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venerdì 30 marzo 2012

Spaghetti Western VOL.1 di Matteo Mancini: Coming Soon



Premessa da SPAGHETTI WESTERN VOL. 1 di MATTEO MANCINI di prossima uscita per l'editore il foglio.

Sono qua a presentarvi in esclusiva la mia premessa al mio primo volume (di tre) dedicato allo spaghetti western in particolare e, più in generale, al cinema bis nostrano. Il primo volume, dovrebbe andare in vendita a 18 euro per IL FOGLIO LETTERARIO di Gordiano Lupi, sarà composto da poco meno di 400 pagine e tratterà i western usciti nelle sale dal 1962 al 1966 (con tanto di commenti personali bilanciati e contrapposti a quelli della critica generale, della critica di settore e dei blogger internazionali più appassionati) oltre a una lunga premessa in cui si parlerà del Wild West Show di Buffalo Bill, dell'ostracismo fascista ai film americani, all'arrivo di questi ultimi dopo la seconda guerra mondiale e quindi dei fumetti western, del neorealismo, dei proto-western, dei western di ambientazione nazionale, degli zorro movie e infine della nascista dello spaghetti western.

Eccovi la premessa,

Spaghetti Western è un progetto concepito per caso, durante il Pisa Book Festival 2010, in occasione di una chiacchierata tra me e l'amico Gordiano Lupi. Il discorso cadde dalla narrativa fantastica (passione che ci accomuna) alla cinematografia di genere. Ricordo che Gordiano stava curando un interessante progetto sull'horror italiano (uscito poi col titolo “Storia del cinema horror italiano” n.d.r.) costituito da molteplici volumi. Tra un discorso e l'altro, davanti alla cospicua produzione di saggi cinematografici de Il Foglio Letterario, mi venne di chiedere come mai non vi fosse neppure un libro su quello che io reputo, per la sua storia e l'influenza su tutti gli altri generi di intrattenimento, il genere principe: lo spaghetti-western.
Gordiano prese la palla al balzo e, senza aggiungere altro, mi rispose: “visto che scrivi bene e ti piace il cinema italiano di genere, perché non lo scrivi te, per la mia casa editrice, un libro sul western?” Sulle ali dell'entusiasmo accettai senza tentennamenti, pur sapendo che mi avrebbe atteso un lavoro lento e impegnativo poiché, come insegna Lee Van Cleef nel film I giorni dell'ira, chi non accetta una sfida l'ha già perduta, e l'ha perduta nel modo peggiore. E così eccomi qua, lanciato al galoppo verso un mucchio selvaggio di film che mi ha tenuto impegnato per più di un anno.

D'accordo con l'editore ho deciso di dar vita a un progetto che non avesse ambizioni di completezza (poi è finita che ho recuperato e parlato di quasi tutti i film del periodo). A tale scopo, infatti, ci sono già gli importanti volumi di Marco Giusti (Dizionario del Western all'Italiana) e del recentemente scomparso Antonio Bruschini (Western all'Italiana), due autentiche bibbie in fatto di western. Il mio obiettivo era, ed è tuttora, quello di avvicinare un pubblico giovane a un genere che, al giorno d'oggi, (insieme al peplum e al c.d. macaroni combat) è il più sconosciuto e sottovalutato della cinematografia italiana. Un genere che ha poco da spartire con lo stereotipo del western che aleggia nella mente delle persone ovvero quello dei western americani con John Wayne fortemente connessi all'epopea dei cowboy e al loro rapporto conflittuale con gli indiani ovvero quello degli sceriffi integerrimi legati ai valori degni di una società che si rispetti.

Il western italiano è altro, ed è l'imprescindibile punto di partenza per il thriller e soprattutto per il poliziesco all'italiana, specialmente per la tipologia di regia, fatta di primi piani, zoom, dinamismi e cura dei particolari, senza disdegnare bizzarrie e sperimentazioni con giochi di messa a fuoco. Inoltre è un genere in cui, seppur con ruoli diversi, si sono confrontati quasi tutti i registi degli anni '60, '70 e '80, tra i quali i maestri del thriller Dario Argento e Sergio Martino, del gotico Mario Bava, della sci-fi Antonio Margheriti, del gore Lucio Fulci, dell'erotico naif Tinto Brass e di quello più spinto Joe D'Amato, del poliziesco Enzo G. Castellari, del cinema di guerra italiano poi denominato dagli americani macaroni combat Umberto Lenzi, del noir Fernando Di Leo e del cinema impegnato con autori quali Pasolini, Lizzani e moltissimi altri. È anche il cinema che ha consacrato star hollywoodiane come Clint Eastwood e Burt Reynolds all'epoca sconosciute, o ne ha rivitalizzate altre cadute nell'oblio come Lee Van Cleef ovvero precedentemente confinate nel cinema impegnato come Tomas Milian, per non parlare di tutti quei personaggi come Bud Spencer, Terence Hill, Franco Nero, Giuliano Gemma, Gianni Garko nati proprio grazie al genere.

Così ho cercato di tracciare un filo conduttore che potesse fungere da bussola orientativa in modo da far emergere la genesi e la morte di un genere che ha saputo evolvere di anno in anno in qualcosa di diverso, dando vita a una sterminata serie di sottogeneri, alla maniera di un sole che spunta dal monte e variando la propria intensità taglia il cielo prima di spegnersi nell'oceano del ricordo.

L'alba è stata caratterizzata dai western filo hollywoodiani, cioè basati sul mito del lontano west e sull'importanza dei valori della giustizia e della famiglia, seppur miscelati da una malinconia aliena al cinema d'oltreoceano. È stato però un veloce lampo, cancellato dall'intenso bagliore del cinema di Sergio Leone fatto di violenza e spavalderia in cui furoreggiavano bounty killer e vendicatori solitari. Storie con personaggi ambigui, non stereotipati, incentrate sulla vendetta del protagonista a danno di gruppi di soggetti colpevoli di qualche malefatta. Potremmo senz'altro definirli gli antenati dei film di registi come Quentin Tarantino o Robert Rodriguez. E poi arrivarono gli adattamenti di soggetti estrapolati dalla letteratura classica e ispirati dalla penna di William Shakespeare, Omero, Jules Verne, Alexandre Dumas e via dicendo.

Il successo al botteghino, improvviso, imprevedibile e crescente di questo tipo di film, portò produttori e registi (compresi quelli impegnati), provenienti da ogni settore, a misurarsi col western. Così, a partire dal '66, arrivarono i western gotici dal taglio horror (il riferimento va alle ghost stories) o giallo, ma soprattutto irruppero i western d'autore, taluni bizzarrissimi e sperimentali, altri simbolici, impreziositi da richiami politici che evolveranno presto nel tortilla-western ovvero il western incentrato sulla rivoluzione messicana e sullo sfruttamento dei peones. Questi ultimi saranno film che cavalcheranno il periodo delle manifestazioni studentesche del '68 per trattare metaforicamente problematiche contemporanee trasponendole nel lontano far west.

