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mercoledì 19 giugno 2013

Recensione Narrativa: LA SOCIETA' DI LUCIFERO (AA.VV. a cura di Peter Haining)


Curatore: Peter Haining.
Genere: Horror/Grottesco/Giallo.
Editore: Longanesi.
Anno: 1972.
Pagine: 290

Commento di Matteo Mancini
Dopo “The Satanist”, antologia collettiva con all'interno racconti scritti dagli specialisti della narrativa fantastica dei primi novecento come Lovecraft, Bloch, Blackwood e altri e da noi uscita con il titolo “I Classici della Magia Nera” nel 1971, il trentaduenne Peter Haining da alle stampe quella che dal titolo potrebbe sembrare la prosecuzione della prima opera ovvero: “The Lucifer Society” da noi tradotta come “La Società di Lucifero”.
Si tratta di uno dei primi lavori del giornalista che a poco a poco si affinerà come narratore e saggista quasi sempre con un occhio di riguardo per l'orrore e il paranormale. Molteplici le antologie curate da Haining, tra esse ricordo “Al Cinema con il Mostro”, “Grandi Storie Irlandesi del Soprannaturale” e “La Maledizione del Vampiro
Scriverà anche, oltre a una serie di romanzi, un saggio piuttosto apprezzato in patria sul leggendario assassino dell'800 Sweeney Todd cercando di provarne la reale esistenza. Interessante poi il saggio “Antichi Misteri”, un compendio sui casi e sulle architetture riconducibili, in linea teorica, a civiltà scomparse o aliene.

Orbene, al di là del titolo, “La Società di Lucifero” è un'antologia un po' atipica tra tutte quelle curate da Haining. Innanzi tutto la componente horror è quasi del tutto piegata in favore di quella surreale/grottesca, inoltre il lavoro si configura come una sfida tra narratori americani e inglesi del primo novecento, sfida di cui non fanno parte gli specialisti dell'horror. Abbiamo dodici racconti per un gruppo e altrettanti per l'altro per un totale di ventiquattro storie. Il richiamo a Lucifero è del tutto fuori luogo, così come è fuorviante l'immagine del monaco in copertina. Nel libro c'è poco spazio per il gotico, tanto che ci sono persino due racconti sci-fi mentre gli altri sono prevalentemente ambientati nei giorni nostri.
Haining vuole dare una veste chic alla sua antologia e seleziona un blasonatissimo gruppo di giallisti e di grandi firme autoriali. Troviamo addirittura coinvolti la bellezza di cinque premi nobel per la letteratura: Sinclair Lewis (1930), John Galsworthy (1932), William Faulkner (1949), Winston Churchill (1953) e John Steinbeck (1963). Penso si tratti di un caso più unico che raro per un'antologia di genere. A questi si aggiungono poi una serie di maestri assoluti sia del giallo, rappresentati da autori del calibro di Agatha Christie e Chesterton (l'autore della saga Padre Brown), sia del poliziesco con Raymond Chandler ed Ed McBain, ma anche del true crime con il grande Truman Capote, dell'horror con Patricia Highsmith e poi ancora il notevole William Maugham e il visionario William Burroughs.
Tutto lascia presagire un'antologia da non perdere, anche perché Haining – salvo qualche eccezione - pesca tra i racconti meno noti dei vari autori dando al volume una certa distintività.

Viste le premesse però si resta un po' con l'amaro in bocca. Molti dei soggetti non sono all'altezza della fama dei vari autori, alcuni addirittura sono piuttosto banali e ciò giustifica anche in parte il motivo per cui, in precedenza, non erano emersi. Ci sono tuttavia anche delle perle di rara bellezza.

