la “folle” scelta del ragazzino – che ha ben visto cosa lo attenderà - di avventurarsi in una missione suicida e alla fine della fiera del tutto inutile fin dalla partenza, oltretutto portandosi dietro una madre allucinata dalla malattia e che alterna momenti di lucidità ad altri di pura follia (a partire dalla scelta che prenderà a termine del viaggio, assistita da un dottore pazzo). Che dire poi dei soldati svedesi che, pur essendo super tecnologici (visto che nel resto del mondo il morbo non ha attecchito), pensano bene di vagare nella brughiera venendo – a differenza dei due improvvisati – falcidiati dagli infetti? Queste le incongruenze più evidenti, ma ce ne sono altre. A esempio, non si capisce perché in ventotto anni nessuno (anche degli altri Stati) abbia provato a eliminare gli infetti, né come questi abbiano mantenuto l'istinto di riprodursi (forse sarebbe stato opportuno caratterizzarli meglio, intavolare un discorso sociologico di gruppo e di evoluzione della specie). Altro momento che lascia perplessi (pur se di valenza metaforica) è la scena della nascita della bambina, con la madre del protagonista che pur mordendo il cordone ombelicale non contrae il virus, quando invece bastava una goccia di sangue per trasformarsi in mostro. Troppe, troppe, incongruenze per un film che ambisce a diventare il pilota di una trilogia e a proporsi quale punto di riferimento per il futuro. Non mancano poi i vuoti narrativi. Si veda la sequenza del tipo appeso: chi l'ha conciato in quel modo? In egual modo nulla più viene detto - se non alla fine - del padre del ragazzo, del tutto tagliato via dal film una volta che il figlio si è dato alla ricerca del medico.

Boyle riduce i costi di produzione, girando il tutto in piena brughiera, con largo uso di droni, anche nelle inquadrature dal basso, spesso lanciati in senso opposto rispetto agli attori che fuggono, così da aumentare il senso adrenalinico delle scene d'azione. Le scenografie sono esaltate dalla regia e dall'eccellente fotografia (pittorica la sequenza in notturna di rientro sulla strada semi-ingoiata dalle acque) del premio oscar Anthony Dod Mantle (anche lui per The Millionaire). Il montaggio, serratissimo, cerca la via psichedelica alla Natural Born Killers alternando, sotto l'effetto di una musica estraniante particolarmente azzeccata, gli avvenimenti del film con immagini di repertorio che propongono scontri medievali e marce di ragazzini inglesi nelle guerre mondiali del novecento. Una scelta quest'ultima che potrebbe voler alludere alla sete dell'uomo di uccidere i propri simili, pressoché identica, pur cambiandone le modalità di esecuzione, fin dalle origini.

Altissima la componente splatter, tra vomiti di sangue, crani strappati dalle colonne vertebrali, animali sbranati e teste che scoppiano. Finale, versione Splatters di Peter Jackson, lanciato in vista di un imminente sequel che chiude il prologo con cui era iniziato il film: della serie dal "ninja di Dio" di Splatters al ninja di Satana.

La sensazione è che Boyle, assai in forma sul set e talentuoso sotto un profilo tecnico, abbia sprecato una bella occasione, perdendosi insieme a Garland in uno script incerto, che sembra voler criticare le scelte politiche inglesi (Brexit) senza avere la forza di esplicitare certi concetti, celando il tutto dietro a un film di formazione poi non così geniale nel tracciare la maturazione del giovane adolescente.

Notevole Ralph Fiennes, così come il suo monumento alla morte (anche se non si capisce come faccia a stare in piedi). Gustoso l'omaggio a Cillian Murphy, celebre protagonista di 28 Giorni Dopo, proposto in forma infettata sebbene in versione "tale e quale" (l'attore che incarna l'infetto non è il celebre attore, ma una comparsa truccata ad arte). Ordinari gli altri attori, tra cui piace Jodie Comer e un Aaron Taylor-Johnson modalità Christian Bale.

Capolavoro da un punto di vista visivo, lascia a desiderare nella cura dello sviluppo della storia

Danny Boyle e Alex Garland.

