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sabato 29 dicembre 2012

Recensione Saggistica: IL MIO NOME è CHE GUEVARA (Alejandro Torreguitart Ruiz)




Autore: Alejandro Torreguitart Ruiz
Anno: 2009
Edizioni: A. Car
Pagine: 252
Prezzo: 15,00 euro

Commento Matteo Mancini

Ottimo volume scritto dal cubano Alejandro Torreguitart Ruiz (scrittore in dissidio con il regime castrista e di solito impegnato in narrativa, di lui ricordo l'antologia fantastica "Mister Hyde all'Avana" edita da Il Foglio), presentato e tradotto da Gordiano Lupi per le Edizioni A.Car (il libro è disponibile per l'acquisto anche presso le Edizioni Il Foglio).
Si tratta di un volume storico/biografico che, per fortuna, abbandona le tentazioni politiche per tracciare un completo profilo del Comandante Ernesto Guevara, meglio conosciuto come il “Che” (nomignolo affibbiatogli dai cubani per un suo intercalare tipicamente argentino), ma anche della genesi e dell'evoluzione della rivoluzione cubana e dei vari focolai rivoluzionari dell'epoca sia in America latina che in Africa.

Torreguitart parla della giovinezza turbolenta di Guevara e del suo iniziale disinteresse per la politica fino ai viaggi in motocicletta che lo portarono a contatto con la povertà figlia dell'egemonia capitalistica.
A poco a poco si passa agli scontri in Guatemala fino all'esperienza in Messico e da questa ai preparativi per la rivoluzione a Cuba contro Batista, un tiranno corrotto piegato ai voleri della malavita statunitense, da cui partire in vista di una rivoluzione su larga scala che il "Che" non riuscirà mai a portare a termine. M
Molteplici i riferimenti alle varie dittature caraibiche e soprattutto all'influenza esercitata dalla CIA e dal KGB sui vari stati del terzo mondo.

Ne viene fuori un volume ben scritto, anche se ci sono alcuni refusi dovuti all'impaginazione (niente di che, sia chiaro). L'unico appunto può essere mosso su una certa ripetitività di alcuni concetti la quale, tuttavia, è senz'altro utile a fissare certi aspetti nella testa dei meno attenti.
Notevole il profilo che Torreguitart traccia, nel corso dell'opera, del “Che”, parlando sia della sua vita privata sia di quella pubblica. L'autore cerca di raccontare il tutto fedelmente senza farsi influenzare da idee politiche pro o contro la figura del rivoluzionario. Ne emerge il profilo di un uomo forte, coerente fino all'estremo per la difesa dei suoi ideali (riscatto dei più poveri, ridistribuzione equa delle risorse, alfabetizzazione dei ceti meno abbienti, accesso all'universita dei ragazzi di colore, lotta all'imperialismo e all'individualismo), ma anche duro e implacabile a danno dei traditori, dei disertori e degli stupratori, nonché dei collaboratori del governo di Batista (trucidati dopo processi sommari per crimini di guerra). Nulla sembrava in grado di fermare il “Che” neppure una terribile asma che lo rendeva schiavo delle medicine fin dall'infanzia. Lui andava avanti come un bulldozer, contro tutto e contro tutti (compresa l'Unione Sovietica che ebbe il coraggio di accusare di complicità con l'imperialismo a causa di una politica economica non adatta allo sviluppo delle nazioni povere, oltre che a evidenziarne la mediocrità dei prodotti e il lusso degli ufficiali del Cremlino che contrastava con le condizioni di vita di un sovietico medio). Aspetti che lo portarono a essere isolato dai moderati (che lui vedeva come un male perché propensi al tradimento in quanto sempre disposti a stringere compromessi), ma anche da chi era a caccia di risultati ben diversi dall'affermazione di un ideale. Per il "Che" tutto questo era assurdo, ciò che contava per lui era un qualcosa di ben più profondo di un ragionamento di carattertere materialistico, qualcosa da perseguire fino ad accettare rischi catastrofici come il possibile scoppio di una terza guerra mondiale che, a suo dire, avrebbe potuto sovvertire l'egemonia imperialista e riscattare i più poveri instaurando una società più giusta. Il “Che” finì con il condannare tutti i regimi comunisti presenti all'epoca, vedendo solo con una velata simpatia le influenze maoiste.