Il biennio '68-'69 segnerà l'apice del genere e il suo inevitabile declino a causa del proliferare di film l'uno fotocopia dell'altro, ma soprattutto a causa dell'affermarsi del poliziottesco, del thriller e dell'horror. Si cercherà di arginare il trend negativo proponendo qualcosa di nuovo con i western comici (i c.d. fagioli westerm), le saghe più o meno apocrife (e spesso scarse) dei vari Django, Sartana, Ringo, Spirito Santo, Provvidenza, giungendo infine alle contaminazioni folli tra il western e il gong fu (cinema sulle arti marziali in netta ascesa grazie all'enorme successo mondiale delle pellicole con Bruce Lee) che daranno vita agli spaghetti kung fu o i western con ambientazioni esotiche (per lo più Brasile e Giappone, addirittura con Get Mean nel Medioevo).
Da qui al western crepuscolare il passo sarà breve, e così si registreranno gli ultimi colpi, peraltro tutt'altro che fiacchi, con pellicole tristi, caratterizzate da scenografie decadenti, avvolte dalla nebbia (anche a causa del declino dei vari studios, sempre più trasandati e quindi da sfumare con escamotage artigianali), dove si rievocherà il western che fu con un'atmosfera agrodolce, cupa. Ormai però si respirerà a pieni polmoni la fine di un genere che aveva fatto la fortuna di molti, un po' come quando si osserva il tramonto del sole in riva al mare col cuore colmo di malinconia per una bella giornata appena evaporata.

Nel 1978 ci sarà addirittura un tentativo della Variety Film, sulla scia dei numeri a sfondo fantastico/paranormale del fumetto Tex, di confezionare un horror puro con zombie, splatter e un'ambientazione western che, purtroppo, non andrà in porto a causa dei dubbi di credibilità del soggetto sollevati dallo sceneggiatore Dardano Sacchetti. Sacchetti suggerirà una piega avventurosa, gettando così le basi per l'horror fulciano Zombi 2 e l'abbandono dell'idea iniziale.
Negli anni '80, a genere morto, si tenterà di riaccendere il sole ormai spento chiamando in causa gli eroi del genere (il famoso Tex dei fumetti della Bonelli e il vero e originale Django) personificati dagli attori simbolo Giuliano Gemma e Franco Nero, ma il tentativo fallirà decretando la definitiva eclissi dello spaghetti-western.

L'importanza del genere resta comunque monumentale. Quentin Tarantino,a ragione, ha detto che “senza gli spaghetti western non esisterebbe una buona parte del cinema italiano e anche Hollywood non sarebbe la stessa.” Il western all'italiana ha infatti insegnato agli americani che i generi sono meri contenitori, nella fattispecie, legati a un'ambientazione storica ben precisa, ma svincolati da tutto il resto. Non è corretto, né intelligente, pensare a una sola tipologia di racconto da inserire in un contesto definito (come invece si erano fossilizzati a fare gli americani prima dell'arrivo degli spaghetti-western). Il cinema non deve esser interpretato come rappresentazione della realtà, bensì quale strumento con elementi artistici con cui raccontare storie finalizzate all'intrattenimento.

Ecco che il western con i film italiani diviene un vero e proprio campo che parte da un'idea iniziale fissa per poi spaziare liberamente.
I registi e gli sceneggiatori italiani cercavano quasi sempre di divertirsi nel realizzare i loro film e così facendo trasmettevano la loro passione al pubblico. Erano focosi, artigianali, giravano spesso senza copioni con grande senso del ritmo, litigando spesso con gli attori e arrivando a comportamenti che visti dall'esterno potrebbero sembrare folli. Cose che i registi americani, più legati alla procedura e più rigidi, non si sarebbero mai sognati di fare. Moltissimi sono gli aneddoti di scazzottate tra registi e attori, liti varie con i produttori e stranezze di ogni sorta che in America mai si sarebbero potute concepire. I prodotti che ne derivavano riflettevano tali atteggiamenti, essendo spesso fuori dagli schemi, eccessivi, spettacolari oltre ogni concezione realistica e alla continua ricerca delle inquadrature d'effetto, traducendo di fatto su pellicola le stigmate proprie di chi fa del c.d. genio e sregolatezza una regola di vita. Pellicole benedette da quello che gli americani definiscono il sense of wonder (il gusto per il meraviglioso) ovvero da una sfumatura fantastica, epica, che richiede inevitabilmente la sospensione dalla realtà da parte dello spettatore. Quest'ultimo deve essere educato alla visione dei film e deve imparare a leggere tra le righe in ciò che vede, così come dovrebbe imparare a fare nella vita di tutti i giorni decriptando i vari comportamenti delle persone. Motivi questi spesso non compresi dai critici con la puzza sotto il naso che arrivano poi a scrivere quelle che io ritengo delle idiozie. Sul Morandini, infatti, capita di leggere che gli spaghetti-western da salvare sarebbero solo una trentina su circa quattrocento prodotti. Per tali ragioni gli americani e i detrattori definivano, molti lo fanno tuttora, questo cinema (ma anche la sci-fi, l'horror, il thriller, il poliziottesco e il macaroni combat) di serie B. Al riguardo mi piace citare il regista Enzo G. Castellari il quale in un'intervista in cui gli veniva chiesto che cosa si volesse indicare con la classificazione “B-MOVIE”, dopo aver detto di non apprezzare la definizione di cinema di genere (che vuol dire cinema di genere? I miei film sono visti e venduti in tutto il mondo, con grande successo di incassi e di pubblico. Se cinema di genere vuol dire il cinema che piace internazionalmente, allora non sono molti i film di genere) disse: B stava per Beautiful! Una risposta che mandò in visibilio sia Quentin Tarantino che Joe Dante, entrambi presenti al fatto.

A Hollywood hanno appreso presto queste lezioni, pur continuando a mantenere un taglio professionale da catena di montaggio piuttosto che artigianale, e, sulla scia del nostro cinema, hanno cominciato a produrre opere ibride anche nel western come dimostrano Lo Straniero senza Nome (1973) di Clint Eastwood, Il Mondo dei Robot (1973) di Michael Crichton, Sfida a White Buffalo (1977) di J. Lee Thompson, Ritorno al Futuro 3 (1990) di Robert Zemeckis, L'Insaziabile (1999) di Antonia Bird, Dal Tramonto all'Alba 3 (2000) di P.J. Pesce e il recentissimo e più bizzarro Cowboys & Aliens (2011) di John Favreau, mischiando quindi il western rispettivamente con la ghost story, la fantascienza, il monster movie sulla scia di Moby Dick inserendo un gigantesco bufalo bianco al posto della balena, il fantasy, l'horror cannibalico, lo splatter erotico con i vampiri e infine l'incontro tra cowboy ed extraterrestri.

Dunque, come si può capire già da questa premessa, lo spaghetti-western non è mai stato un qualcosa di monocorde ma un contenitore, in perenne evoluzione, funzionale a qualunque sorta di sottogenere che deve esser riscoperto dai giovani senza alcun timore di annoiarsi poiché variegato e ricco di soluzioni.

Con questo saggio, strutturato in tre volumi, si tenterà, senza ambizioni di critica tecnica (perché chi scrive è un appassionato di cinema e non un critico), di tracciare un percorso progressivo destinato a guidare il lettore/spettatore in un mondo sterminato. Saranno proposti i film fondamentali e più particolari al fine di promuovere un genere che annovera pellicole tra le migliori mai prodotte in Italia, evitando di abbandonare il potenziale spettatore in un oceano di titoli che lo porterebbero inevitabilmente alla deriva dissuadendolo dalla navigazione.

L'opera mi permette infine di presentare nel dettaglio, seppur sinteticamente, i vari cast tecnici e artistici poiché è bene che il pubblico si abitui a pensare a un film non come il frutto di un singolo individuo, come invece mi capita di sentir dire in giro tra le persone comuni, bensì quale opera collettiva. Confezionare una pellicola è un lavoro di squadra e allora è giusto che tutti abbiano i riconoscimenti che meritano strappando via quel maledetto sipario che nasconde ingenerosamente coloro che operano dietro le quinte. Buona lettura.