 

domenica 15 giugno 2025

Recensione Narrativa: PARASITE PLANET di Stanley G. Weinbaum

Autore: Stanley Grauman Weinbaum.
Titolo Originale: Parasite Planet.
Anno: 1935.
Genere: Fantascienza / Avventura.
Editore: Black Dog (2021).
Pagine: 128.
Prezzo: 14.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Piccolo assaggio della narrativa fantascientifica di Stanley G. Weinbaum, meteora lucente dell'era d'oro dei Pulp Magazine. Nato nel 1902 negli States all'epoca dei vari Robert E. Howard e Howard P. Lovecraft, ha condiviso con gli stessi la prematura morte, oltre che l'apprezzamento di colleghi contemporanei (Lovecraft apprezzò il suo sforzo nel creare nuove forme di alieni) e successivi (Asimov rivelerà di essere un “adoratore di Weinbaum”) fino a diventare un modello di riferimento.

Scomparso all'età di trentatré anni per effetto di un tumore aggressivo ai polmoni, probabilmente sottovalutato e inizialmente ricondotto a una tonsillite e poi a una polmonite, Weinbaum, in appena un anno di attività (era ingegnere chimico), è riuscito a scalare le vette della fantascienza rivoluzionandone l'approccio e qualificandosi quale pioniere della narrativa esplorativa. La vita aliena, liberata dai tratti umani, irrompe con forme, caratteristiche e istinti totalmente diversi da quelli a cui era abituati i lettori del genere. Weinbaum si sforza di creare mondi nuovi che, tuttavia, si poggiano su realtà conosciute dall'uomo salvo poi intervenire per dare campo alla fantasia e riempire gli spazi vuoti dovuti a una conoscenza scientifica da affinare. I suoi racconti sono ambientati sui pianeti della Via Lattea, con un piglio scientifico che guarda tanto alla biologia (animale e vegetale) quanto alla geologia e all'astronomia. Ecco allora entrare in gioco le conformazioni dei pianeti, il clima, il modo in cui il pianeta ruota o si muove nello spazio e le conseguenze che ne derivano, le lotte (alla Antonio Ligabue) tra le varie specie viventi. Da Marte a Titano (satellite di Saturno), passando per Urano e Venere, ogni pianeta è buono per mettere in scena un racconto all'insegna dell'avventura in stile Edgar R. Burroughs. Ed è proprio alla “stella del mattino” che è dedicato l'opuscoletto, 18x11 cm per 126 pagine, pubblicato dalla Black Dog nel 2021. Un dittico, già apparso in altri volumi italiani, facente parte del ciclo “Ham” Hammond e Patricia Burlingame, da cui viene escluso The Planet of Doubt (“Il Pianeta del Dubbio”, 1935).

I due racconti proposti dalla Black Dog si incentrano sulle avventure venusiane della coppia, formando quello che potrebbe essere considerato un piccolo romanzo (i due racconti devono essere letti in ordine). Il dittico si apre con Parasite Planet (“Il Pianeta dei Parassiti”), uscito nel 1935 su Astounding SF, che si presenta quale via di mezzo tra un point to point infarcito di insidie di ogni tipo (ambientali, geologiche, animali e vegetali) e un saggio fantascientifico sul pianeta Venere. In modo leggero ma al tempo stesso approfondito, Weinbaum presenta al lettore, da ogni punto di vista, i misteri del pianeta, la sua fauna e la sua flora, rappresentandolo come una “desertica giungla” dove la morte può arrivare all'improvviso. Eruzioni fangose che destabilizzano il terreno, esseri che anticipano il blob poi portato al successo negli anni cinquanta dal cinema, alberi carnivori, creature bipedi che ricordano scimmie che vivono al buio, vegetali parlanti, muffe che aggrediscono le ferite portando a morte pressoché immediata, insetti eccetera. Va in scena la lotta per la sopravvivenza, in mezzo alla quale si trovano coinvolti i due protagonisti: un commerciante americano, a caccia di prodotti che sulla Terra vengono ricercati per quella che oggi definiremmo la chirurgia estetica (interessante riflessione dell'autore sulla questione e su come tali pratiche non evitino la morte), e un'antipatica biologa inglese che studia e campiona le creature viventi del pianeta. Weinbaum non lesina ironia. I suoi due protagonisti discutono, bisticciano stile Riamondo Vianello e Sandra Mondaini, tirando in ballo le nazioni di provenienza, in una sorta di rappresentazione del colonialismo visto dalla prospettiva dei due distinti stati. Presente il piglio cavalleresco, che pone l'uomo in veste di protettore e di paladino a difesa della donna (testarda e cocciuta).