Torreguitart spiega bene le ragioni che stanno alla base delle crudeltà praticate dal "Che" e che trovano risposta nell'esperienza maturata dal Comandante in altre rivoluzioni.
Nonostante tutto non è sbagliato ritenere il “Che” un simbolo di giustizia e di riscatto, anche se perseguito a caro prezzo. "Solo la rivoluzione può condurre a un mondo dove non ci siano più sopraffazioni" era il suo pensiero più ricorrente. In altre parole, forse rischiando di scrivere un'eresia, si potrebbe individuare nel “Che” una matrice comune a quella di Gesù, ma sviluppata in modo diametralmente opposto. Laddove Gesù contava di operare una rivoluzione con un metodo pacifico e per questo spiazzante, il “Che” lo voleva fare a colpi di canna di fucile. Emblematiche, al riguardo, le foto che ritraggono il guerrigliero morto in Bolivia e sdraiato su una barella con barba e capelli folti. “Sembra Gesù” mormorarono in molti, suore comprese.

Ma chi era il “Che”? Era un giovane laureato in medicina, amante dei viaggi, del rugby, della letteratura e della poesia (era un lettore e studioso vorace). Scrisse persino testi di svariata natura, dalla filosofia alla poesia fino a volumi incentrati sulla guerriglia, per non parlare del taccuino che portava sempre con sé e in cui riportava idee, aforismi e appunti.
Era dotato di un carattere schivo, solitario, refrattario alle feste. Al tempo stesso era spavaldo, riluttante alla disciplina, non incline ai compromessi, con una caparbietà rara da riscontrare. Non aveva mai mezze parole, odiava il modo di fare diplomatico, per questo era diretto, sincero, per nulla interessato ai calcoli e alle convenienze personali. Durissimo con sé e con gli altri (è ricordato per il suo essere troppo moralista e per aver l'abitudine di sparare sentenze in modo eccessivo e maleducato), sospettoso verso chi gli facesse un favore e poco incline alle battute, pretendeva il massimo dai suoi uomini e come contropartita forgiava il carattere dei fedelissimi divenendo per gli stessi una guida quasi mistica. Il suo integralismo era talmente elevato da vivere con modeste somme di denaro e pretendere che i suoi cari facessero altrettanto, perché i soldi dovevano servire per la rivoluzione e loro dovevano dare l'esempio degli ottimi rivoluzionari, essere dei simboli da emulare per la gente comune. “Povero ma onesto” era ciò che era solito dire a chi gli chiedesse spiegazioni dei suoi comportamenti incomprensibili ed esagerati sotto il profilo materiale. Per il “Che” lo spirito di sacrificio per il perseguimento dell'obiettivo finale era massimo fino a ripudiare la vita civile (nonostante questo si sposò due volte ed ebbe cinque figli). Per tali motivi era lui stesso a scendere in prima linea nelle battaglie, ad avventurarsi in imprese suicidiarie (Congo e Bolivia dove si recò sotto falso nome e con travestimenti vari per non farsi riconoscere dal nemico) da compiere per meri fini idealisti e senza considerare le risorse a disposizione. Notorio anche il suo impegno con ritmi stakanovisti nell'assolvere gli incarichi burocratici che ricopriva sottraendo il tempo alla famiglia. Al “Che” non interessava il potere e neppure i soldi, voleva solo imporre un'idea per riscattare dall'oppressione il terzo mondo.

Torreguitart parla anche dei “difetti”. Della riottosità del “Che” nel lavarsi, tanto che la sua abitudine a girare con vestiti lerci, fuori moda e completamente disordinati portò alcuni amici a chiamarlo “El Chancho” cioè “Il Maiale”. Ampie parti sono poi dedicate alla violenza messa in atto dal Comandante per reprimere e scongiurare altra violenza. Questo non deve però far pensare a un "Che" sanguinario senza regole. Guevara era capace di apprezzare i nemici che si battevano in modo onesto al punto da soccorrerli a fine battaglia e a evitare che venissero uccisi dai compagni di lotta. Utilizzava i metodi brutali solo a danno di categorie di soggetti ben determinate, per le quali non nutriva nessuna pietà.

L'occasione di parlare di Che Guevara permette a Torreguitart di parlare a lungo anche di Batista e soprattutto di Fidel Castro, personaggio assai diverso dall'argentino. Il ritratto di Castro è quello di un abile opportunista che cavalca la situazione e utilizza personaggi di spicco per perseguire il meglio. Castro è però inizialmente una guida per il “Che”, utile a dosarne l'impeto e a trattenerlo entro certi binari, perché il “Che” era una vera e propria furia che si lanciava in pericoli senza battere ciglio con spirito fatalista e sempre disposto a esprimere le proprie idee anche quando ciò era inopportuno.