Il racconto più bello è nettamente “Il Richiamo delle Ali” (The Call of Wings) di Agatha Christie, un vero e proprio masterpiece della narrativa fantastica/esoterica che sconfina per planare sul versante filosofico/esistenziale. Protagonista è un materialista legato agli agi del denaro che, improvvisamente, grazie alla musica "incantatrice" di un mendicante di strada privo di gambe (che altro non è che il Dio Pan), scopre il valore della vita spirituale. La musica infatti lo porta a entrare in contatto con un mondo che i cinque sensi non possono sondare compiutamente. La cosa turba l'uomo al punto da generargli delle crisi di astinenza una volta terminata la musica. Cade vittima di vere e proprie isterie e ha così inizio una terribile lotta interiore orchestrata da una parte dal materialismo e dall'altra dall'inafferrabile bellezza degli sfuggevoli protagonisti del mondo spirituale. "Non puoi venire con me, poiché io sono al di sopra di ogni altra cosa” gli dirà Pan, “Se segui il mio richiamo, devi rinunciare a tutto il resto e recidere le forze che ti trattengono. Soltanto i liberi, infatti, verranno ove io conduco". Così, l'uomo abbandona ogni ricchezza a favore dei poveri e si lascia andare verso il richiamo delle ali delle creature misteriose che volteggiano nell'altrove.
Il brano è dotato di un contenuto intrinseco nettamente superiore la media rispetto ai canoni del genere, tutto giocato sul rapporto tra il vivere seguendo i precetti materialisti e il vivere invece puntando il cuore verso i valori spirituali. Davvero notevole, specie se si considera che l'autrice è famosa non per i racconti fantastici ma per i gialli. Qua invece la Christie sembra essersi trasformata in Arthur Machen.

Il secondo racconto capace di affermarsi sugli altri è quello dello specialista di polizieschi Raymond Chandler. Anche lo scrittore americano, che ambienta la storia in Inghilterra, sforna un elaborato piuttosto bizzarro per le sue corde. Il suo “La Porta di Bronzo” (The Bronze Door) è un elaborato dal soggetto piuttosto classico per la narrativa dell'orrore del primo novecento (il testo risale al 1939) ma viene narrato con uno stile avvincente e con un taglio poliziesco da narrativa pulp (si noti gli ambienti degradati, la nebbia e i quartieri narrati come malfamati). La forza del testo sta soprattutto nelle descrizioni. Bellissima, al riguardo, la scena della misteriosa carrozza trainata da un cavallo che appare in mezzo al traffico automobilistico e procede invisibile per gli altri, ma non per il protagonista.
Il soggetto ruota attorno all'abusato tema dei negozi di antiquariato che vendono oggetti bizzarri (in questo caso un enorme porta di bronzo tempestata da intarsi indecifrabili) che poi si scoprirà esser dotati di poteri diabolici. La porta infatti cancella nel nulla chiunque varchi i suoi battenti. Il protagonista, un alcolizzato con un certo patrimonio, decide così di acquistarla e di tenerla in salotto, facendo a poco a poco scomparire la moglie che gli chiedeva il divorzio, il suo odioso cane e tenterà persino di fargli inghiottire l'investigatore incaricato di sbrogliare la matassa connessa alla serie di scomparse. Molto carino e scritto divinamente, anche se non originalissimo. Chandler evita di scendere a spiegazioni, cosa che permette al lettore di dare la risposta che vuole alla serie di enigmi che resteranno irrisolti.

Il terzo posto se lo contendono un poker di racconti diversi tra loro e interessanti per alcune peculiarità.

Il più bizzarro è “La Strada dell'Ira” (The Angry Street) di Chesterton, il quale propone un elaborato surreale e decisamente folle. L'inglese immagina un lavoratore quarantenne, schiavo delle abitudini, che percorre tutti i giorni una medesima strada senza alcuna curiosità e rinchiuso in un suo mondo interiore. Un bel dì l'uomo viene sconvolto dall'improvviso mutamento della via. Il rettilineo che conduce alla stazione, infatti, si è trasformato in un'irta salita proiettata verso il cielo. Un oscuro personaggio, uscito da un'abitazione, rivela all'uomo che il tutto è dovuto alla scarsa considerazione dedicata dai passanti alla strada che ora si è ribellata perché trascurata. Dunque un testo che fa della componente grottesca il suo punto di forza. Anche qua lo stile di narrativo è di qualità.