 
Copertina d'epoca.
 

Parasite Planet sceglie la via dell'azione, con una marcia in ambiente ostile necessaria ai proagonisti per raggiungere un punto in cui resistere all'imminente avanzare dell'estate e alle tempeste che flagellano il torrido pianeta. È il racconto della luce che si contrappone a The Lotus Eaters (“I Mangiatori di Loto”), interamente ambientato nelle tenebre. Weinbaum infatti propone le due facce del pianeta. Da una parte quella sotto la sguardo del sole, dall'altra quella su cui l'astro non si affaccia mai. Se da una parte l'acqua e le piogge evaporano creando una fortissima umidità, dall'altra regna il ghiaccio, con catene montuose che arrivano a sfiorare i 40.000 metri (avete capito bene). Un clima quest'ultimo che riduce (ma non elimina) la vita, togliendo di mezzo insetti, muffe e altre creature ostili. Se Parasite Planet lo potremmo definire un racconto che usa il veicolo del racconto di genere per fare fantascienza sul versante della vita extraterrestre, trattata come si sarebbe potuto fare in un documentario di Piero Angela, The Lotus Eaters prende la via dei grandi dilemmi esistenziali. Attraverso delle creature indigene che vivono nelle grotte (una sorta di calcolatori vegetali) e che dimostrano di adattarsi al linguaggio umano (nel primo racconto c'è persino un accenno a quello che farà Tolkien in Lord of the Rings) oltre che di vivere tra loro quale unico grande organismo interconnesso (King utilizzerà la cosa per gli zombie di Cell), affronta profili di matrice filosofica, arrivando a sposare la teoria del caos. Non c'è nessun Dio, non c'è nessun disegno. “La vita non ha alcun senso”. Domina la brutale teoria darwiniana dell'evoluzione della specie. Tutti sono utili e nessuno è indispensabile. Racconto sicuramente meno action, stanziale (i nostri si muovono con un razzo dotato di luci muovendosi in un arco circoscritto), che anticipa trovate che faranno la fortuna di pellicole come Pitch Black e che propone spunti riflessivi superiori alla media dei prodotti da pulp magazine.

Dunque, aspettatevi grande sense of wonder, un pizzico di horror (bella la scena all'interno delle grotte con i “triocchiuti abitatori delle tenebre”) e l'immancabile storia di amore incastonata in un romanzo che è un antenato di storie come il recentemente recensito The Lost Level di Brian Keene, pur guardando allo spazio piuttosto che immaginare mondi collocati su diversi piani esistenziali.

Pur ammantato da un'aura di leggenda, Weinabaum resta un autore da rivalutare nella nostra penisola. È vero che è stato antologizzato più volte in Italia, ma è altresì vero che se ne parla poco. Il volume della Black Dog, peraltro ben illustrato, è un piccolo assaggino per spingere a recuperare altro materiale.

Stanley G. Weinbaum.
 
 Il regno animale infuria senza sosta contro sé stesso e il mondo delle piante; il regno vegetale contrattacca e spesso supera quello animale nel rigurgitare mostruosi orrori predatori che con le piante hanno ben poco a che fare. Che mondo orribile!

sabato 14 giugno 2025

Recensione Narrativa: WEIRD 4 di AA.VV.

Autore: AA.VV..
Anno: 2024.
Genere: Fantastico - Weird.
Editore: Dagon Press.
Pagine: 160.
Prezzo: 12.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