"Il mio nome è Che Guevara" è quindi un volume avvincente, un tuffo nella storia, che si dipana lungo le sue 252 pagine senza pause e senza foto e che vale sicuramente l'acquisto a prescindere dalle idee politiche perché con Che Guevara si sconfina in qualcosa che sta ben oltre alla politica.

Chiudo riportando le frasi con cui Torreguitart si congeda dai suoi lettori parlando del "Che":
"Che Guevara è stato un grande uomo, simbolo romantico di chi lotta per un ideale, un personaggio di statura mistica, spesso arrogante e ingenuo, forse sin troppo idealista. Non ha mai ricevuto dagli altri quello che si aspettava perché forse pretendeva l'impossibile, quello che soltanto lui era capace di tirare fuori da una grande forza di volontà. Naturale che sia diventata un'icona dei giovani che lottano per cambiare il mondo, meno naturale vedere il suo volto alle sfilate dei pacifisti.
Il Che ha sconfitto la morte e resta eterna immagine di lotta giovanile, sguardo risoluto e indignato di chi sente dentro di sé tutte le ingiustizie del mondo come fossero proprie.
"

mercoledì 26 dicembre 2012

Recensione narrativa: I MITI DI LOVECRAFT (AA.VV. a cura di Robert M. Price)


Autore: AA. VV.
Curatore: Robert M. Price.
Anno di Uscita in Italia: 2010
Editore: Mondadori - Collana Urania Epix
Pagine: 254
Prezzo: 4,90 euro.

Commento Matteo Mancini
Estratto in versione italiana della più copiosa antologia Tales of the Lovecraft Mythos curata nel 1992 dall'antologista e scrittore Robert M. Price.
Per ragioni di spazio, così motiva la scelta Giuseppe Lippi in calce al volume, vengono tagliati testi di importanti autori. Tra gli scartati troviamo infatti Robert Bloch, August Derleth (tra l'altro sono due i suoi racconti a esser tagliati dal progetto) e un testo di E. Hoffmann Price, a cui fanno compagnia i meno noti Bertrand Russell (e non Bertram come si legge sul volume dell'Urania), Mearle Prout e C. Hall Thompson.
La decisione lascia piuttosto perplessi per svariate ragioni. In primis viene inserito a termine del libro un racconto dell'italiano Marzio Biancolino che nulla ha a che fare con "I miti di Lovecraft" e che pertanto toglie spazio almeno a uno dei racconti tagliati che ben avrebbe potuto sostituire la fatica (peraltro poco produttiva vista la mediocrità del testo) di Biancolino. In seconda battuta Lippi inserisce alcuni testi (i due di R.E. Howard e quello di Henry Hasse) che seppur di ottimo livello erano già apparsi altrove a differenza, invece, di alcuni di quelli tagliati.

Premesso quanto sopra veniamo al libro composto, nella versione italiana, da tredici racconti scritti da undici scrittori contemporanei a Lovecraft e a lui legati da rapporti di corrispondenza ovvero di amicizia o di collaborazione.
Robert M. Price "si limita" a raccogliere il materiale e non ad allestire un'antologia creata ad hoc per l'occasione. Ne viene così fuori una selezione abbastanza omogenea e di discreto livello, con alcuni racconti che si avvicinano ai capolavori della narrativa dell'orrore cosmico.
Le tematiche, manco a dirlo, citano Lovecraft in modo esplicito così si parla di dimensioni ignote popolate da mostri tentacolari che possono scendere nel nostro mondo, di studiosi d'occulto che finiscono con l'impazzire, ma sono ricorrenti anche i riferimenti ai grandi antichi, al Necronomicon e al libro di Eibon.

L'antologia parte subito in quarta. Lippi cala gli assi a disposizione e propone una coppia di racconti di Robert E. Howard, seguita da un'altra coppia questa volta a firma di Henry Kuttner e da un testo di uno dei più qualitativi collaboratori di Lovecraft ovvero E. Hoffmann Price.
Apre le danze La Cosa sul Tetto un discreto testo che pare omaggiare Il Cane di Lovecraft. Come nel testo del Solitario abbiamo una profanazione di una tomba motivata da ragioni di lucro, col furto di un prezioso gioiello. Protagonista è un ricercatore di tesori che scopre, tramite un libro maledetto, la presenza di un tempio - in una località sperduta dell’Honduras - dove crede possa trovarsi un antico tesoro. L’uomo però troverà solo una mummia e una pietra bizzarra che apre le porte dei sotterranei del tempio. La superficialità del ricercatore libererà una creatura alata, dotata di tentacoli e zoccoli, che si sposterà dal centro America fino a Londra pur di recuperare il prezioso minerale sottratto dal ricercatore.