Matteo Mancini
Aprile 2012

giovedì 15 marzo 2012

Recensione Storia del Cinema Horror Italiano - Vol.1 IL GOTICO (di Gordiano Lupi)


STORIA DEL CINEMA HORROR ITALIANO - VOL.1 IL GOTICO

Autore: Gordiano Lupi
Anno di uscita: 2011
Casa editrice: Edizioni Il Foglio
Pagine: 226
Prezzo: 15.00

Commento di Matteo Mancini


Primo volume di un'opera divulgativa, strutturata in ben sei volumi, dedicata al cinema horror italiano.

L'autore, Gordiano Lupi, è un grande appassionato di cinema di genere e ha scritto volumi su volumi, anche per le Edizioni Profondo Rosso, spaziando dall'horror, alla commedia scollacciata, ma anche varie monografie su registi (Castellari, D'Amato, Di Leo, Tinto Brass, Fulci) e attori (Gloria Guida, Tomas Milian). Attivo anche come traduttore di romanzi cubani (altra sua grande passione) per un importante editore come Rizzoli, Lupi si è distinto soprattutto nella veste di scrittore di storie fantastiche spesso ambientate ai caraibi e funzionali a esporre le problematiche sociali e politiche dei popoli indigeni, ma anche in saggi di varia natura. Dunque un autore piuttosto versatile e prolifico.

Nell'occasione affronta una delle sue passioni e lo fa dedicando ciascun volume di questo suo impegnativo progetto a un sottogenere ben definito sviluppando poi i singoli libri presentando regista su regista con la serie cronologica dei film dagli stessi diretti.

In questo primo volume vengono analizzate nel dettaglio le opere gotiche dei grandi Riccardo Freda, Mario Bava, Giorgio Ferroni e Antonio Margheriti, con pillole poi riservate a tutti gli altri registi. Relativamente a questi ultimi, viene dedicata qualche pagina in più a Ubaldo Ragona, a Piero Vivarelli, a Renato Polselli, a Massimo Pupillo e al Toby Dammit di Federico Fellini.

La trattazione seppur assai sintetica (a esempio si da per scontato che il lettore conosca gli attori del genere, visto che si dice poco o nulla su di loro) mi è parsa completa e sicuramente utile per scoprire pellicole semisconosciute, infatti ho fatto qualche piccola scoperta che dunque ha reso più che utile la lettura.

Il taglio scelto dall'autore è più attento all'analisi dei vari film piuttosto che a focalizzarsi sugli aneddoti comunque presenti in qua e in là. Lupi scende spesso ad analizzare la trama del film e gli sviluppi della sceneggiatura, fino ai dettagli macabri. A parte le pellicole più famose non sempre si spinge a giudicare i film e questo non è un bene, perché, a mio avviso, in opere del genere - nei limiti del possibile - è bene subito segnalare a colpo d'occhio al lettore non esperto quali siano le prime opere da recuperare in modo da potersi orientare meglio in un "mondo" a lui ignoto.
Non mancano i paralleli con le opinioni di altri autori, su tutti Salvagnini, Mereghetti, Antonio Tentori, Antonio Bruschini e Marco Giusti. Questo è invece una nota positiva, perché rende più diluita e quindi più verosimile l'analisi di un film.

Completano il volume delle gustosissime e articolate interviste ai vari Dardano Sacchetti, Ernesto Gastaldi e Antonio Tentori curate da Emanuele Mattana e dallo staff del sito sognihorror.com (all'epoca partecipai anche io nel formulare alcune di queste domande).

Come pecca ho notato alcune incomprensibili ripetizioni in particolare gli inutili (a mio avviso) capitoli relativi a Il Dio Serpente di Vivarelli e a La Bestia Uccide a Sangue Freddo di Freda che vengono inseriti a tre quarti del libro quando i film erano già stati affrontati nel dettaglio nel corso dell'opera. Peraltro il testo è pressoché lo stesso sia nella scheda di dettaglio sia nella parte discorsiva. Sembra quasi siano sfuggite all'editing, ma questa è un'impressione che non può esser certo avallata vista la cura e l'esperienza dell'autore.

Nel complesso niente male, anche se qualche aneddoto in più su alcuni film non avrebbe guastato, così come un'analisi più approfondita su certi attori simbolo del genere, Barbara Steele su tutti, ma anche Rosalba Neri e via dicendo, avrebbe conferito maggior lustro al volume. A ogni buon conto un testo utile per i neofiti, ma non solo, specie questo primo volume che fa un po' di luce su una parte dell'horror italiano poco conosciuta anche dagli amanti del genere. Vale l'acquisto.

PS: Per chi voglia approfondire sulla materia consiglio la visione di questo filmato curato dall'amico e (mio) ispiratore Pier Paolo Dainelli in cui partecipa anche il critico, recentemente scomparso, Antonio Bruschini (tutti i film citati sono trattati dal libro di Lupi): http://www.youtube.com/watch?v=U_5Oow-U2o4&feature=youtu.be

martedì 13 marzo 2012

Recensione cortometraggio DIESIS di Simone Chiesa & Roberto Albanesi



Produzione: New old story film di Casalpusterlengo, 2012

Regia: Simone Chiesa & Roberto Albanesi.

Genere: Thriller psicologico.

Soggetto: tratto dal racconto “Scatti Senza Anima” di Luca Zibra.

Sceneggiatura: Luca Zibra, Davide Cazzulani e Beatrice Portarena.

Fotografia: Davide Cazzulani.

Colonna sonora: Andrea Fedeli & Armando Marchetti.

Interpreti Principali: Giorgio Melazzi (Voce Narrante), Matteo Ghisalberti, Raffaella Zappalà.

Durata: 8 minuti circa.

Commento di Matteo Mancini


Secondo prodotto della New Old Story Film di Casalpusterlengo che dopo il corto di debutto Happy Birthday del 2011 cambia drasticamente registro e stile.
La coppia Chiesa-Albanesi abbandona il corto d'azione e la regia alla Blair Witch Project che ne aveva caratterizzato il debutto (anche perché legata al soggetto incentrato sugli snuff movie) a vantaggio di un qualcosa di più artistico e personale.

Il corto ruota attorno al lento e inesorabile trascorrere del tempo, rappresentato come l'unica giustizia, insieme alla morte, di veramente equa e imparziale al mondo. Il protagonista ne è tanto ossessionato dall'aver trovato nella fotografia l'unica via per imbrigliare l'inevitabile fuga della vita. Così non fa altro che scattare foto l'una dietro l'altra con la mitica Reflex.

In tutto il corto spira un po' quell'aria che avvolgeva l'epilogo di American Beauty, quando Kevin Spacey effettuava tutti i suoi ragionamenti sulla vita. A differenza del capolavoro statunitense, però, nel corto c'è una componente macabra che resta tuttavia accennata e comunicata allo spettatore con la massima delicatezza.

Interessante, al riguardo, l'ottimo gioco di luci orchestrato da Davide Cazzulani che opta per due tonalità che si alternano nel corso del corto. Una fotografia di stampo freddo con predominanza dei colori blu e azzurro a commentare visivamente le scene ambientate nel presente (e dunque soggette a evolversi per il fluire del tempo) e una calda e di ottimo impatto visivo nelle scene che simboleggiano il passato e che sono rappresentata con una tonalità arancione e gialla. Ne esce un tocco malinconico, peraltro esaltato dall'eccezionale voce narrante di Giorgio Melazzi che accompagna le immagini con un timbro vocale che ricorda niente meno che Giancarlo Giannini. La cosa non deve sorprendere né sembrare più di tanto azzardata, vista la grande esperienza maturata da Melazzi in veste di doppiatore di videogiochi, film, spot pubblicati e cartoni animati.
Funzionali, non poteva esser altrimenti visto che stiamo parlando di una voce narrante, i monologhi scritti a sei mani da Davide Cazzulani, Beatrice Portarena e Luca Zibra che sviluppano un soggetto di quest'ultimo estrapolato dal racconto Scatti senza Anima.