Quarto numero della rivista/antologia Weird, forse il più prezioso per la presenza di un inedito assoluto di Abraham “Bram” Stoker, il mitico autore di Dracula. Pietro Guarriello anticipa la concorrenza e, avvalendosi della traduzione di Emilio Patavini, propone Gibbet Hill (“La Collina degli Impiccati”, 1890), un racconto pubblicato sul Daily Express di Dublino e poi scomparso dai radar. È un racconto che rispecchia l'interesse di Stoker per i serpenti, basti ricordare i due romanzi che chiudono il cerchio della sua produzione ovvero l'esordio con The Snake's Pass (“Il Passo del Serpente”), scritto proprio nel 1890, e il più famoso The Lair of White Worm (“La Tana del Serpente Bianco”, 1911), romanzo di congedo. Pur non essendo un capolavoro, Gibbet Hill è un racconto di grande presa naturalistica che ricorda molto da vicino certi lavori di Algernon Blackwood e altri di Arthur Machen (stregonerie giostrate da bambini diabolici). Stoker lo inizia all'insegna di una cronaca di valenza socio/folkloristica sugli usi e costumi del popolo britannico. La storia si dipana blandamente fino a crescere verso un acuto in salsa horror. Non un capolavoro, ma a tratti ipnotico e di certo un bel racconto rinvenuto sul finire del 2023 negli archivi della biblioteca d'Irlanda. Dunque una proposta che vale da sola l'acquisto del libricino, sebbene sia un numero per il resto non certo memorabile. In prima battuta diminuiscono il numero di pagine, che passano da un massimo di 204 ad appena 166 pagine (120 dedicate ai racconti), con un calo di circa quaranta pagine ovvero prossimo al 20% senza che questo incida sul prezzo di copertina che resta lo stesso. I sette racconti proposti non sono stati amalgamati a dovere. Sono tutti piuttosto brevi, a breve respiro e ciò non rende entusiasmante la lettura. A ciò deve aggiungersi che, a parte i due ospiti italiani (che di certo non sfigurano nel confronto) e il racconto di John Vernon Shea, si tratta di testi liberi da diritti che Guarriello pesca al di fuori del circuito delle edicole in una sterminata offerta che, di certo, annovera perle mai giunte in Italia e che, pertanto, poteva essere effettuata meglio.

Tra i racconti proposti spicca, per il beffardo ma “disonesto” finale, Los Ojos de Lina (Gli Occhi di Lina, 1904), un esercizio di stile per trequarti di racconto che gigioneggia sullo sguardo femminile per poi andare a parare in un prefinale tragico che strizza l'occhio a Berenice (1835) di Edgar Allan Poe salvo poi riscrivere il tutto. Conclusione cinica e che sembra suggerire un qualche strascico personale col gentil sesso (magari una cocente delusione amorosa). L'epilogo è comunque di gran effetto.

Punta tutto sullo stile anche Jane de la Vaudère con Volupté Rouge (“Lussuria Rossa”, 1902), un testo estremamente elegante e allusivo ambientato nel mondo del circo, con venature erotiche che portano al drammatico e sadico epilogo piuttosto telefonato ma comunque efficace.

Questi i tre migliori racconti, dietro ai quali si assesta l'affascinante e fiabesco Crowdy Marsh (“La Palude delle Tre Streghe”, 1910) di Sabine Baring-Gould, una sorta di riscrittura del mito delle tre parche.

Colpisce meno The Old Lady's Room (“La Stanza della Vecchia Signora”, 1964) di John Vernon Shea, non perché sia un brutto racconto, ma perché la storia proposta è trita e ritrita con uno sviluppo prevedibile che non annovera alcun colpo di coda. Il tema è quello della casa infestata che vede il nuovo ospite alle prese col fantasma del precedente inquilino che non intende lasciare l'appartamento e, a poco a poco, si sovrappone al nuovo arrivato. Da un punto di vista di quadratura, insieme al racconto di Stoker, è il racconto più strutturato del lotto, ma i contenuti non sono tali da renderlo memorabile. Finale da horror cinematografico.

Completano il lotto i contributi di due amici. Maurizio Bianciotto con L'Abitatore del Bosco presenta un soggetto ultraclassico in perfetta linea con la sua produzione dominante. Point to Point di ambientazione est europea, con riferimenti storici legati alle vicende della Polonia ai tempi dell'invasione in Russia di Napoleone, e contenuti tipici della storia alla Dracula. Un viandante sorpreso dalla bufera nel bosco, contrariamente alle leggende popolari e agli avvisi ricevuti, ripara in una villa (anziché in un castello) di un Conte maledetto. Seguono la cena e gli incubi notturni. Ottima scrittura, talento cristallino nella gestione dei tempi narrativi, ma soggetto inflazionatissimo.

Paco Silvestri invece guarda a storie tipo Into the Pit (1999) di Richard Laymon con Pozzi. Una storia dall'indubbia atmosfera horror nella parte terminale, ma debole nell'innesco. Riesce tuttavia a catturare l'interesse del lettore e mostra una buona capacità dell'autore nel suscitare la tensione.