Il secondo testo, Il Fuoco di Assurbanipal, è addirittura superiore al primo, soprattutto per originalità e un tasso di azione degno di un racconto pulp. Il tema della storia resta legato a un prezioso gioiello su cui si narra sussistente un'antica maledizione.
Questa volta ad assumere la veste di primi attori sono due avventurieri, uno afgano l'altro americano. I due si avventurano nei deserti dell'Arabia alla caccia di una gemma custodita in un tempio abbandonato eretto in una città decaduta menzionata nel Necronomicon come la “città del male”.
Braccati da un'orda di mercenari beduini capitanati da uno yemenita, i due, dopo aver dato battaglia a colpi di scimitarra, saranno imprigionati proprio quando saranno sul punto di strappare la gemma dalle dita di un corpo mummificato seduto vicino all'altare costruito in onore di Baal.
Lo yeminita, facendosi beffa delle leggende, afferrerà la gemma finendo però preda del morso di una vipera. Colto da improvvisi spasmi sarà lasciato solo da i beduini. Questi ultimi infatti saranno tratti in inganno dalle superstizioni. I due avventurieri passeranno così dall'inferno al paradiso e faranno loro la gemma.
Il testo si distingue per un talento eccelso del narratore nel raccontare battaglie sanguinolente (non a caso è il papà di Conan il Barbaro) inscenate in città fantasma, tra statue di demoni e decadenza varia. Grande racconto.

Di livello superiore, forse la perla dell'antologia, è Le Sette Maledizioni attribuibile a un altro grande eroe della rivista Weird Tales: Clark Ashton Smith.
Tutto ruota attorno a un magistrato di una magica terra denominata Hyperborea che si lancia, ai tempi in cui Mammuth e Tigri dai denti a sciabola calcavano ancora la terra, con ventisei uomini in una battuta di caccia. Spavaldo e per nulla disposto a credere a storie esoteriche, l'uomo si avventura per conto proprio nella scalata delle pareti rocciose di un vulcano assopito, finendo per disturbare un'importante evocazione di un mago eremitaà. Il vecchio lancia così una maledizione sul cacciatore inibendogli la volontà e il pensiero per indurlo a scontare la punizione inflittagli. Così, partito per una battuta di caccia a danno di creature scimmiesche che vivono nelle grotte del vulcano, il magistrato si ritrova accompagnato da un bizzarro uccello demoniaco e vittima di tutta una serie di maledizioni che lo porteranno ad affrontare divinità mostruose dalla testa di ragno o di rospo, uomini serpenti, dinosauri ectoplasmatici fino a giungere al livello più basso dove dimora Abhoth ovvero il padre e la madre di tutta la sporcizia cosmica. Ogni divinità, infatti, per un motivo o un altro finirà per rifiutare di disporre dell'uomo per donarlo agli altri; persino Abhoth, che dispensa lucertole deformi e abbozzi di creature mostruose, rigetterà il dono in quanto fin troppo osceno per la sua produzione.
Così, dopo un lungo peregrinare, il magistrato verrà spedito nel limbo cupo, tetro e mostruoso noto come la superficie terrestre. Ma il viaggio di ritorno riserverà ancora qualche sorpresa...
Spasso alla stato puro per un racconto che oscilla tra avventura mitologica e orrore. A farla da padrona sono le bellissime descrizioni ambientali in cui Smith si abbandona alla fantasia più cristallina tratteggiando mondi alternativi in cui si giunge persino ad avere una luce superiore rispetto a quella solare.
Un racconto ai confini di una fiaba nera.

Imperdibili le due avventure di Henry Kuttner che si segnalano tra le più orrorifiche dell'antologia. Prima delle due è Gli Invasori, un testo che, a mio avviso, ha influenzato nettamente Stephen King nella stesura di The Mist (racconto che apre l'antologia Scheletri).
A richiamare mostri antichi confinati in altre dimensioni, questa volta, è uno scrittore horror che assume una droga capace di stimolare il cervello ed evocare le vite passate dell'anima. Lo studio del De Vermis Mysteriis di Ludwig Prinn porta l'ignaro narratore a risvegliare le mostruose divinità volanti, provenienti da un'altra dimensione, che popolavano la terra nei tempi antichi. Sul villaggio, in riva al mare, scenderà così una nebbia fitta, mentre lo scrittore e due suoi amici saranno barricati in casa con l'unica intenzione di precipitarsi fuori per raggiunger l'auto e scappar via.