Regia dal taglio classico, piuttosto che di genere (come invece era quella di Happy Birthday), che punta moltissimo sulla componente visiva. Particolarmente bella la parte finale dove vediamo l'attrice Raffaella Zappalà muoversi con leggerezza in un contesto che sembra estrapolato da una vecchia polaroid scolorita degli anni '70. Di grande effetto l'ultima inquadratura, con la Zappalà che si allontana verso un orizzonte sfuocato e indefinito. Davvero un grande tocco di regia e di fotografia, il punto più alto del corto.

A voler trovare dei nei indicherei una sceneggiatura un po' troppo evanescente, anche se ben scritta nei monologhi, che forse non chiude bene il cerchio iniziato con l'ottimo prologo in cui si rappresenta giustamente il tempo come un Dio equo che non distingue tra ricchi e poveri. Nel corto poi si parla di un omicidio che non assume una valenza metaforica di pronta soluzione e che, invece, gli autori probabilmente puntavano a trasmettere al pubblico.
Nessuna battuta per gli attori che mettono solo il loro corpo al servizio dei registi, trovata che senz'altro li libera da eventuali difficoltà recitative.

Ne deriva un prodotto che rischia di esser considerato più come un esercizio di stile (ottimo e sicuramente nettamente superiore a Happy Birthday) piuttosto che un qualcosa di veramente completo. In ogni caso tecnicamente molto curato e interessante. Un plauso soprattutto a Giorgio Melazzi (meglio di così non poteva fare), ai direttori della fotografia e anche agli addetti alla colonna sonora che regalano un sound dolce e rilassante.

Dunque un corto nostalgico per contenuti e messa in scena che lascia presagire ulteriori miglioramenti per la coppia Simone Chiesa e Roberto Albanesi in netta ascesa rispetto al debutto. Si attendono i due per prodotti dalle trame più complesse, magari con Roberto Albanesi in veste di protagonsita vista l'ottima prova dello stesso in veste di protagonista di Happy Birthday.

lunedì 27 febbraio 2012

Considerazioni personali sulle dichiarazioni di Buffon dopo Milan vs Juventus del 25.02.12



Breve descrizione del fatto: un giocatore del Milan devia di testa verso la porta della Juventus un pallone. Buffon si lancia alla disperata verso la sfera e la schiaffeggia fuori dalla porta quando la stessa ha già varcato abbondantemente la linea di porta. L'arbitro inizialmente concede la rete, ma il segnalinee lo convince che la palla non ha superato integralmente la linea di porta e così non convalida la rete che, di fatto, può definirsi fantasma.


Dichiarazioni Buffon: "Non mi sono accorto se la palla fosse entrata o meno, ma qualora me ne fossi accorto non lo avrei di certo detto all'arbitro".

IL Giorno dopo: "Confermo quanto detto, perché non vorrei trovarmi in una situazione del genere in una finale mondiale. Non avrei mai la forza di dire all'arbitro che la palla è entrata"

Reazione dei media STUPORE GENERALE DELLA CLASSE ARBITRARIA E DEI GIORNALISTI...

Da queste affermazioni mi vengono da fare tre considerazioni, dico subito che non sono parte in causa (perché da anni mi sono discostato abbastanza dal calcio e guardo solo le partite di Zeman perchè lo stimo come persona e soprattutto perché mi diverte).
Premtto inoltre, per l'ennesima volta, che per me lo sport non è banalmente uno svago o un gioco, ma una metafora di vita.

Prima considereazione: Buffon NON è UN CAMPIONE, visto che di fatto teorizza e giustifica il furto, l'imbroglio e la truffa come via per vincere e ottenere risultati. Condivisibile o meno, però gli riconosco il pregio (non di poco conto al mondo di oggi) di non essere un'ipocrita e ha le "palle" per dire veramente quello che pensa quindi lo reputo, nella circostanza, un uomo. Sottolineo però ancora una volta che non è un CAMPIONE (sono pochissimi i veri campioni che sconfinano al ruolo di maestri di vita).

Seconda considerazione: I giornalisti e la classe arbitraria sono lo specchio della società attuale: SONO degli IPOCRITI quaquaraquà (come li chiamava Sciascia), perché volevano sentirsi dire una cosa che sanno benissimo che Buffon non pensava e poi si meravigliano come se avessero sentito un qualcosa di inimmaginabile. Inqualificabili.

Terza considerazione: I tifosi che inneggiano a certi personaggi come Buffon, ma si potrebbe dire di molti altri, sono lo specchio del popolo e meritano i politici che ci governano, poiché sono i primi a inneggiare e ad avere come "eroi" dei personaggi che giustificano il furto, la truffa e l'imbroglio finalizzati a conseguire dei vantaggi eticamente ingiusti.

Conclusione: MEDITATE SU QUANTO SOPRA DETTO OGNI VOLTA IN CUI VI VIENE DA PENSARE MALE SUI POLITICI O SUI VOSTRI SUPERIORI O SULLE CENTINAIA DI IRREGOLARITà CHE VI PENALIZZANO NELLA VITA E POI TIRATEVI UNA MARTELLATA DA SOLI NEI COSì DETTI...

Il tutto firmato Matteo Mancini.

martedì 14 febbraio 2012

I Dieci comandamenti del Mancho

I DIECI COMANDAMENTI DEL MANCHO

Dopo aver pubblicato un po' di miei aforismi, metto qui di seguito, anche per pubblicare un post nuovo, i dodici comandamenti pubblicati sulla mia tavola della legge.

1. NON ESSERE MAI LA SECONDA SCELTA DI NESSUNO;

2. La tua vita è come un quadro da disegnare, tu sei il pittore e lei deve essere la tua più grande opera d'arte;

3. Sii te stesso in tutto quello che fai e nelle modalità con cui lo esegui. Il resto è ininfluente, a partire dagli eventuali corrispettivi che ti vengono proposti poiché la libertà è il primo bene cui devi tendere;

4. Non seguire i cammini prestabiliti, ma creali di nuovi: un vincitore, alla fine della corsa, non segue mai gli altri;

5. Sii come un saggio che rispetta in tutto e per tutto gli altri, ma se ti pestano al ruolo di vipera devi tendere.

6. Ti ritieni forse un oggetto? Allora non avere mai un prezzo attraverso il quale gli altri possano comprarti;

7. Sii imprevedibile sempre e comunque, leggero e privo di forma come l'acqua che si adatta a qualunque corpo che possa incontrare nel suo lento e costante fluire. Solo così conquisterai l'indipendenza e la capacità di affrontare ogni situazione senza dare mai punti di riferimento.

8. Non temere mai i limiti. Essi sono solo il conto di una cena maestosa. Se sei una buona forchetta, sappili affrontare facendo del rischio un gradito commensale della tua mensa;

9. Sii felice quando sbaglierai perché il motore della tua vita deve essere il costante miglioramento e solo chi ha sbagliato potrà poi dire di esser migliorato;

10. Non farti mai possedere dalle cose che possiedi o dalle consuetudini, perché esse sono rigide, statiche, fredde, mentre tu sei e sarai sempre superiore perché flessibile, adattabile a ogni contesto e caldo in quanto essere vivente.