È invece un classico acclamato dell'horror, citato anche da Lucio Fulci nel film Aenigma, “L'Osservatore delle Lumache” (The Snail Watcher) scritto dall'americana Patricia Highsmith nel 1964. Il testo è sicuramente il più claustrofobico e disturbante del volume. Suscita davvero un'emozione di repulsione e disgusto, in questo la Highsmith supera tutti i colleghi raccolti da Haining. Qui a comportarsi in modo pazzesco è un facoltoso uomo di affari che un giorno, nel tempo libero, decide di studiare le modalità riproduttive delle lumache. Inizia così con pochi esemplari per proseguire allevandone in numero sempre più crescente, poiché si convince che le stesse gli portino fortuna. Da trenta esemplari finisce per averne oltre un migliaio che gli invadono il salotto al punto da rendere impossibile il recupero della stanza. Quando cercherà di contrastare l'avanzata degli animali, ormai appesi sui muri, sulla soffitta e sui mobili, finirà per esserne sormontato con tanto di occlusione degli orifizi. Senz'altro tra i testi più claustrofobici che mi sia mai capitato di leggere.

Gioca invece tutto sullo stile il grande William Somerset Maugham, di cui ho recensito alcuni mesi fa il romanzo “Il Mago”. L'anglo-francese, con “Un Uomo di Glasgow” presenta una ghost story piuttosto canonica ma dall'eccelsa atmosfera peraltro esaltata anche qua da uno stile narrativo sopraffino. Maugham struttura la vicenda con l'escamotage del dialogo tra due sconosciuti che si incontrano in una locanda spagnola e che parlano del più e del meno fino a giungere a parlare di una storia paranormale. Il narratore rivela allo straniero che nelle notti torride di luna piena una serie di risate e poi di grida giungono a destarlo impedendogli il sonno. Tutto sarebbe iniziato dopo aver visitato una casa abbandonata dove un tempo vi sarebbe deceduto uno schizofrenico. A portare il protagonista a entrare all'interno dell'abitazione sarebbero state delle risate di divertimento poi seguite da degli urli di disperazione che si sarebbero diffusi proprio dall'interno dell'edificio. Entrato però dentro l'uomo non avrebbe trovato nessuno.
Dunque una storia semplice ma decisamente sinistra e capace di regalare qualche brivido utile a esorcizzare queste calde notti estive.

La quarta storia a contendersi il gradino più basso del podio è quella del premio Nobel Sinclair Lewis che con “L'Assassinio Post Mortem” (Murder Post Mortem) sviluppa in modo estremamente coinvolgente un soggetto che altrimenti avrebbe rischiato di esser noioso.
L'espediente per tenere viva l'attenzione del lettore è quello della ricerca ossessiva messa in atto da un accademico trasformatosi in un vero e proprio detective.
Lo studioso, con velleità da romanziere, ha ricevuto da un uomo morente un lotto di poesie scritte dal padre: uno sconosciuto pescatore scomparso mezzo secolo prima. L'accademico dapprima snobba il materiale poi, una volta letto, ne resta fulminato e intende pubblicarlo non prima di aver scoperto un qualcosa di più sul suo autore. Ha così inizio un'ossessione che porta il professore a indagare e a coinvolgere nel suo studio testate giornalistiche e altri studiosi, con l'intenzione di fare dell'ignoto poeta un eroe nazionale. La realtà però era ben altra cosa, il poeta era un manigoldo di prima categoria che non aveva fatto nulla di buono nella sua vita. Nulla però sembra fermare l'accademico dai suoi propositi. Arriverà persino a commettere alcuni reati dal furto alla violazione di domicilio, fino alla violenza privata. Finalone a sorpresa.