Kuttner aumenta l'impatto apocalittico con il notevole Le Campane dell'Orrore. Ancora una volta la minaccia ricade su un qualcosa (tre campane dissotterrate da una ditta in Messico) capace di richiamare in superficie mostri sepolti nella notte dei tempi. Anche qua a nulla servono le leggende che si raccontano sulle campane e che parlano di una maledizione scagliata da una tribù indigena capace di richiamare, al rintoccare delle campane, un demone imprigionato nelle profondità della Terra.
L'orrore viene preceduto da strani episodi che portano gli operai impegnati negli scavi alla pazzia. Un bruciore agli occhi diviene presto preludio di bizzarre follie che portano alcune persone, guidate da misteriose voci interne, a strapparsi gli occhi dalle orbite. Un freddo fuori stagione inoltre avvolge la cittadina insieme a un cielo sempre più avaro di luce, ciò però non impedisce l'esposizione delle campane sulla pubblica piazza. Un violento terremoto colpirà infine il paese provocando il rintoccare delle campane e lo scendere di un buio pesto...
Dopo il testo di Smith è sicuramente il più avvincente e coinvolgente testo dell'antologia.

Un altro gioiello, sebbene meno brillante sotto il profilo narrativo, è Il Signore dell'Illusione di E. Hoffmann Price, autore che ha collaborato in varie occasioni con H.P. Lovecraft.
Il racconto in esame è un vero e proprio sequel de La Chiave d'Argento del maestro di Providence e assume interesse soprattutto per una serie di riflessioni metafisico/filosofiche.
Il sognatore a occhi aperti Randolph Carter (personaggio frutto della fantasia di Lovecraft) riesce con la chiave d'argento lasciatagli dagli antenati a varcare i confini della realtà e ad accedere in ciò che si cela oltre la materia. Ad attenderlo trova Umr at-Tawil, il più antico degli Dei, nominato anche dal Necronomicon. La guida mostra a Carter la caducità della materia e la limitatezza del mondo umano e delle costruzioni mentali proprie dell'illusorio ingegno degli uomini. La realtà non è tridimensionale, ma il frutto di una serie infinita di intersezioni di piani che si incontrano tra loro e in cui il tempo e lo spazio non esistono. Allo stesso modo le intersezioni dividono un unico individuo in una molteplicità di soggetti che saranno protagonisti nelle varie e distinte dimensioni originate dall'intersezione dei piani. Così una stessa persona vive centinaia di volte senza rendersi conto di essere la stessa persona. In questo modo, variando i piani e per mezzo della chiave di argento, si può regredire nel passato ovvero in ulteriori dimensioni e prendere possesso del corpo di un dato soggetto interessato.
Come detto siamo alle prese con un vero e proprio sequel de “La Chiave d'Argento” di Lovecraft, che parte laddove terminava quello del solitario di Providence. Il testo si segnala per dei passaggi filosofico/metafisici di primo livello (ricordano un po' anche alcune tematiche care al nostro Pirandello relative alla perdita di identità) andando a scardinare l'arroganza dell'uomo che crede in un Dio a sua immagine e somiglianza e non concepisce una realtà diversa da quella tridimensionale. Carter, come viene caratterizzato da Lovecraft nel racconto di riferimento, è un ex scrittore sognatore che reputa riduttivo l'atteggiamento dei suoi simili e cerca una realtà superiore a quella conosciuta, perché ha intuito un'esistenza diversa grazie a una serie di sogni adolescenziali che lo hanno reso addirittura profetico seppur senza rendersene conto.
Nel racconto di Price il “nostro” compirà un passo in avanti nel sondare l'occulto, acquistando la consapevolezza del tutto grazie alla perseveranza e all'insistenza di voler andare oltre i luoghi comuni. Inoltre il racconto di Price, a differenza di quello di Lovecraft, è ambientato in un mondo imprecisato e non nella nostra realtà, quasi una sorta di limbo in cui tutto ha inizio e in cui gli antichi siedono su troni attraversati da piani invisibili che creano infinite ombre della realtà ovvero una serie di dimensioni tra le quali vi è anche il mondo terreno. Da qui la massima: “l'uomo che cerca la verità è al di là del bene e del male e ha imparato che l'illusione è la sola realtà e la materia è un'impostura”. Il rischio, come contropartita di questa conoscenza, è ancora una volta la pazzia, poiché “nè morte, né sventura , né pena possono suscitare la suprema disperazione che deriva dalla perdita di identità". Randolph Carter e i suoi antenati sono in realtà la stessa persona vissuta in epoche diverse tanto che Carter dirà: “Tutto a un tratto mi resi conto di essere molte persone allo stesso tempo”.