11. Ricerca il divertimento in tutto ciò che fai, anteponendo la sostanza alla forma, la felicità al denaro, il tuo modo di essere alla consuetudine;

12. Saper leggere non significa limitarsi a individuare le singole parole, ma coniugarle in frasi di senso compiuto. Dunque, se vuoi essere un grande lettore, impara a tradurre ciò che vedi e a leggere oltre il significato apparente della superficie.

Il tutto firmato Matteo Mancini.

sabato 14 gennaio 2012

Recensione Cinematografica: Alien 2 sulla Terra (1979) di Ciro Ippolito


ALIEN 2 SULLA TERRA


Produzione: Ciro Ippolito, 1979
Regia: Ciro Ippolito
Genere: Sci-fi/Horror
Soggetto e Sceneggiatura: Ciro Ippolito
Interpreti Principali: Belinda Mayne, Mark Robin, Michele Soavi.
Durata: 92 minuti

Commento di Matteo Mancini


Piccolo sci-fi con forti contaminazioni splatter/horror nato sulla scia di Zombi 2 di Fulci, da cui mutua la furbesca idea di sfruttare il titolo di un grosso successo commerciale hollywodiano per spacciarsi come apocrifo sequel. Nella fattispecie il film saccheggiato è Alien (1979) di Ridley Scott.

Inutile dire che il film ebbe grossi problemi di distribuzione con la 20th Century Fox che fece di tutto per boicottarlo (propose anche di acquistarne i diritti per poterlo distruggere), fino a intavolare, con scarso succeso, lunghe cause giudiziali in ogni parte del mondo. I distributori americani riuscirono però nell'intento di non far uscire il film negli Stati Uniti, tanto che solo nel corso del 2011 il film pare essere arrivato nel nuovo continente.

Sorte simile l'avranno anche i vari L'Ultimo Squalo, La Casa 3, Terminator 2, film tutti qualitativamente non trascendentali e diretti rispettivamente da Enzo G. Castellari, Umberto Lenzi e Bruno Mattei.

Il soggetto nasce da un'idea di Ciro Ippolito, regista a digiuno di pellicole di genere e proveniente dal mondo delle sceneggiate napoletane, che convince i distributori di Zombi 2 a finanziare il progetto. Tuttavia, l'allontanamento dello sceneggiatore Biagio Proietti (che avrebbe anche dovuto girare il film) e la rinuncia di Mario Bava ad assumerne la regia, costringono Ippolito a scrivere e dirigere il film per conto proprio con inevitabili conseguenze negative sul risultato finale.

Difatti ne esce fuori un filmettino con delle buche di sceneggiatura grandi come voragini, tanto da dare l'idea di essere stato costruito, più che su una sceneggiatura, su un soggetto con annotati a margine i dialoghi da inserire nell'ipotetica sceneggiatura che si sarebbe dovuto stendere in seguito. Poco si sa della creatura aliena (che riesce a stare in incubazione anche all'interno di una pietra che assume funzione di uovo) come non si comprende il motivo per il quale siano scomparsi prima gli astronauti di ritorno da una missione spaziale e poi l'intera popolazione di una città (mentre invece gli speleologi uccisi vengono mutilati ma restano comunque presenti), per non parlare delle tante sequenze prive di dialoghi ed eccessivamente dialate per raggiungere la lunghezza minima garantita per un lungometraggio. Rimane inoltre posticcia e fracassona la caratterizzazione della protagonista dotata di poteri paranormali e telepatici che le permettono, solo in alcuni ingiustificati frangenti, di comunicare a distanza con i colleghi e di vedere in azione il mostro.

Quanto detto però non deve far pensare di trovarsi al cospetto di una pellicola eccessivamente scadente. E' fuori di dubbio che registi come Bruno Mattei o Claudio Fragasso, per intenderci, faranno assai di peggio. Ippolito infatti riesce a girare bene, con delle lunghe carrellate, i momenti di massima tensione e sfrutta al massimo possibile gli artigianali ma efficaci trucchi speciali (realizzati, su suggerimento di Bava, con della trippa). Così si hanno delle scene cult ottimamente realizzate come una testa di uno speleologo che viene tranciata da un "alien cucciolo" e rotola a terra (è la testa che potete ammirare nella locandina che ho allegato in alto) o un'altra che scoppia sotto la spinta di tentacoli alieni che emergono dal tronco della vittima. Particolarmente efficace tutta la parte finale in cui i due superstiti fuoriescono dalle grotte e si imbattono in una città deserta. Nell'occasione Ippolito risolve i limiti di budget ricorrendo alla soggettiva del mostro da effettuare ponendo dei pezzi di trippa sull'obiettivo e facendoli muovere simulando il respiro della bestia.

Meno convincente è la fotografia di Silvio Fraschetti che si rivela non all'altezza delle situazione e incapace di illuminare a dovere i vari soggetti.

Il cast artistico è poverissimo e semi-sconosciuto, si riconosce un giovanissimo Michele Soavi, ma viene sfruttato a dovere da Ippolito tanto da non sfigurare più del lecito.

Continua e pressante la colonna sonora, tutta strumentale, degli Oliver Onions, con i fratelli romani che paiono fare il verso alle musiche di Zombi dando vita a un angoscioso tema nei momenti di maggior tensione.

In conclusione un filmettino senza pretese che punta tutto sulle location claustrofobiche delle grotte di Castellana in Puglia(non a caso Neil Marshall dimostrerà la validità di simili luoghi nel suo The Descent) e sugli artigianali ma truculenti effetti splatter. Su questi ultimi c'è un gustoso aneddoto. Pare che gli effetti siano stati realizzati in uno scantinato di un palazzo e che, a causa del cattivo stato di conservazione della trippa, dei vicini, insospettiti dal cattivo odore che aleggiava per le scale, avvisarono le forze dell'ordine. La polizia, giunta sul luogo, decise di attuare un fermo di indiziato di delitto a carico dei vari componenti della troupe, perché gli agenti si erano convinti che fossero colpevoli in concorso del reato di occultamente di cadavere. Bizzarrie che potevano succedere solo nel cinema Italiano del tempo che fu...
Il film ebbe un discreto, ma non eccezionale, successo internazionale, mentre in Italia riuscì a coprire appena la metà dei costi di produzione che si aggiravano su 300 milioni.
Voto complessivo: 5.5

martedì 10 gennaio 2012

Recensione Narrativa Eros & Thanatos - Nel cuore nero delle donne (AA.VV. Supergiallo Mondadori)



EROS & THANATOS - Nel cuore nero delle donne

Autore: AA. VV.
Anno di uscita: 2010
Casa editrice: Mondadori
Pagine: 418
Prezzo: 6,50 euro

Commento di Matteo Mancini


Dopo la piacevole sorpresa nell'aver letto il Supergiallo Mondadori “Sul filo del rasoio”, antologia tutta italiana dedicata al giallo con ambientazione fantascientifica (che merita di esser riproposta in edizione da libreria), ho recuperato altri quattro Supergialli di matrice nostrana e tra questi c'è anche “Eros & Thanatos” a cura di Lia Volpatti.Si tratta di un'antologia che raccoglie ben ventisette racconti di altrettanti autrici rigorosamente di sesso femminile e dislocati in ordine alfabetico avendo come riferimento il cognome dell'autore stesso.
L'opera è infarcita di racconti che non brillano per originalità, il più delle volte con caratterizzazioni simili. Dispiace dare un giudizio piuttosto negativo a un'antologia interamente italiana, forse influenzato anche dall'ottima impressione della già citata antologia "Sul filo del rasoio" curata da De Turris, ma nell'occasione si assiste a un progetto, a mio avviso, non riuscito pienamente.