Trenta pagine di ampie biografie degli autori trattati completano un volume che, un po' come il numero 1, lascia la sensazione di non aver massimizzato le potenzialità. Resta comunque una buona iniziativa, specie per il suo dare spazio a validi scrittori italiani ancora in cerca di un'affermazione importante e per cercare di presentare scrittori poco noti e in alcuni casi sudamericani.

Credete che esista una donna capace di compiere il sacrificio di cui vi ho parlato? Se gli occhi di una donna vi feriscono, sapete come rimedierà? Strappando i vostri, per non vedere i suoi.

lunedì 9 giugno 2025

Recensione Narrativa: IL LIVELLO PERDUTO di Brian Keene.

Autore: Brian Keene.
Titolo Originale: The Lost Level.
Anno: 2015.
Genere: Fantastico / Avventura.
Editore: Lettere Elettriche (2025).
Pagine: 280.
Prezzo: 18.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini. 

Avete presente le novelle della serie Challenger di Conan Doyle (si pensi a The Lost World – Il Mondo Perduto, 1912) e il pulp Gestapo Mars (2015) di Victor Gischler? Ecco, The Lost Level, serie pubblicata da Brian Keene a partire dal 2015 e ancora in fase di sviluppo, si muove su queste coordinate avendo come base di riferimento The Dark Tower (“La Torre Nera”) di Stephen King.

Ci troviamo infatti in un secondary world a cui si accede, per mezzo della magia (così fa il protagonista, un occultista con una certa vocazione per l'azione), passando da un livello all'altro e muovendosi tra passato e futuro.

Il Labirinto” di Keene, così come “La Torre Nera” di King, “collega tutto e usandolo si può viaggiare di pianeta in pianeta e di galassia in galassia... La nostra galassia e il nostro universo hanno differenti versioni che esistono in altri spazi dimensionali”. Si parla dunque di realtà alternative da cui si può accedere a ulteriori livelli (altrimenti detti dimensioni). “Il Livello Perduto” è una dimensione trappola, costantemente battuta dal sole, da cui, una volta penetrati, non si può più uscire. Keene sviluppa proprio in tale dimensione la sua adventure story e lo fa con un piglio weird, prossimo a quello che ci aveva deliziato in occasione di Earthworm Gods (“I Vermi Conquistatori”, 2005), interamente votato all'azione (lotta con spade, mani nude, pistole e fucili futuristici). Non ci sono situazioni dissacranti in ossequio agli estremismi a cui talvolta l'autore piace abbandonarsi. Anzi, in alcuni punti, ci sono sdolcinati momenti politically correct (tipo uno spot propagandistico in favore della parità tra i sessi). The Lost Level è un romanzo che sarebbe molto piaciuto ai lettori di inizio novecento e che omaggia i film fantascientifici degli anni cinquanta animati con la tecnica della stop motion. Il romanzo è pieno zeppo di mostri che altro non sono che creature del nostro mondo presentate in versioni ciclopiche (tipo granchi e lumache giganti), ma figurano anche un T-Rex che lotta con un robottone (la copertina rappresenta una parte di storia), uno pterodattilo (omaggio a Doyle) che intende artigliare i nostri e il leggendario ottofante, oltre piccoli uccelli piranha e, udite udite, dischi volanti nazisti, grigi (alieni in vena di abduction) e vera e propria spina nei fianchi gli annunaki (dei rettiliani antropomorfi che fungono da antagonisti per tutto il corso della vicenda).