Il tema del desiderio di andare oltre all'ordinaria conoscenza viene riproposto, seppur in modo meno convincente, da Richard F. Searight (Il Custode della Conoscenza) e da Henry Hasse (Il Guardiano del Libro). In entrambi i casi abbiamo due studiosi di paranormale affascinanti dal desiderio dell'onniscenza o comunque assetati di sapere, alle prese con oggetti (una tavoletta antica nel primo caso, un libro "più terribile del Necronomicon" nel secondo) capaci di evocare entità maligne dispensatrici di conoscenza.
Searight, senza evitare alcune ingenuità piuttosto macroscopiche (come la capacità del protagonista di tradurre testi scritti da intelligenze precedenti a quelle umane ovvero quella di leggere con la perfetta pronuncia alfabeti ignoti), regala qualche passaggio onirico non di poco conto e traccia l'evoluzione della terra dall'inizio alla fine dei tempi. All'inizio, prima ancora dei dinosauri, mostrerà come protagonisti ciclopiche creature presto insidiate dai grandi antichi provenienti dallo spazio.
Più convenzionale ma anche più ordinato Hasse con le sue maledizioni e i custodi di libri che tentano di far ricadere la maledizioni su incauti lettori. Un testo dal vago sapore della ghost story.

Il livello dell'antologia cala decisamente con gli altri racconti tra i quali, pur essendo inferiore ai già menzionati, è meritevole di menzione L'Abisso di Robert w. Lowndes. Il testo parla di illusionismo, con un esperimento ipnotico condotto da un carismatico individuo che poi si scoprirà esser un entità aliena, celata sotto sembianze umane. Il mago condurrà le cavie del suo gioco illusorio in un territorio ultra dimensionale popolato da mostri tentacolari portandoli a una morte priva di spiegazione. Breve, ma interessante elaborato.

Duane W. Rimel col suo La Musica delle Stelle propone la classica storia che verte sulla musica astrale capace di richiamare divinità (chiaramente maligne) da altre dimensioni. Piuttosto convenzionale anche L'Orrore di Lovecraft di Donald A. Wollheim che invece verte, sempre come strumento per superare la nostra dimensione, sulla matematica unita allo studio del Necronomicon e del Libro di Eibon.

Deludono i più conosciuti Jacobi e soprattutto Leiber, il primo con una storia sulla pazzia riconducibile a una creatura intrappolata in un acquario (da qui il titolo L'Acquario), il secondo con un testo strampalato, Per Arkham ad Astra, che vede i personaggi dei racconti di Lovecraft riunirsi presso la Miskatonic University, per celare gli orrori scoperti dal solitario di Providence. Durante la chiacchierata si sosterrà che il cervello di Lovecraft è stato estirpato dai plutoniani e condotto, ancora vivo, nel cosmo!?

Nel complesso un'antologia non sempre originale ma che è comunque un vero e proprio spasso per gli amanti degli scrittori del blocco weird tales. Visto il prezzo è consigliabile l'acquisto anche se almeno quattro dei tredici racconti sono stati pubblicati altrove. Voto: 7.5

domenica 16 dicembre 2012

Recensione: ZEMANOLOGIA - Filosofia di gioco e di vita di un genio del calcio (M.Palombella & F. Spaziani Testa))



Autori: Massimiliano Palombella e Francesca Spaziani Testa.
Genere: Saggistica.
Anno: 2012.
Editore: Ultra Sport.
Pagine: 194.
Prezzo: 12.90 euro

Commento Matteo Mancini.

In una giornata un po' infausta per i tifosi romanisti, sconfitta di misura immersi nella nebbia di Verona, vengo ad analizzare questo testo, uno dei tanti usciti in questi mesi sulla figura dell'allenatore boemo Zdenek Zeman.