Lia Volpatti ha il merito di dare spazio a racconti coraggiosi (per situazioni, piuttosto che per idee) che difficilmente potrebbero leggersi in libri pubblicati da grandi case editrici. Le autrici infatti non si fanno problemi di sorta, abbondando con sangue e situazioni estreme fino a spingersi al limite del porno (talvolta si supera anche il confine).
I meriti, tuttavia, finiscono qui. Si respira un'aria da prodotto semi-professionale, non tanto per lo stile o la cura dei testi (sicuramente all'altezza della situazione) piuttosto per i contenuti. I racconti, alla lunga, si rivelano troppi (ben ventisette) e di qualità non sempre eccelsa. Per fare un esempio, se ne “Sul filo del rasoio” i testi meno qualitativi erano comunque brillanti e proponevano scenari di impatto con trame più o meno elaborate, qua ci sono storie lette decine e decine di volte scritte quasi senza anima.
Credo che un taglio di circa dieci racconti, tra quelli meno riusciti (e ricorrenti), avrebbe risollevato l'esito dell'antologia poiché un giudizio complessivo non può che essere determinato dalla media dei racconti proposti.

I lampi di genio sono pochissimi, direi solo uno e cioè “Come petali di crisantemo” di Sasha Rosel, una delle autrici probabilmente meno note dell'antologia. In esso assistiamo ai tormenti di un uomo costretto a cedere alle richieste dei medici e a concedere la propria autorizzazione per cessare le cure cui è sottoposta la propria donna ormai in coma da un lungo periodo. La donna va così incontro alla morte, ma un giorno, come in una classica ghost story, riappare nella camera del fidanzato, avvolta da una luce accecante.
Descritta così potrebbe sembrare una rivisitazione di quei temi che hanno fatto forti scrittore del calibro di Poe, Benson e LeFanu, tuttavia la Rosel personalizza il testo tratteggiandolo quasi come se stesse dipingendo una tela con tinta e pennello. “Come petali di crisantemo”, a mio avviso, è la perla dell'antologia nettamente superiore a tutti gli altri racconti. Onirica e metaforica, è impreziosita da uno stile ricercato che traduce la storia in una poetica commutata in prosa. Interessanti le caratterizzazioni dei due personaggi che, di fatto, mutano il loro atteggiamento dopo la morte della ragazza. L'uomo, da distaccato, diviene attaccato morbosamente al suo perduto amore, la donna invece, da creatura totalmente votata al benessere del suo amato, diventa egoista al punto da decidere del destino dell'altro senza che vi sia alcun motivo cogente. Eccezionali le descrizioni ambientali, con la Rosel in versione “pittrice con la penna”. Davvero una grande prova narrativa che stimola la fantasia di chi legge e regala qualche punta di commozione. Infine si segnala un grande gusto e grande tatto nel descrivere le scene erotiche, senza mai scadere in luoghi comuni o volgarità. Tanto di cappello e nome da scrivere sul taccuino in vista di nuove uscite.

Se il racconto sopra analizzato è la perla dell'opera per la sua forte impronta personale e per il gusto dell'onirico, ci sono almeno un altro paio di racconti curiosi che tentano di proporre qualcosa di bizzarro rispetto a quanto messo sul piatto dalle altre storie. Tra questi brilla, per il soggetto (meno per il suo sviluppo), “Burnout” di Elvira Seminara (altra autrice poco conosciuta seppure già pubblicata da Mondadori). Al centro della storia c'è una pessimista riflessione della protagonista, una donna sopravvissuta a un tentato suicidio e convintasi per questo di esser stata eletta da Dio per aiutare persone con il suo stesso problema. Il racconto parte in un modo poco narrativo per poi svilupparsi in un vero e proprio racconto con la “nostra” che organizza una serie di incontri per aspiranti suicidi con l'intento di aiutarli (alla fine si scoprirà in che cosa) coccolandoli e assecondando le loro passioni (fino a giungere a fare all'amore con alcuni di loro). Così detto potrebbe sembrare un racconto semplice e invece il soggetto è decisamente bizzarro, anche per la piega fantastica (appena abbozzata) che prende il finale dove fanno la comparsa alcuni fantasmi sotto forma di uomini. La Seminara parte lentamente e anche piuttosto noiosamente, con una serie di riflessioni sulla piattezza della vita e sul desiderio, più o meno inconscio, della maggior parte delle persone di suicidarsi, per poi risollevarsi con un inaspettato colpo di coda. Infatti si ha la sensazione che la protagonista abbia deciso di aiutare le persone con intenti suicidi a superare la loro depressione, in realtà però il suo concetto di “superamento della depressione” è un tantino diverso da quello che sarebbe lecito attendersi. Ne deriva un'aura decisamente sinistra e maledetta che lascerà il testo scolpito nella memoria del lettore, sebbene il soggetto non preveda grande azione o atmosfere particolari.

Meno originale, ma comunque non inflazionato è il soggetto che porta al debutto una figlia illustrissima ovvero Cecilia Scerbanenco (un cognome che non necessita presentazioni, basta spulciare la storia del noir all'italiana anni '60 e '70). Con il suo “Towton 16” la Scerbanenco traccia una storia sospesa tra il giallo, lo storico e l'heroic fantasy.
Abbiamo un'appassionata di storia medievale che viene ingaggiata da una scrittrice per recuperare del materiale sulla guerra delle due rose. Più in particolare, la studiosa effettua una serie di ricerche sulla relazione stesa da alcuni scienziati su alcuni scheletri dei cavalieri caduti nella battaglia di Towton. L'analisi avvolge la donna al punto da corromperle i sogni per poi proiettarglieli (non si capisce bene come) nella realtà. Così inizia a ricevere visita da uno di questi cavalieri con cui intreccerà una relazione sentimentale e un accordo particolare: assassinare a colpi di ascia i medici che, per negligenza, le hanno fatto morire la madre. Intanto tra un sogno e l'altro, la polizia deve fare conti con misteriosi e truculenti omicidi, fino alla mattanza finale (in stile “Terminator” nell'indimenticabile sequenza all'interno del comando di polizia) all'interno di un ospedale.
Dunque una trama elaborata, probabilmente la più elaborata e fantasiosa dell'antologia. Non tutto è chiaro, come a esempio l'elemento che porta il cavaliere dai sogni alla realtà. Ne esce fuori una storia con una sfumatura più fantastico/orrorifica che gialla. Presente l'erotismo, anche se marginale, ottima la parte ambientata in Inghilterra raccontata dalla Scerbanenco con gusto da heroic fantasy.