La struttura, che non ha una vera e propria fine presentandosi quale primo episodio di una storia che resta in sospeso, segue il cliché tipico dei point to point. Un occultista, in vena di sperimentazioni, si ritrova perduto in un mondo presentato come una terra dei primordi. Natura allo stato puro, trappole continue che annoverano pericoli come erba tagliente, pozze di acqua che si rivelano creature invertebrate e animali di ogni specie (persino un gatto antropomorfo). Durante la marcia, il nostro libererà alcuni umani autoctoni dalla prigionia di un plotone di uomini serpenti e da qui partirà l'avventura per tornare al villaggio dei liberati. Keene inserisce la storia d'amore tra il protagonista e la regina liberata e, soprattutto, un'infinita sequela di scene d'azione che delizieranno gli amanti dei mostri giganti. Tante le sottotracce, alcune appena abbozzate, come un morbo zombie che avrebbe colpito una realtà parallela a quella terrestre e da cui sarebbe fuggito un cowboy finito nel livello perduto, oppure l'idea di un creatore che si muove nei sotterranei del mondo in combutta con i grigi, la presenza di robot volanti provenienti dal futuro che raccolgono la posta e che ricordano quelli presenti in The Waste Lands (“Terre Desolate”, 1991) di King, e ancora riferimenti a Il Triangolo delle Bermude, aerei da guerra abbandonati nella boscaglia, riferimenti a un mondo in cui i nazisti hanno trionfato, templi pagani e via dicendo. Ce n'è davvero per tutti i gusti e la cosa promette bene per i sequel.

L'edizione curata da Lettere Elettriche è professionale. Traduzione ed editing curati al punto giusto.  Non ho rinvenuto refusi o scivolate particolari, a parte qualche dialogo che si poteva scrivere meglio (non so se da parte di Keene). La copertina è quella originale.

Il finale, già lanciato verso un sequel, promette un prosieguo che Keene ha scritto tre anni dopo dando alle stampe Return to the Lost Level (2018).

L'intrattenimento è assicurato. Lettura di evasione, nel vero senso della parola. Tra le scene più bizzarre segnalo quella con Bloop (uno dei personaggi più riusciti e ben caratterizzati da Keene, una specie di Chewbecca di Star Wars) che omaggia l'epilogo con Perlman in Pacific Rim (2013). La più riuscita, invece, è la parte horror nel tempio della lumaca.

Alessandro Girola lo saccheggerà, pur introducendo delle varianti, per il suo Cocagne. Keene, però, è altra roba.

 
L'autore Brian Keene
  
L'umanità è in gran parte ignara della sua esistenza, ma esso viene esplorato e utilizzato da folli, maghi, occultisti e da alcuni esponenti di spicco dei governi mondiali. 

martedì 3 giugno 2025

Recensione Narrativa: COCAGNE di Alessandro Girola.

Autore: Alessandro Girola.
Anno: 2018.
Genere: Fantasy / Azione.
Editore: Plutonia Publications.
Pagine: 300.
Prezzo: 13.00 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini

Vero e proprio romanzo di Alessandro Girola, a quanto pare tra i più apprezzati della sua sterminata e copiosa produzione (il sottoscritto si dissocia). Siamo dalle parti del sword and sorcery, anche se sarebbe più corretto parlare di multiverso e realtà parallele. Facente parte di un ciclo formato da episodi autoconclusivi (tra i quali la serie Biondin e Astrea), Cocagne prende spunto dalla tradizione classica (il viaggio dell'eroe nell'aldilà inteso in senso ampio del termine), tra Dante Alighieri, Mago di Oz (con tanto di partecipazione diretta del suo autore in veste di personaggio) e soluzioni visive che rimandano a Bosch, per arrivare a quelle che sono le veri fonti di ispirazione ovvero The Dark Tower (“La Torre Nera”) di Stephen King e soprattutto The Lost Level (“Il Livello Perduto”) di Brian Keene. Girola, che ha letto in inglese la produzione di Keene, anticipa l'uscita sul mercato italiano del capitolo pilota della saga (sdoganato nella nostra penisola nel 2025 da Badlands) realizzando un vero e proprio clone con molti inneschi comuni. Il protagonista infatti, come l'eroe di Keene, è un esperto di occultismo e di rituali magici per mezzo dei quali riesce a varcare un portale multidimensionale che lo ammette nel Mondo Delta, una dimensione da cui si dipanano tutte le realtà parallele che contraddistinguono la realtà.