Come non iniziare questa recensione attingendo direttamente dalle parole degli autori anche per meglio tratteggiare il personaggio Zeman a beneficio di chi non segua il calcio? Tra i passaggi più indicativi, il più appropriato, forse, è questo: "La carriera di Zeman è un lungo e costante esperimento. Un viaggio fatto di idee e intraprendenza. Ovunque sia stato ha provato a trasmettere la sua filosofia: bel calcio, divertimento, passione. Ha accettato scommesse. Ha vissuto realtà complicate e scelto strade difficili, tortuose. Si è sempre messo in gioco, riuscendo quasi ovunque a valorizzare talenti, a insegnare calcio. I campioni il boemo li ha scoperti da sé o se li è creati in casa, perché di grandissimi investimenti, nelle squadre allenate da Zeman, se ne sono sempre visti pochi".

Il duo Palombella-Spaziani Testa struttura il libro in modo sintentico e schematico con uno stile giornalistico proprio del mondo di loro provenienza. Sono quattro i capitoli in cui si sviluppa l'opera, quattro capitoli in cui gli autori narrano in modo leggero e scorrevole le vicessitudini della carriera di Zeman, attingendo a frasi storiche del boemo ma anche a dichiarazioni di terze persone. Emerge inoltre assai bene il concetto del calcio spettacolo, dell'esigenza di ottenere il risultato con un metodo volto a creare gioco piuttosto che a disfare o arginare quello dell'avversario: il modo in cui si ottiene un risultato, spiega Zeman, è importante quanto il risultato stesso.

Il primo capitolo, abbastanza breve, viene dedicato al personaggio Zeman, alla sua giovinezza e al suo carattere massimalista. Dunque si parla della sua fuga da Praga, del suo amore per gli sport in generale, dapprima come atleta e poi come studente. Viene poi spiegato il suo atteggiamento mentale e il suo approcciarsi al mondo in maniera idealista, senza compromessi, finalizzato alla ricerca dello spettacolo per il suo popolo e non solo. "Manichea è la sua concezione del mondo" dicono gli autori "Bianco o nero, senza sfumature. Zeman difende le sue idee sino alla morte, perché per lui sono verità assolute."

Nel secondo capitolo si affrontano le battaglie extracalcistiche di Zeman. Il materiale è sintetico, ma sufficientemente completo. Così troviamo la lotta contro il doping, calciopoli e i processi a carico della Juventus che causarono l'ostracismo ai danni dell'allenatore, a poco a poco, isolato e costretto a lavorare dapprima in serie B e poi addirittura in C1. Solo il tempo darà ragione a Zeman con il levarsi di uno scandalo che ha caratterizzato le pagine dei nostri giornali sportivi e non.
Si parla di industria del calcio e di come Zeman veda di cattivo occhio il calcio businnes, in quanto più legato a una visione romantica dello sport. "Continuate a fare calcio per passione, anche ad alto livello, non mettete il guadagno in primo piano. Il segreto è la passione" spiega ai giovani con cui lavora.
Infine si affronta l'ultimo scandalo del nostro calcio ovvero quello del calcio scommesse.
Il capitolo si chiude con una frase a effetto ma che rende bene l'idea del personaggio: "La battaglia di Zeman è come il suo 4-3-3: una certezza".

Il terzo capitolo del libro è quello più completo e interessante. Qui gli autori parlano del calcio di Zeman e della sua filosofia sportiva. Addirittura riportano le tabelle delle terribili (per la fatica) preparazioni estive romaniste e i più frequenti schemi di gioco fatti di verticalizzazioni e sovrapposizioni.
Si accennano anche gli spunti che hanno ispirato il calcio champagne zemaniano e il concetto dell'attacco come migliore forma di difesa: l'Olanda di Crujff e il Brasile anni '70. Zeman però precisa subito: "Credo che uno non si debba accontentare di copiare gli altri, perché così non si va lontano. Devi andare avanti con tue idee e con la tua visione tattica". Ed ecco infatti che viene spiegato come negli schemi dell'allenatore vi siano alcuni accorgimenti mutuati da altri sport come la pallamano e l'hockey per dar vita a uno stile inemitabile proprio del calcio zemaniano.

L'ultimo capitolo, infine, è dedicato alla carriera di Zeman con un'attenzione particolare alle squadre che ha allenato, ai piazzamenti ottenuti e ai rapporti con i giocatori e le varie presidenze con cui ha dovuto confrontarsi. Si riportano anche tutte le rose avute a disposizione eccetto (non si capisce perché) quelle del Licata, di cui si parla comunque.