Sensuali e irresistibili femme fatale in azione nei racconti del premio Tedeschi 1995 Diana Lama (“Una vita spericolata”) e della specialista di horror Alda Teodorani (“La vie en rouge”).
Le due storie sono molto simili e propongono donne sexy che vanno a caccia notturna di uomini adescandoli in pub e discoteche di infimo gusto. Entrambi i racconti sono molto crudi con mutilazioni e atti aberranti intrisi di sesso e sangue.
Nel primo racconto la femme fatale sceglie uomini con tatuaggi per poterglieli recidere durante l'amplesso; nel testo della Teodorani, invece, si ha a che fare con una vampira dei tempi moderni in una visione in cui il mito diviene triste realtà e in cui traspare un messaggio quasi simbolico e metaforico (la donna super sexy prosciuga le vittime succhiando via tutto il sangue e divorando i cuori).
Comune a entrambe le storie è l'alto tasso di erotismo ben reso dallo stile delle due scrittrici, così come le caratterizzazioni deviate delle protagoniste. La differenza fondamentale tra le due sta nel fatto che mentre la serial killer della Teodorani è una sorta di donna puma che va in giro a bordo di una Ferrari Testa Rossa e sceglie per i suoi giochi mortali ragazzini e personaggi quasi indifesi, la killer della Lama sceglie manigoldi forzuti perché, per sue ragioni psicologiche, si trova costretta a ricreare situazioni di pericolo pur di provare emozioni che altrimenti sarebbe incapace di raggiungere. Da qui si evince anche il titolo del racconto. Eloquente al riguardo il commento che la protagonista fa di sé stessa: “Sto camminando sul filo di un rasoio affilato e un giorno ci rimetterò sicuramente la pelle... Ma per ora mi diverto e continuerò così fino alla fine”

Ancora assassine seriali sugli scudi in “Duel” di Maria Gabriella Genisi, la quale propone con brio e gusto di intrattenimento una sorta di incontro/scontro serial killer vs femme fatale. Da una parte un uomo feticista che colleziona le scarpe delle vittime, dall'altra una donna dell'Est Europa che vive di assassinii su commissione e che tiene sulla sua Porsche un contenitore con dentro una testa mozzata. I due si incontrano casualmente per via di un incidente stradale e da subito capiscono reciprocamente di avere a che fare con un assassino, ma ciò li spinge a sfidarsi e l'incontro non potrà che avere effetti letali per entrambi. Dunque un testo dal soggetto non originalissimo, ma sviluppato con bravura e grande senso del ritmo. Inaspettato il colpo di scena finale.

Altri tre racconti, per motivi diversi, si rivelano “gustosi” e ben orchestrati anche se non originali. Su tutti segnalerei “Progetti per il futuro” di Maria Teresa Casella, la quale elabora un intreccio che sono sicuro si rivelerà assai disturbante per il pubblico femminile al punto da poter esser considerato tra i migliori tre testi dell'antologia. Al centro della storia abbiamo una donna chirurgo al settimo mese di gravidanza schifata dal suo passato di violenze sessuali e dai rapporti promiscui che la stessa ha avuto con molteplici uomini. I ricordi portano la donna a essere ossessionata che la sua stessa vita possa ripetersi per la bambina che porta in grembo. Così hanno inizio una serie di visioni e di paure che la Casella traduce in un'opprimente sensazione di claustrofobia che avvolge irrimediabilmente chi legge, fino a un finale folle che si rivela una vera e propria pugnalata nella schiena dei lettori. Per dare un breve indizio a chi legge la recensione posso dire che la massima della storia è: “meglio una morte rapida e innocente che una vita vuota di affetti”.

Pulp puro invece per la giovanissima Lidia Parazzoli (ventunenne al momento dell'uscita dell'antologia) che riesce a distinguersi, in mezzo a un corposo gruppo di colleghe ben più esperte, con una storia decisamente malata in cui abbiamo due personaggi dalla doppia personalità. Da una parte un poliziotto della squadra omicidi che passa il suo tempo libero in un night a bere alcol e ad assumere sostanze allucinogene; dall'altro un'escort molto particolare che non è in pace con sé stessa per un motivo che sarà svelato alla fine del racconto.
Il testo si distingue soprattutto per l'abilità della sua autrice nel tratteggiare una Milano piovosa e dai contorni malsani. Ottimi alcuni passaggi in cui gioca con i nomi facendo dei parallelismi calzanti (penso al nome della escort, June, riconnesso al mese di giugno e all'estate che funge da contro-altare al piovoso e freddo inverno in cui è ambientata la storia). Niente male il finale in salsa gore, con una strizzatina d'occhio al famoso caso de "il Dottor Jekyll e Mister Hide" che fa di “June” uno dei migliori testi del lotto.

Ottimo invece l'intreccio del racconto di Simonetta Santamaria che, con il suo “L'amante”, da vita a uno dei racconti più strutturati e diabolici dell'antologia. Protagonista è una moglie che sospetta di esser tradita dal marito e pensa così di orchestrare una vendetta particolare: sedurre l'amante del consorte fingendosi una studentessa di inglese (la concorrente infatti da ripetizione di lingue), in modo da farsi amica della stessa e al contempo simulare la presenza di un corteggiatore segreto che invia fiori alla rivale. Alla fine farà fissare un appuntamento tra l'ammiratore segreto e la rivale presentandosi però lei stessa all'appuntamento e intrattenendo un rapporto sessuale con la donna al fine di svalutarla agli occhi del marito.Di sicuro uno dei testi più interessanti dell'antologia con un soggetto di mero intrattenimento ma comunque solido e gestito con mestiere. Peccato per l'epilogo che non brilla per originalità con una soluzione finale iper-inflazionata all'interno della stessa antologia e che non viene salvata dal richiamo machiavelliano de “il fine giustifica i mezzi”.

Tra gli altri racconti beneficiano di ottimi momenti, pur non essendo a mio avviso stati gestiti bene, le opere della dark lady italiana per eccellenza Barbara Baraldi e della prolifica Nicoletta Vallorani.
La Baraldi con il suo “La morte dell'innocenza” offre apici di erotismo (soprattutto voyeurista) messi in scena con grande talento (probabilmente i migliori dell'intera antologia), ma costruisce un intreccio a tratti poco fluido e macchinoso in cui si inseriscono troppi personaggi per un elaborato di narrativa breve. Il fulcro della storia ruota attorno alla falsità delle amicizie e all'ipocrisia bigotta che alberga dentro a molte persone dai comportamenti benpensanti. Abbiamo difatti un'agente immobiliare disinibita corteggiata dal marito di una collega apparentemente seriosa e dispendiosa di saggi consigli. L'uomo è un pittore che ritrae ninfe e per questo cerca di convincere in tutti i modi l'amica della moglie a posare per lui. La giovane però rifiuta le avance perché teme di tradire la fiducia dell'amica collega, finché un giorno scopre che quest'ultima le ha rubato un importante cliente, un vecchio decrepito, vendendo il proprio corpo allo stesso in cambio dell'affare. Così la giovane decide di accettare la proposta, non sapendo però di avere a che fare con un serial killer. Dunque un soggetto piuttosto originale che si distingue nell'antologia per la sua qualità e per le pennellate ora erotiche ora visionarie della sua autrice, ma che viene appesantito dalla sensazione che via sia “troppa carne sul fuoco”.

Meno qualitativo e più classico è il giallo (uno dei pochi, in verità) della Vallorani e del suo poliziotto alle prese con un atroce duplice omicidio: una prostituta viene trovata smembrata e disossata, mentre un uomo, a circa sette chilometri di distanza, viene trovato sgozzato in un veicolo al cui interno vengono rinvenute tracce del sangue della donna. Il soggetto, anche se privo della componente erotica, si sviluppa in modo ordinato e convincente, con momenti gore esaltati da descrizioni macabre e precise. Bene anche la caratterizzazione del poliziotto (con una psicologia ed esperienze di vita tipiche dei detective privati della narrativa americana). Peccato per l'epilogo assolutamente non all'altezza delle aspettative, penalizzato dall'ingiustificato richiamo posticcio agli snuff movie.