La struttura è quella del point to point, alla ricerca di una sorgente magica capace di guarire i mali fisici. Il protagonista infatti, tutt'altro che un uomo di azione (fa il commercialista), è affetto da un tumore alle ossa e pensa bene di sconfiggerlo ricercando una sorgente di cui ha letto (!?) nei resoconti di coloro che sono tornati da Mondo Delta. Girola semplifica tanto, scivolando in più di un passaggio in ingenuità e, talvolta, persino in soluzioni più consone a una fiaba (la Baba Yaga che confeziona pasticcini). L'occasione è comunque propizia per realizzare un bel frullato e calare nel suo secondary world, un po' alla King, molte delle tematiche care alla sua produzione fatta di bestioni giganti (abbiamo un carnosauro, presente anche in Keene, in una sequenza che omaggia l'aggressione del T-Rex nei pressi della cascata in Jurassic Park di Crichton) di nazisti, passando per i robottoni, i centauri, le streghe, le gatte mannare stile Il Bacio della Pantera e creature mostruose ibridate da componenti umane (un po' come il mostro nel film Leviathan di Pan Cosmatos). Si passa continuamente da un'avventura all'altra, tra patti, combattimenti all'ultimo sangue, pietre magiche e fughe nella vegetazione. A differenza di altre opere dello scrittore milanese, si percepisce una minore cura nello stile. L'editing è buono, non fraintendetemi. Non ho ravvisato refusi o passaggi appesantiti, ma ho avuto la sensazione di una costruzione dei periodi fin troppo semplificata e velocizzata, come se l'autore mirasse a sfornare piuttosto che a particolareggiare. La lettura non è elegante ed evocativa, optando per un taglio piuttosto freddo nel tratteggiare le scenografie e nel raccontare gli accadimenti. A tratti il tutto diventa didascalico, con “spiegoni” e narrazioni di episodi avvenuti in passato filtrati dall'artificio del dialogo (aspetto che uccide il pathos). Non si lavora adeguatamente sulle atmosfere per un romanzo, peraltro, dalle infinite potenzialità. Alla fine, resta una lettura veloce, con tanta carne al fuoco che, tuttavia, non riesce a rapire l'emotività dei lettori. Personalmente, gli trovo superiore, come costruzione e tecnica di scrittura, Tigre Blu. A presto per nuove letture di opere di Alessandro Girola.

Il volume esiste in tre versioni: ebook, cartaceo con copertina flessibile e cartaceo con copertina rigida.

Edizione con copertina flessibile.

 

sabato 17 maggio 2025

Recensione Narrativa: THE OUTSIDER di Stephen King.

Autore: Stephen King.
Titolo Originale: The Outsider.
Anno: 2018.
Genere:  Horror / Giallo.
Editore: Sperling & Kupfer.
Pagine: 529.
Prezzo: 12.90 euro.

Commento a cura di Matteo Mancini.

Quarto capitolo della serie poliziesca Mr Mercedes da cui arriva uno dei pochi personaggi seriali della narrativa di Stephen King: la detective Holly Gibney. Uscito nel 2018 dopo Sleeping Beauties, The Outsider prosegue il percorso di Stephen King nel thriller e nel romanzo di indagine prendendo vie che ricordano molto da vicino quelle battute da Dean Koontz negli anni ottanta. Tornano infatti concetti come quello del doppio, dell'indagine su una catena di omicidi seriali su cui si affacciano componenti soprannaturali, la tematica delle violazioni di domicilio, delle minacce, degli stupri e delle brutali violenze sessuali. Da ultimo ecco poi arrivare i poteri parapsicologici del villain di teletrasportarsi da un posto all'altro, seppure in forma similar ectoplasmatica. Tutte tematiche e concetti propri della narrativa di Koontz, si vedano romanzi quali Whispers (“Sussurri”, 1980) o The Bad Place (“Il Posto del Buio”, 1991). Su tale intelaiatura King “monta” la leggenda metropolitana/folkloristica dell'uomo nero. La figura dell'uomo nero, assai cara a King fin dai tempi dell'antologia A Volte Ritornano, è riadattata in favore della leggenda messicana di “el cuco”, una sorta di vampiro sudamericano sprovvisto di forma e costretto a nutrirsi di sangue e di carne umana per poter sopravvivere e plasmare il proprio corpo assumendo quello dei soggetti da cui ha estratto il DNA e su cui andranno a ricadere le colpe dei suoi crimini (lascia infatti prove e indizi dietro di sè proprio per fare accusare altri).  “Quando i bambini americani intagliano la zucca per Halloween, stanno scolpendo il ritratto di El Cuco”. Dunque abbiamo una di quelle figure cinematografiche alla Freddy Krueger o alla Michael Myers, sebbene di natura extraterrestre (l'essere è composto da vermi). In buona sostanza, Dracula incontra gli Ultracorpi, in un substrato di critica alla giustizia penale che si spinge, per effetto della supponenza (dovuta alla presunte certezze scientifiche) tipica del luminare che pensa di aver tutto sotto controllo, ad accusare persone di reati che non hanno compiuto. Aspetto quest'ultimo non di poco conto nell'economia della storia, posto che due innocenti incontreranno la morte anche per via di una valutazione (non lontana della realtà) pecoreccia delle masse giustizialiste.