Una spanna sotto questo poker c'è un trio di racconti comunque interessanti, in particolare “Il Caso al Numero 7 di Rue de M.” (The Affair at 7 Rue de M...) una vera e propria follia da trip mentale firmata dal premio Nobel John Steinbeck. Si tratta di un raccontino che potremmo definire alla Matheson (o alla King), in altri termini di quelli in cui dei banali oggetti quotidiani diventano degli infernali persecutori. Qua ad assurgersi in tale veste è addirittura un chewing-gum (!?) che costringe il figlio di uno scrittore a tenerselo in bocca e a masticarlo di continuo. Ogni tentativo di disfarsi dell'oggetto sembra non sortire effetto, dato che la gomma ritorna sempre a insidiare il piccolo. L'uomo dovrà rinchiuderla in una campana di vetro.
Testo dunque giocoso che pare essere un ammonimento di Steinbeck verso l'eccessivo uso delle gomme americane, non a caso lo scrittore a inizio racconto aveva proibito al figlio di farne uso in quanto urtato dal vedere ruminare il giovane durante le vacanze estive.

Si ispira invece a Isaac Asimov il quasi sconosciuto (in Italia) Paul Gallico, che con il suo “La Risposta Terribile” (The Terrible Answer) si inserisce nell'interminabile filone fantascientifico costituito dai calcolatori capaci di rispondere a qualunque domanda impartita dagli operatori.
Al riguardo, più che alla storia, è buona la caratterizzazione del protagonista dipinto come uno scienziato egoista che ha strumentalizzato affetti e amici per perseguire la sua sete di notorietà nel panorama accademico. Alla fine, pur adempiendo in modo geniale al lavoro che gli era stato commissionato dal governo in virtù del calcolatore dallo stesso creato, finirà per creare delle assurde formule matematiche per farsi rispondere dalla macchina a dei quesiti personali. In preda al delirio di onnipotenza finisce schiavo delle allucinazioni paranoiche dando delle interpretazioni sballate alle risposte della macchina che lo porteranno a suicidarsi perché convinto di esser stato superato in intelligenza dalla sua stessa creatura.

Eccezionale, vista la data di uscita (1953), il soggetto de “I Grigi” (The Grey Ones) che purtroppo John B. Priestley sviluppa in modo quasi saggistico piuttosto che romanzato. In altre parole la storia non c'è e tutto si riduce al colloquio tra uno psichiatra e un paziente con delle strane ossessioni. Davvero un peccato, perché il seme di fondo contenuto nell'opera è quello che sta alla base, a esempio, di un cult cinematografico assoluto nell'ambito dei B-Movie: Essi Vivono di John Carpenter.
Ne “I Grigi” infatti è riportata tutta la intelaiatura del film di Carpenter, solo che Priestley non ne fa una storia ma gioca tutto sulle reazioni dello psichiatra che ovviamente prenderà per pazzo il paziente.
Protagonista è un imprenditore convinto dell'esistenza di un complotto denominato il Principio Malefico. Si tratterebbe di un oscuro piano finalizzato a creare sulla terra un governo ombra che tramerebbe attraverso i suoi agenti per tramutare l'uomo in una creatura automatica e apatica, confusa nella massa, senza più individualità. Il fine del piano sarebbe quello di cancellare ogni prodigio, ogni felicità e ogni profondo sentimento. Per argomentare e provare quanto asserito, l'imprenditore svela allo psichiatra i nomi degli agenti, tra cui anche suo cognato. Questi vivrebbero attorno a noi sotto le sembianze di uomini normali.
Priestley spiega tutto nei dettagli e francamente non capisco perché abbia sprecato in questo modo un tale soggetto, quando invece avrebbe potuto utilizzarlo per scrivere una storia vera e propria piuttosto che un dialogo, peraltro lo scrittore britannico introduce anche dei bei monologhi che coinvolgono le tv e le radio usate per lanciare dei messaggi subliminali tesi a intorpidire le menti.
Ecco il passaggio interessato: “Il Principio Malefico può riuscire a ridurci simili agli insetti anche mediante un sistema radiofonico ininterrotto, che non lasci mai in pace la nostra mente e che ci dica di non tentare alcunché di nuovo, di stare sul sicuro, di non farci illusioni, di continuare nella routine, di non perdere tempo ed energie ponendoci interrogativi, cogitando, essendo fantasiosi e cosi via.” E ancora: “Lo scopo principale è quello di tramutarci in creature automatiche, in esseri confusi nella massa, senza alcuna individualità, in macchine senza anima, fatte di carne e di sangue... Siamo, né più né meno, manovrati!” Passaggi da capolavoro ma non sfruttati a dovere, peccato.