Se l'antologia si fosse limitata a questi racconti probabilmente sarebbe emerso un libro non certo originale ma nel complesso più che sufficiente, invece si è deciso di inserire altri sedici racconti che, per un motivo o un altro, si rivelano ad avviso di questo recensore poco riusciti. Penso che sia inutile soffermarsi minuziosamente su ognuno di essi, ma credo che sia altrettando doveroso spendere qualche parola.

Per la cura e le indubbie capacità narrative devono esser segnalati i due racconti storici “Il medaglione” di Valeria Montaldi e “Il cavaliere, la morte e il diavolo” di Ben Pastor. Entrambi i racconti (che si concentrano sull'omicidio di una suora all'interno di un convento) sono caratterizzati da uno stile maturo e da caratterizzazioni particolareggiate. Più nel dettaglio, il testo della Pastor (probabilmente l'autrice più titolata dell'antologia) si rivela ricercatissimo specie nei dialoghi e nella descrizione delle location (siamo in una Milano medievale flagellata da un imminente peste). Entrambe le storie però, specie quella della Montaldi (che si rivela essere un dramma di una ragazza costretta a prendere i voti da una madre egoista), soffrono la mancanza di “pepe” e di soggetti che sappiano davvero coinvolgere chi legge.
L'erotismo è latente in ambo le storie e gli intrecci, dopo le prime battute, tendono a essere telefonati. Belli nella storia della Pastor i (pochi) riferimenti alla magia che raggiungono il loro culmine in un ricordo del protagonista che rammenta una volpe attaccata alla mammella di una ragazza sorridente.

Degni di un breve cenno anche “Se un teatro di notte” di Daniela Piegai e “Macumba per principianti” di Cristiana Astori. La Piegai porta in scena in modo poetico ed erotico (ben reso quest'ultimo aspetto) l'immagine tradizionale della morte munita di falce e personificata da una vecchia attrice di teatro, dando così vita a una storia sì elegante ma per niente originale.
La Astori, invece, tenta di confezionare una storia originale mischiando giallo e horror (si parla in modo banale di macumba come rimedio per eliminare una moglie e assumerne tutte le proprietà), finendo però per cadere in una serie di superficialità grossolane e imperdonabili per una professionista (probabilmente facilitate anche dal format breve della storia). In primo luogo è del tutto inverosimile che un poliziotto,a poche ore dalla scomparsa di una persona adulta, avvii immediatamente le indagini e provveda, in assenza di indizi forti, a far compiere sopralluoghi e accertamenti (peraltro biologici) con sequestro di materiali all'interno dell'abitazione della scomparsa. In seconda battuta è impensabile che un uomo assassini una donna (cioè una cartomante) perché ricattato da quest'ultima che minaccia di riferire alla polizia che sua moglie, deceduta per infarto in una vasca, sia in realtà morta in quanto vittima di un malocchio (il malocchio, inutile sottolinearlo, non è penalmente rilevante). Ingenui e stucchevoli anche altri punti su cui l'Astori ricama per giungere alla soluzione dell'assassinio (tipo il poliziotto che nota il disordine dei cd musicali accanto allo stereo e immagina che sia dovuto alla foga del sospettato di mettere su un po' di musica per godersi la morte della moglie prima di chiamare i soccorsi o ancora che noti, a distanza di 11 giorni dal fatto, che le copertine sono state bagnate e attinte dalla schiuma portata da una mano o il medico legale che fa notare che il 118 è stato chiamato con 40 minuti di ritardo rispetto al decesso della vittima). Tutti "difetti" che di fatto fanno scivolare nel ridicolo un soggetto che avrebbe potuto offrire risultati ben diversi.

Tutte le altre storie sono per lo più caratterizzate dalla presenza di donne vittime di abusi sessuali adolescenziali (è il caso dei racconti di (Marina Crescenti e Annamaria Fassio), adulti (Daniela Basilico, brava sul versante erotico con il suo night sottorraneo ma prevedibile nello sviluppo) o psicologici (Marina Visentin, Nicoletta Sipos) che le portano a trasformarsi in assassine per vendetta ovvero di donne (Manuela Piemonte) o uomini (Elena e Michela Martignoni) gelosi che uccidono a causa di questo sentimento.
Tra tutti questi racconti è carino, in quanto più sviluppato e scevro da banalità (regnano nel testo della Crescenti causa un finale inverosimile finalizzato a sorprendere a tutti i costi il lettore, finalità perseguita anche dalla Sipos seppur con un testo ben più solido e verosimile) o da epiloghi telefonati (Basilico, Martignoni), il racconto della Fassio in cui abbiamo una donna che, a distanza di anni, ritrova l'uomo che la sequestrò e violentò per giorni, prima di esser stato arrestato dai carabinieri. L'incontro risveglia voglie peccaminose e masochistiche nella donna che, tuttavia, non ha il coraggio di mostrarsi al suo vecchio carnefice ma si limita a studiarlo da lontano per poi sognarlo di notte. Un giorno scopre che l'uomo ha adescato e sequestrato un'altra giovane. Così, mentre la polizia brancola nel buio, la donna libera la ragazza accoltellando l'uomo, ma lo fa più per gelosia che per un senso di giustizia o di vendetta.

Tra i meno riusciti e noiosi annovero i testi di Elisabetta Bucciarelli (testo con uno stile troppo sperimentale per i miei gusti), di Silvia Di Natale (racconto lentissimo e che si dimentica subito), di Carmen Iarrera (contenutisticamente parlando, anche se non è per niente erotico, non è un brutto racconto, ma non mi pare degno della sua autrice visto anche l'importanza della pubblicazione), di Roberta Pelachin (ottima l'idea della gabbia con gli uomini allupati che premono contro la recinzione per mettere le mani sulla ballerina che danza all'interno, ma poco funzionale alla storia che sembra esser stata scritta in due giorni tanto per scrivere qualcosa), di Claudia Salvatori(testo insulso anche se ben gestito) e il già citato racconto della Crescenti (il peggiore del lotto).

In chiusura si può sostenere che in “Eros & Thanatos” sono pochissimi i racconti capaci di stimolare veramente la fantasia del lettore, così come quelli che tentano di proporre qualcosa di bizzarro rispetto al canonico noir. Ho detto noir non a caso, perché i gialli veri e propri sono davvero pochi. Nella stragrande percentuale non si propongono enigmi da risolvere ma si parla di drammi umani o si elaborano soggetti di azione a sfondo criminale. Massiccio è il ricorso alle scene erotiche (peraltro garantite a dovere solo da alcune storie) e allo splatter con soluzioni finali troppo ricorrenti (uomini che finiscono accoltellati). I dejà vù non si limitano a questo, ma coinvolgono le caratterizzazioni delle protagoniste (donne perseguitate da ricordi di violenze e stupri adolescenziali che le trasformano in assassine e, in più di un caso, in vere e proprie serial killer) e dei loro uomini che appaiono come porci, e non di rado pedofili.
Alcuni racconti sono interessanti per lo stile e le atmosfere o per le caratterizzazioni dei personaggi, altri scioccano per momenti cruenti e disturbanti, qualcuno per la gestione di un intreccio forte anche se non innovativo. Troppi però sono i testi che stentano a decollare dilungandosi in serie interminabili di paranoie e di turbe mentali.
In definitiva un'antologia che parte così così per divenire sempre più noiosa nella sua parte centrale, viziata da monotematicità e incapacità di rompere gli schemi, per riprendersi decisamente con un guizzo nell'ultima decina di racconti. Nel complesso così e così. Voto: 5,5