In conclusione un libro che si legge in una giornata in virtù di uno stile giornalistico che lo rende leggero e privo di fronzoli. Forse un po' sintentico in alcuni passaggi, ha il merito di cercare qualcosa di innovativo introducendo i piani di allenamento e qualche schema tracciato su apposita tabella. Piacevole.

martedì 4 dicembre 2012

Recensione Narrativa: IL CABALISTA (Amanda Prantera)



Autore: Amanda Prantera.
Genere: Thriller Paranormale.
Collana: Urania (Mondadori).
Pagine: 178.

Commento Matteo Mancini.
Thriller paranormale datato 1985, uscito da noi nel 1996 nella collana Urania, The Cabalist è il secondo volume scritto dall'inglese Amanda Prantera dopo il più brillante Strange Loop (Il Cerchio Segreto, da noi uscito nel 1997 sempre sull'Urania).
La Prantera è una scrittrice che vanta qualche fan nella nostra penisola pur avendo avuto una distribuzione assai limitata. Sono solo tre le opere tradotte nella nostra nazione, tutte romanzi.
Il Cabalista è un romanzo che ho cercato per lungo tempo e che si distingue grazie a una bellissima copertina (nulla a che fare poi con il testo, visto che non avremo demoni giganti) curata da Oscar Chichoni e a una trama senza dubbio affascinante incentrata sui misteri della Kabbalah e ambientata nella splendida scenografia di una Venezia degli anni '80. Peraltro si tratta di uno degli ultimi volumi nella mitica veste grafica dell'Urania caratterizzata dalla copertina bianca bordata di rosso con cerchio centrale in cui inserire l'immagine estrapolata dal testo.
Tutto dunque lasciava presagire un romanzo di stampo esoterico che raramente capita di leggere nella narrativa contemporanea, ma così non è.
A fine lettura resta una grossa delusione, peraltro amplificata dall'attesa nel leggerlo..

La Prantera sviluppa un soggetto molto più adatto al formato del racconto. I personaggi infatti sono pochissimi (quasi si contano sulle dita di una mano), come pochi sono i fatti narrati. Così si procede diluendo il soggetto persino con capitoli in cui il narratore commenta quanto raccontato nei precedenti capitoli, quasi come se osservasse i fatti insieme al lettore per trarne deduzioni personali. presenza inolte massiccia di descrizioni ambientali che spezzano il ritmo e che non sono funzionali alla storia.
Peccato perché l'idea centrale ruota, senza mai approfondire, sui poteri della kabbalah (attraverso il ricorso all'arte numerica e linguistica) inquadrata come una magia (nella realtà si tratta più di scienza) per controllare gli esseri viventi e modificare a piacere la loro volontà.

Il protagonista è un vecchio cabalista a cui è stata diagnosticata una malattia incurabile e che vuol quindi far sopravvivere i propri studi individuando un depositario fidato a cui lasciare un testamento contenente le proprie scoperte. L'obiettivo potrebbe sembrare piuttosto agevole, se non fosse che il nostro è un tipo abbastanza solitario che si contorna di pochi individui instaurando con gli stessi dei rapporti abbastanza superficiali. Quasi nessuno sa che è un cabalista, tutti credono infatti che sia un interprete che vive con le traduzioni di testi scritti in lingua estera.
Non verrà creduto da nessuno tanto che sarà costretto a vagare, in cerca di una soluzione, tra i calli umidi e tetri di Venezia.
L'elemento paranormale viene personificato da un ragazzotto che spia il protagonista da un edificio dirimpettaio. Si tratta di un adolescente di origini russe, figlio di un cabalista morto in un incendio a Venezia svariati anni prima, che pare essere riemerso - con la complicità di Azazel - dal passato per compiere una missione ben determinata. Infatti, minerà lo status mentale del vecchio lanciandogli di continuo sulla finestra arti di gatti squartati e attenderà il momento propizio per rubargli il testamento,
Dal canto suo, il cabalista provvederà a introdurre nel testo una serie di dispositivi di sicurezza e di chiavi di lettura funzionali a rendere agevole la lettura solo a degli iniziati.

Oltre 170 pagine in cui c'è poco o nulla da segnalare sul versante del paranormale o dell'intreccio, per quello che risulta essere niente più che una storia drammatica con venature esoteriche. Finalone beffardo che non salva il testo, anzi lo rende ancor più deludente.

Concludo inoltre con una nota personale. Trovo ingiustificabile l'inserimento del romanzo in una collana come l'Urania solitamente dedicata alla fantascienza poiché di fantascientifico qua non c'è veramente niente! Quasi quasi sarebbe stato più adatto il giallo Mondadori.
Nel complesso piuttosto noioso. Trascurabile.