Ecco che The Outsider (l'intruso) si presenta con le stigmate di un vero e proprio romanzo di indagine le cui premesse iniziali verranno a poco a poco scombinate da un qualcosa di inedito e sconosciuto che mina le certezze dei sistemi accusatori. Dal giallo/thriller si evolve in un horror d'azione che termina forse frettolosamente (omaggiata la morte del T-1000 in Terminator - Il Giorno del Giudizio), seppure in un contesto assai scenografico debitore di romanzi come Demon Night (“La Notte del Demonio”, 1989) di Joseph Michael Straczynski.

King adotta un ritmo molto più sollecito del suo solito, specie nelle fasi iniziali, divertendosi a omaggiare la narrativa classica (William Wilson di Poe, Sherlock Holmes di Doyle, Dracula di Bram Stoker) ma anche i prodotti cinematografici dei drive in con gustosi omaggi tarantiniani a film messicani come Rosita luchadora e amigas conocen El Cuco ovvero “Le wrestler messicane incontrano il mostro”. L'inizio è memorabile e ricorda certe scene del racconto Blockade Billy (“Blocco Billy”, 2017, contenuto ne Il Bazar dei Brutti Sogni). Lo sviluppo tuttavia segue cliché lontani dalla tradizione kinghiana degli anni ottanta e novanta. King viene fuori alla distanza e lo fa con uno sguardo che omaggia i classici della narrativa del terrore e, al tempo stesso, offre una metafora del male umano, raffigurando “il mostro” con tratti insospettabili rappresentati da facce banali che incarnano il buon vicino della porta accanto. Ecco arrivare le citazioni dirette a Ted Bundy e a John Wayne Gacy, ma anche a Renfield (l'outsider ha un aiutante pazzo a servirlo), all'attitudine del mostro (come Dracula) di vivere riposando nei luoghi di sepoltura e persino la sfumatura freudiana e psicanalitica che fa del mostro un impotente sessuale come tale era Dracula (King dedica un'approfondita analisi sulla questione in Danse Macabre, 1981, parlando di sessualità orale). Lo stesso finale, all'apparenza frettoloso, non è troppo dissimile rispetto a quello di Dracula e si chiude sempre con la distruzione della testa dell'essere infernale (vera e propria cabina di regia). Più che in Bram Stoker, dove si fa un rapido accenno alla genesi del mostro, in The Outsider nulla viene detto sulla natura del villain. È una scelta deliberata. King propone alternative ipotetiche che, tuttavia, decide di non risolvere.

Alla fine ne viene fuori un romanzo più maturo e più allineato alla narrativa commerciale convenzionale, in grado di aggraziarsi i puristi del giallo ma che si trasforma in horror per la natura extraumana del villain. Tra i momenti da antologia kinghiana vi è la sparatoria all'esterno della grotta, la parte finale all'interno della stessa, l'arresto iniziale in uno stadio di baseball e la sparatoria ai piedi del tribunale. Bella anche la scena della contaminazione del poliziotto sfiorato da El Cuco.

Dunque un romanzo che definirei onesto, privo di quelle ingenuità che sovente filtrano dalle righe kinghiane, che riesce a intrattenere pur pagando qualcosa in termini di originalità. Non il top nella produzione kinghiana, ma neppure un romanzo che si può utilizzare a supporto della tesi (che non supportiamo) di un Stephen King in declino. L'autore tornerà a utilizzare la protagonista in Holly (2023) e nell'appena uscito Never Flinch (2025). Il romanzo, invece, ha ispirato una serie televisiva del 2020.

 


La realtà è come uno strato di ghiaccio sottile, ma quasi tutta la gente ci pattina sopra tranquillamente e il ghiaccio si rompe solo alla fine.