Tra gli altri racconti merita una veloce menzione “Legname” (Woods) del Premio Nobel Galsworthy per la capacità di suscitare una certa claustrofobia nonostante la limitatezza di un soggetto tutto incentrato sul peregrinare senza meta del protagonista disperso in orario notturno nella selva del suo parco.

Carino anche “L'uomo che non domandò perché” (The Man Who Asked Not Why) di Cecil S. Forester il quale stende un racconto della serie “Ai confini della Realtà” con un veggente che ha la visione della propria morte, vedendosi sofferente oltre ogni limite in ospedale. Per cercare di sfuggire ai patimenti il mago decide di tentare il suicidio non sapendo di creare proprio le condizioni per far esaudire la sua ultima visione.

Da segnalare poi il testo in salsa Poe del Nobel William Faulkner che, un po' stancamente, con “Una Rosa per Emily” (A Rose for Emily) tenta di scioccare il lettore con un finale intriso di “romantica” necrofilia inserito in una storia drammatica fatta di solitudine e isolamento. Abbiamo la classica zitella aristocratica che vive in un enorme magione ai margini del villaggio e dalle cui mure si levano degli strani odori.

Scritto molto bene il racconto firmato da Truman Capote e intitolato “Miriam”, il quale tuttavia delude un po' nel concepimento del soggetto che ha poco o nulla di originale. Abbiamo un'anziana vedova che finisce per essere molestata dalla presenza di una misteriosa bimba che pretende di stare in casa della donna.

Una nota a parte la spendo per lo sci-fi psichedelico “Qualcosa di Strano” (Something Strange) che ha la fortuna di anticipare di un anno il capolavoro di Stanislaw Lem ovvero Solaris, ma che viene penalizzato da una certa confusione nello sviluppo del soggetto e dal tentativo continuo di spiazzare il lettore specie nel finale. Scritto dalla poco conosciuta Kingsley Amis, ha comunque l'innegabile fascino di proporre quattro astronauti isolati in una base spaziale lontana anni luce dalla Terra torturati da bizzarre visioni che non riescono a comprendere se siano reali o frutto della loro immaginazione. Le visioni, dapprima, si manifestano all'esterno della loro navicella con creature umanoide deformi e poi all'interno del mezzo con granchi, insetti e quant'altro. Scopriranno pure di non essere nello spazio, ma di esser caduti vittima di un esperimento. Dunque un racconto con grande potenziale, ma non sfruttato al massimo. Comunque gradevole.

Le altre dieci storie vivacchiano, nei casi migliori, ai margini della sufficienza. Tra queste delude in modo clamoroso McBain (qua col suo vero nome Evan Hunter) di cui viene scelto un racconto piuttosto elementare di derivazione Browniana (il riferimento va a Frederic Brown).
Scialbo anche il testo dello statista inglese Winston Churchill incentrato sulla caduta in mare di un viaggiatore abbandonato in pieno oceano dal suo traghetto.
Giallo puro e convenzionale, di quelli che si leggono anche tra le pagine degli amatori con un certo talento, per un asso del calibro di Francis S. Fitzgerald (un po' poco per i miei gusti).
Brutti, ai limiti del leggibile, i racconti di Burroughs e soprattutto di John Updike che si mette a fare lo sperimentale scomodando, in chiave simbolica, i dinosauri.
Gli altri testi sono di Lawrence Durrell, Robert Graves, Graham Greene, Angus Wilson e MacKinlay Kantor.

Dunque un antologia rara da recuperare in quanto fuori catalogo, più ascrivibile al genere grottesco piuttosto che horror con un pugno di ottimi racconti e qualche idea in qua e in là geniale ma non ben sfruttata.
A proposito, a questa tornata e seppur di misura, gli inglesi battono gli statunitensi, al giudizio del Mancho.